LUCA CASARINI
portavoce Centri sociali del Nord/Est, della Consulta dell'Autorganizzazione
Sociale
Il 20 settembre noi non scenderemo in piazza con il sindacato, ma crediamo che sia fondamentale che all'interno delle fabbriche ci sia finalmente aperta una discussione sulla Lega, che il sindacato si misuri con le sue contraddizioni, come tutti abbiamo fatto. La secessione e Bossi hanno, come ha detto Fausto Bertinotti a Venezia, almeno questo merito: costringono "le sinistre" a prendere atto che è necessario "cambiare dentro" per reagire a quel che in Italia, nel mondo, è già mutato radicalmente. A Venezia questo è divenuto, quando Bertinotti ha definito la piazza il "popolo dell'indulto", un tentativo di mutazione antropologica.
La Lega è uno, forse il più inquietante dei sintomi che ci è concesso di utilizzare per capire quali sono le malattie di cui soffriamo. In molti, soprattutto tra la "sinistra compatibile", dentro il sindacato o ai vertici del Pds e dell'Ulivo, avevano sperato di rimanere immuni. Aspettando in silenzio che passasse la febbre padana oppure addirittura tentando di neutralizzarla "inglobandola" in accordi e scambi. Nel caso del governo i ritardi, le non risposte, o peggio quelle date, sia in termini di finanziarie, che di federalismo o immigrazione, sono diventate complicità. E dall'interno del sindacato, a mio avviso dalla sua parte migliore, dalle parole di Giorgio Cremaschi e dei tanti sindacalisti che erano con noi a Venezia il 13, si capisce come nemmeno il risorgimento patriottardo può aiutare chi vorrebbe affrontare la Lega agitando il tricolore.
E' sullo stato sociale la partita vera. Quella in cui nessuno può mischiare la carte, alzando così il solito polverone perché non cambi nulla. Per questo il 20 non ci saremo. Per alzare meno polveroni possibili. La nebbia, quella dell'unità nazionale per la quale bisogna digerire tagli e sacrifici, prima per Berlusconi e ora per Prodi, quella di Treu, Ferrara e Di Pietro che aderiscono alla manifestazione, rischia già di omologare tutto in un contorno indistinto e incomprensibile, dannoso. E' grazie a queste marmellate che la Lega ha raccolto voti a man bassa dalle mie parti.
Credo che in questo senso, la manifestazione di Venezia della scorsa settimana possa rappresentare una svolta per tutti. La sinistra non è una, sola e indivisibile. Non sono nemmeno due. Sono molte, vengono da storie diverse e vedono il mondo anche in maniera diversa. Ma queste differenze possono diventare potenza, forza, ricchezza. La "moltitudine" non è la "massa", e credo che solo attraverso la capacità di essere una sola moltitudine, si superi anche il senso di impotenza che a sinistra coincide con l'impossibilità, per ogni esperienza, di puntare a essere di massa solo attraverso l'allargamento della propria base sociale.
Bisogna tenere aperta questa riflessione. Non dobbiamo cadere nel tranello dei fronti, cartelli, o alleanze che non hanno mai contribuito a sviluppare un ragionamento su come affrontare il futuro, su come attrezzarsi per modificare la cose dal profondo. Per questo la battaglia sullo stato sociale è un'occasione straordinaria per le sinistre che in Europa vogliono andarci per contrastare la logica del neoliberismo, delle banche, del Fondo monetario internazionale. Che vogliono esistere perché esistono le ingiustizie sociali, gli esclusi, coloro che subiscono questo mondo e non lo vivono. Le domande dei lavoratori ai delegati non sono sulla Lega, ma su pensioni, diritti, nuovi problemi che si incontrano ogni giorno.
E se è certo, almeno per noi, che sarebbe assurdo non battersi contro tagli a chi ha già poco, contro riduzioni dei servizi sociali, è altrettanto chiaro che bisogna immaginare un nuovo welfare, in questa Europa, che risponda alle esigenze di chi è escluso anche dal vecchio patto sociale. E' fuori da quello, perché il lavoro si è modificato, ed è fuori da ogni garanzia perché non esiste altro. E ogni patto sociale nasce dal conflitto, non dall'astuzia. La riduzione dell'orario a parità di salario, la produzione di servizi come valore d'uso, i diritti dei emigranti: quanto bene farebbe a tutti noi, misurarsi su questa sfida e non sulle parole o le ideologie.
Le manifestazioni del 20 non hanno le caratteristiche di quella del 13. Ma forse, proprio parlando di stato sociale e non di fantocci bruciati, si potrà rompere quella cappa di piombo che ha così aiutato Lega e Confindustria. Come non basta definirsi per "l'autodeterminazione" per essere dalla parte di chi lotta per più democrazia, giustizia e libertà, allo stesso modo non basta chiamarsi "lavoratori", per esserlo veramente. Come non è sufficiente dirsi autorganizzati per costruire realmente un'alternativa sociale. Il nostro compagno Marcos ci ha insegnato quanto poco valore abbiano le definizioni e quanto ne abbia invece la produzione di senso attorno a quello che si dice e si fa. Un senso ritrovato, il credere ancora nell'utopia della trasformazione radicale e nella materiale possibilità di cambiare qualcosa. Ne abbiamo bisogno tutti, e chi dice, dentro e fuori le istituzioni o i partiti, che il problema non lo tocca, vuole dire che ha altri interessi. Non certo quello di costruire dei percorsi di lotta che ci consegnino un futuro diverso. La storia non è finita. Ma solo per chi pensa che si può sempre cambiarla.