Interventi al seminario della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale

25 marzo 1996

Intervento 1
sul postfordismo

Abbiamo ritenuto necessario costruire questo momento di discussione e dibattito perché sentiamo il bisogno di rideterminare il senso, individuale e collettivo, del nostro agire politico. Per noi la politica non è "amministrazione dell'esistente", bensì passione collettiva, sempre rimessa in gioco, sperimentazione e verifica critica permanente. Da questo punto di vista il nesso fondamentale da riconquistare, e da rimettere sempre in discussione, mai dato per scontato, è quello del rapporto tra la teoria e la pratica. Il rapporto tra teoria e prassi è per noi costitutivo. Non vi può essere una teoria pura sganciata dalla pratica né vi può essere una pratica che si riduce al mero pragmatismo del giorno per giorno. Ci deve essere al contrario un intreccio strettissimo tra teoria e prassi, affinché ogni volta alle ipotesi teoriche frutto della discussione collettiva, di un ragionamento politico sulla fase, sulla situazione odierna all'interno dell'economia-mondo, si accompagni sempre una pratica conseguente. È questo l'unico criterio di verifica e validazione delle ipotesi teoriche che andiamo a costruire ed elaborare insieme. Il primato della pratica va proprio inteso in questo senso, perché solo la sperimentazione pratica di quanto affermiamo può confermare se alcune elaborazioni hanno validità oppure no. Questo concetto di rapporto tra teoria e pratica è stato sintetizzato con un termine molto efficace ed espressivo: "pratica teorica".

La "pratica teorica" è un concetto che noi ricaviamo - connotandolo con molte sfumature nostre - da Louis Althusser, un grande filosofo, figura tormentata e contraddittoria nella sua produzione teorica e nella sua storia politica, ma molto importante soprattutto sul problema del rapporto tra pratica e teoria e sulla "contraddizione" come elemento fondante e strutturante il nostro modo di pensare ed agire. Quindi pratica teorica e contraddizione come metodo sono sicuramente l'asse centrale di ragionamento attorno al quale possiamo comprendere e sviluppare le nostre riflessioni ed iniziative politiche. In primo luogo, dunque, "pratica teorica" come capacità di riportare sempre, anche all'interno della teoria, quello che è il punto di vista dell'antagonismo, della rottura. Non vi può essere una teoria pura e neutrale: la teoria è sempre di parte. Le nostre ipotesi teoriche sono sempre di parte perché si rivolgono immediatamente ad una composizione sociale antagonista.

"Contraddizione come metodo" significa non dare mai niente per scontato e assoluto. Quando fissiamo alcune soglie conquistate, quando queste soglie di pensiero e di esperienza pratica vengono fossilizzate e codificate non siamo più in grado di interpretare ed agire su una realtà in continuo movimento e trasformazione. Invece, ogni volta bisogna avere il coraggio e la capacità di rimettere in discussione anche gli elementi minimi sui quali ci siamo attestati. Questo è un altro discorso importantissimo. Una figura come quella di Mao Tze Tung è sicuramente lontana nel nostro immaginario, ma credo che il concetto della contraddizione come metodo e il concetto di un rapporto tra teoria e pratica abbia anche in questo grande rivoluzionario un suo riferimento fondamentale.
Questa è solo una piccola introduzione che serve anche per caricare di passione politica quello che stiamo facendo.

Oggi non possiamo pensare che vi sia uno sviluppo lineare nei percorsi della soggettività. I processi di costituzione della soggettività antagonista sono sempre più contraddittori e complessi, così come è contraddittorio e non-lineare lo scenario dell'economia-mondo, così come vediamo che accanto a elementi di possibile liberazione vi sono elementi di barbarie, di miseria e sfruttamento dispiegati su scala mondiale. Questa è la contraddizione: percorsi non lineari, non semplici, percorsi in cui ogni volta dobbiamo trovare la capacità di ri-capire una realtà in divenire.
Detto questo, penso che un elemento fondante del nostro tipo di analisi e di approccio riguarda la trasformazione epocale sul terreno del modello produttivo: questo da un punto di vista materialista critico, marxiano. Dobbiamo analizzare le trasformazioni radicali che sono avvenute e stanno avvenendo sul terreno dell'organizzazione sociale del lavoro o meglio su quel terreno in cui gli uomini riproducono materialmente la propria esistenza: abbiamo definito (con una categoria sintetica) questo vero e proprio mutamento di paradigma come "post-fordismo".

Forse è più semplice identificare e dare una fisionomia a questa figura del "postfordismo" paragonandola al vecchio modello produttivo, facendone un'analisi comparata. Nel vecchio modello produttivo definito come "taylorista-fordista-keynesiano" vi erano alcune caratteristiche strutturali:

  1. una determinata organizzazione tecnica del lavoro chiamata "taylorista", cioé quella incentrata sulla fabbrica manifatturiera (con la sua catena di montaggio), e che prevedeva la riduzione della forza-lavoro operaia a pura e semplice appendice del sistema di macchine, a mera esecutrice di alcune mansioni parcellizzate. Dentro questo tipo di organizzazione taylorista si assiste ad una netta distinzione tra funzione progettuale e funzione esecutiva: la forza-lavoro viene espropriata di qualsiasi intelligenza e sapere; chi riunifica il processo produttivo è il cervello del capitalista.

  2. dal punto di vista dei rapporti salariali e del rapporto tra produzione e consumo il periodo precedente è definito "fordista". Il fordismo si basava sulla previsione di uno sviluppo illimitato delle forze produttive, sul mito del progresso indefinito, sul rapporto tra aumento della produttività, aumenti dei salari e consumi di massa: la famosa epoca dei beni durevoli, dei beni di largo consumo. Si producono continuamente delle merci perché si presuppone che vi sia la possibilità da parte della forza-lavoro sociale di acquistare queste merci. Vi è, quindi, un circolo virtuoso: sviluppo illimitato delle forze produttive, aumento della produttività, dei profitti e dei salari al tempo stesso, consumo di massa, in un meccanismo che si riproduce in maniera sempre più allargata e diffusa.

  3. dal punto di vista della politica dei redditi, della ridistribuzione della ricchezza sociale questo è il periodo "keynesiano". Quindi la fase precedente è una fase "fordista-taylorista-keynesiana", in cui si disegna la figura dello Stato sociale. Stato sociale significa l'intervento diretto dello Stato sul terreno economico attraverso l'uso della spesa pubblica. Si tratta di fare una politica di piena occupazione, e una determinata redistribuzione del reddito sociale. Lo Stato sociale è il frutto di profondi e strutturali conflitti di classe: è il frutto di una mediazione tra capitale e lavoro sul terreno della lotta di classe. Ha pertanto al suo interno delle dinamiche conflittuali e di lotta di classe molto forti che accompagnano la formazione della classe operaia e della soggettività operaia, perlomeno dalla risposta roosveltiana alla crisi del '29 fino alla fine degli anni '60, se vogliamo schematicamente periodizzare. Quindi Stato sociale di tipo keynesiano all'interno di una economia nazionale, rapporto tra produzione e consumo, posto di lavoro a tempo indeterminato e obbiettivo della piena occupazione: questi sono i parametri su cui possiamo disegnare a livello strutturale la figura complessiva del "fordismo".

Se osserviamo la realtà odierna, come si è modificata sul terreno produttivo, capiamo quale sia la profondità e l'estensione di questa trasformazione: non vi è più la figura della piena occupazione o del posto di lavoro fisso. Oggi il nuovo modello produttivo implica la flessibilità e la mobilità della forza-lavoro sociale; mobilità e flessibilità che modificano profondamente anche i paradigmi spazio-temporali. Nel fordismo la giornata lavorativa aveva una determinata dimensione temporale e un luogo fisico ben preciso che era il centro della produzione (la fabbrica fordista-taylorista). Tutto gravitava attorno a questo: la città e il territorio, il vivere, il costruire e l'abitare. Proprio rispetto a questo scenario, le modificazioni strutturali intervenute sono oggi particolarmente evidenti: la flessibilità della forza-lavoro sociale, l'appropriazione dell'intelligenza e della creatività dei lavoratori, la loro mobilità all'interno di luoghi non più ben individuabili (come era invece la grande fabbrica e attorno ad essa la città-fabbrica), nel quadro della produzione sociale diffusa, della produzione in rete: queste sono tra le caratteristiche del postfordismo e ciò implica necessariamente anche una modificazione culturale e concettuale dello spazio e dei tempi della giornata lavorativa sociale. Se, da una parte, questo processo ridisegna profondamente la geografia del potere dal punto di vista dello spazio e i dispositivi di comando sui tempi di lavoro e di vita, dall'altra, credo, dobbiamo ricavare anche una considerazione molto importante per noi: dobbiamo ridisegnare lo spazio e il tempo attorno a questi paradigmi dal punto di vista della sovversione, dell'antagonismo. Credo sia fondamentale acquisire questa ridefinizione del tempo e dello spazio e penso che a tutt'oggi non siamo ancora riusciti a interpretare fino in fondo la rivoluzione dei paradigmi mentali e culturali che questo comporta.
Secondo aspetto, sempre caratteristico del post-fordismo: la crisi dello Stato sociale. Su questo è stato scritto molto e non mi dilungo. Vediamo che vengono a mancare quei meccanismi specifici di rapporto tra produzione, consumo, politiche statuali di redistribuzione del reddito: assistiamo al trionfo dell' "ideologia neoliberista", l'apologia del mercato - sappiamo che sono delle mistificazioni ma funzionano, producendo effetti sul piano delle condizioni materiali - in cui vi è uno sgretolamento progressivo ed inesorabile dello Stato sociale che abbiamo finora conosciuto e vi è una segmentazione gerarchica, una catena di stratificazioni e privilegi che vengono distribuiti socialmente, all'interno di una nuova forma statale che anche in Italia si va ridisegnando.

Abbiamo questi elementi che sono abbastanza comuni e consolidati: produzione sociale diffusa dopo la fine della centralità della grande fabbrica, mobilità e flessibilità della forza-lavoro, ridefinizione dei paradigmi dello spazio-tempo, crisi dello Stato sociale e crisi dello Stato sociale come Stato-nazione. Questo processo si inserisce in un quadro fondante: caratterizzato da una parte dalla globalizzazione economica, con la formazione di un vero e proprio mercato mondiale, l'internazionalizzazione dei flussi finanziari, dei flussi della forza-lavoro e, dall'altro lato, come figura che si accompagna alla globalizzazione e che è ad essa complementare, dalla localizzazione produttiva. Noi abbiamo questi due aspetti - globalizzazione e localizzazione - che sono complementari, all'interno della modificazione strutturale a cui stiamo assistendo.
Ho indicato alcune questioni legate al postfordismo: si tratta di approfondirle e articolarle. Quando alcuni anni fa abbiamo cominciato a parlare di queste cose siamo stati considerati quasi dei marziani o pazzi eretici, ora anche dalle pagine de "il manifesto" si è aperto un dibattito costante attorno a queste problematiche su cui stanno intervenendo un pò tutti. All'interno della sinistra non-istituzionale tutti ormai sembra abbiano acquisito questo tipo di categorie. Quello che manca è un'inchiesta sulle modificazioni reali della soggettività e della composizione sociale di classe all'interno di queste trasformazioni. Noi abbiamo ancora una visione estremamente frammentaria e frammentata delle figure sociali e della soggettività del lavoro sociale oggi. Questo ci impedisce di individuare in termini unitari o sintetici una soggettività che possa essere determinante all'interno di questi processi. Osserviamo una enorme frammentazione e registriamo una mancanza di conoscenze, di inchiesta. Ormai tutti parlano di postfordismo ma non si è fatto un passo avanti sul terreno dell'inchiesta e poi - ed è questa per noi la cosa più importante - non emerge in queste prime fasi del postfordismo una soggettività di massa che, nell'esplosione di conflitto sociale, produca o che sia in grado di produrre visibilmente nuovi percorsi e processi di liberazione. Noi questo ancora non lo vediamo, per cui qualsiasi ipotesi azzardata o l'esaltazione/esagerazione di alcuni segnali e sprazzi di lotta che qua e là si vedono all'interno di questo scenario non sono assolutamente sufficienti oggi per definire o disegnare i contorni di una soggettività che si ponga con forza e potenza sul terreno di un nuovo progetto di liberazione sociale.

Volevo però fissare l'attenzione su un punto centrale: nel postfordismo assistiamo a una processo che abbiamo definito come "rottura della dialettica". Questo ci porta su un terreno molto complesso, dalle molte diramazioni. Cerco di affrontarlo da tre punti di vista. Tutto quello che noi osserviamo nel postfordismo è legato, da un punto di vista generale, a ciò che Marx chiamava la "sussunzione reale del lavoro nel capitale". Per chi volesse approfondire questa categoria marxiana, la si trova esposta in maniera chiara nel Capitolo VI Inedito del I Libro del Capitale in cui viene descritta la differenza tra sussunzione formale e sussunzione reale. In breve: nella sussunzione formale abbiamo, nelle prime fasi dell'accumulazione capitalistica, la sottomissione di modi di produzione già preesistenti: abbiamo i laboratorii artigianali per esempio, insieme ad una serie di forme della produzione che già esistono. Il capitale se ne appropria, li concentra e dà loro la sua impronta nel suo rapporto strutturale e fondante, cioè il rapporto di lavoro salariato. Quindi trasforma il lavoratore indipendente o "libero", grandi masse di uomini che sono stati espropriati dei mezzi di produzione in lavoratori salariati, ma non muta ancora sostanzialmente la forma del processo di produzione. Nella sussunzione reale invece il capitale fonda, forma, plasma la sua stessa società, cioé la società vera e propria del capitale. Il modo di produzione è immediatamente e direttamente capitalistico. I rapporti sociali sono tutti messi in valore. La sussunzione reale significa che ogni ambito della vita, della produzione e della riproduzione diventa elemento della valorizzazione capitalistica. Nella sussunzione reale la riproduzione sociale, la nostra vita, ognuno diventa elemento di produzione di valore, elemento di valorizzazione. Il tempo di comando e di sfruttamento si distende lungo l'intero arco della vita sociale. Il capitale plasma la sua società, il proprio specifico modo di produzione.

In Marx questo passaggio alla sussunzione reale era visto in modo lineare; era visto come il passaggio alla prima fase di una nuova società, le condizioni materiali sulla cui base costruire il comunismo. In Marx la sussunzione reale era la base materiale sulla quale era possibile costruire un'altra società, formare l'individuo sociale, la cooperazione sociale libera tra uomini liberi, il rapporto tra individuo e collettività come relazione in cui: "il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti". Questa in Marx era la visione lineare e non poteva essere altrimenti: Marx è un uomo dell'Ottocento ed era profondamente influenzato dall'ideologia del progresso, dallo storicismo, dall'idealismo hegeliano; tracce di queste concezioni rimangono in Marx. D'altra parte non si può pretendere di più, egli non era un mago con la sfera di cristallo, ma per noi è importante ancora oggi perché è stato, forse, l'unico ad aver intuito molto tempo fa il punto a cui saremmo arrivati. Oggi noi siamo dentro la sussunzione reale, questo è il problema: ma la trasformazione lineare della società del capitale - in cui il lavoro è comandato, forzato e salariato - ad una società in cui la cooperazione sociale è elemento fondante, materialmente costitutivo della libertà e del comunismo, questa non si è data. Anzi, al contrario vediamo che la sussunzione reale, cioé il dominio capitalistico sull'intera vita all'interno delle metropoli e dell'intera economia-mondo, determina scenari di distruzione, di barbarie e di miseria. Vediamo l'opposto della figura anticipata da Marx. Da questo ne ricaviamo un discorso strano e non usuale per il nostro modo di pensare, abituati a ragionare sempre in termini strettamente politici o strettamente analitici marxiani: un discorso che apre una visione del mondo di carattere pessimistico.

Vorrei che qui non vi fossero equivoci: noi oggi non vediamo emergere una soggettività potente che si libera, non vediamo la sussunzione reale corrispondere ad una prima fase di comunismo, ma leggendo i giornali o guardando la televisione ci accorgiamo che il mondo è divenuto uno scenario di rovine, di distruzione e di barbarie. Il pessimismo di cui parlo è chiaramente un pessimismo relativo, non si tratta di un pessimismo cosmico e assoluto; è un pessimismo relativo determinato dalla dimensione storica, dalla sua materialità e dall'oggettività dei fatti che vediamo.

Ma che cosa significa pessimismo? Vediamo di mettere più a fuoco questa figura. Pessimismo non significa impotenza, non significa paralisi dell'azione. Vorrei citare Max Horkheimer che è stato uno dei fondatori della scuola di Francoforte insieme ad Adorno e che è rimane un importante punto di riferimento teorico, in quanto la scuola di Francoforte ha avuto una forte influenza sul marxismo critico e rivoluzionario nel '68. Dunque Horkheimer è uno dei padri fondatori del pensiero critico, a sua volta profondamente influenzato dalla filosofia di Schopenhauer - questi intrecci nello sviluppo del pensiero sono molto importanti da cogliere - egli diceva che pessimismo non significa inazione, al contrario: dire francamente il peggio, senza veli serve per agire e per fare il meglio. Dobbiamo capire la relazione tra questi due elementi. Dire che il mondo va male non significa accettare fatalisticamente un destino, significa anzi attivarsi ancora di più per trasformare l'esistente e cambiare le cose. Questo è il messaggio importante della teoria critica. Quindi pessimismo come figura che spinge all'azione e dà all'azione politica concreta quotidiana un senso e un valore ancora più significativo, valorizza di più quello che facciamo dentro una dimensione come questa, per trasformare piccole o grandi cose, per cambiare anche noi stessi all'interno della trasformazione. Credo che questo sia importante.

Il pessimismo è anche profondamente legato alla storia del materialismo antico e moderno. Voglio ricordare che proprio Marx si laureò con un saggio sulla differenza tra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro, per cui le influenze del vecchio materialismo classico sono presenti e molto forti nella sua formazione. Noi siamo materialisti moderni, ovviamente, ma la nostra mentalità non è idealista, non ragioniamo sul mondo delle idee, ragioniamo sulle passioni degli uomini, sulla loro vita materiale, sulla nostra vita materiale. Il materialismo ha sempre avuto al suo interno una vena di pessimismo, da Epicuro a Lucrezio, a Spinoza; lo stesso Marx, quando le rivoluzioni del 1848 e la Comune di Parigi nel '71 sono fallite (come del resto tutte le rivoluzioni !), ha cominciato a credere un pò meno al discorso del proletariato come classe universale, che avendo in sé il massimo dell'alienazione e del negativo può rappresentare proprio per questo il riscatto universale e generale per tutta l'umanità. Ha dunque cominciato a vedere le questioni più a lungo termine, perché dopo le rivoluzioni ci sono degli effetti, delle controrivoluzioni che penetrano molto profondamente nella soggettività degli uomini, basta vedere oggi. La controrivoluzione, che è iniziata verso la metà degli anni '70, ha scavato profondamente, altro che la vecchia talpa del comunismo. La controrivoluzione ha scavato e si è incisa profondamente nei soggetti dell'epoca postfordista.

Per esempio, oggi vediamo come attorno ad un discorso populista di destra si raccolgano ceti sociali di varia natura tra cui vi sono, dalle borgate romane alle periferie ex-rosse del vecchio Triangolo industriale, ceti operai e proletari. Vediamo come la controrivoluzione incida sui soggetti. Non possiamo dare per scontato che una classe esista di per sé come dato oggettivo, ma le classi si formano nell'antagonismo e nella stessa lotta di classe. È la lotta di classe che produce la soggettività antagonista, non può esservi il processo contrario, e quando questa non c'è si incidono profondamente nei comportamenti valori, ideologie e pratiche assolutamente antitetiche a quello che noi vorremmo, al nostro bisogno di liberazione. Nel quadro della sussunzione reale, vi è sicuramente la rottura con un meccanismo e una logica di tipo lineare, il dissolversi di ogni grande narrazione e di ogni concetto assoluto - la Grande Rivoluzione, la grande utopia. C'è la definitiva distruzione del pensiero idealistico - cioé il fatto che la storia è fatta non tanto dalle azioni concrete degli uomini ma dalle idee - e di ogni storicismo, di ogni concezione finalistica della storia - come se la storia dovesse realizzare un fine supremo e assoluto, quello che Hegel chiama "lo Spirito Assoluto", chiamiamolo il "Comunismo", chiamiamolo come vogliamo ma il problema è che la storia nella visione storicistica/idealistica viene vista come un processo a tappe che sono il passaggio per realizzare qualcosa che è stato scritto fin dall'inizio, un destino ineluttabile, che si conclude nella "Fine della Storia".

La rottura del meccanismo di pensiero lineare significa afferrare il pensiero della discontinuità, della rottura, delle dislocazioni. Dalla fisica contemporanea alle correnti filosofiche più profonde del pensiero moderno - al di là degli esiti reazionari che sono stati ricavati dal pensiero di autori come Nietzsche e Schopenhauer- , vediamo come vi sia il tentativo costante di distruggere lo storicismo, l'idealismo e la vecchia metafisica comunque mascherata. Assumere come costitutiva la rottura, la discontinuità del tempo lineare come tempo omogeneo e vuoto, la coesistenza di temporalità differenti è, secondo me, una rivoluzione importante, anche mentale, che noi dobbiamo fare. La coesistenza di temporalità differenti rompe con un rapporto lineare tra causa ed effetto, come se a una causa dovesse necessariamente corrispondere un determinato effetto: una causa contiene molte cause al suo interno e produce una molteplicità di effetti. Come potrebbe dire Spinoza, l'essere fiorisce in una infinita molteplicità di modi, di forme, di potenzialità, di alternative: è questo il senso del materialismo. È la potenza costitutiva dell'essere nella sua infinita varietà; è pensiero della differenza e della molteplicità, non pensiero di una storia unilineare di un unico soggetto, di un'unica identità che man mano si forma per successive sintesi dialettiche. Credo che questo sia un elemento importante anche se complesso da acquisire: la critica al pensiero dialettico e alla sua genesi idealistica ha delle grandi implicazioni di carattere filosofico, inscritte nello sviluppo del pensiero della modernità.

Ma, al di là di questo aspetto concettuale pur interessante, rimane un altro nocciolo che credo sia più importante da affrontare, sul problema della rottura della dialettica, ed è legato alla nostra esperienza politica e alla nostra formazione teorica, è legato al materialismo critico cioé ad una interpretazione marxiana di questa problematica. Quale dialettica si è rotta? Parliamo chiaramente di una dialettica particolare, storicamente determinata ed è il rapporto tra le lotte operaie e lo sviluppo capitalistico.

Lo sviluppo del capitale, proprio perché è un rapporto contraddittorio e conflittuale, implica che sia la stessa lotta di classe a spingere, a provocare delle dislocazioni in avanti alla struttura complessiva del capitale, fin dalle prime lotte sulla giornata lavorativa sociale nell'epoca dell'accumulazione originaria. La lotta operaia, il sabotaggio, il luddismo costringono il capitale a modificare la sua composizione, a introdurre elementi di innovazione tecnologica sempre più ampi per ridurre la parte di lavoro necessaria per la riproduzione della forza-lavoro e con questo aumentare la parte di plusvalore estorto, di plusvalore di cui il capitale si appropria gratuitamente. Il rapporto è tra forze che si scontrano, attorno su questo campo di battaglia costituito dalla giornata lavorativa sociale. Da una parte la liberazione di tempo di lavoro - e la lotta operaia lo afferma con forza - chiede la riduzione della giornata lavorativa sociale, chiede garanzia di vita con la legislazione sulle fabbriche, che fu anche una imposizione operaia. Dentro a questo meccanismo, da una parte abbiamo una concezione della lotta come liberazione del tempo e dall'altra abbiamo da parte capitalistica la riduzione del tempo di lavoro necessario per aumentare il tasso di sfruttamento. Su questo elemento sta la contraddizione del capitalismo, è la dinamica antagonistica del "plusvalore relativo".

Tutto questo processo prosegue dall'accumulazione originaria allo Stato sociale, dentro un meccanismo dialettico, cioé dentro a un rapporto in cui è la lotta operaia che produce innovazione. Il conflitto viene di volta in volta risolto e mediato su un piano, in una sintesi superiore. Questo vuol dire che quello che ne esce è il frutto di un dualismo, il frutto di una lotta, di un conflitto che sta alle spalle. Così il patto sociale, la costituzione fordista, la costituzionalizzazione del lavoro sono la mediazione tra capitale e lavoro, sono il frutto di questo antagonismo che stà a monte: ogni processo, ogni salto in avanti della composizione organica del capitale, ogni innovazione tecnologica ha alle spalle il conflitto e la lotta; questo è il senso del rapporto tra lotte-crisi-ristrutturazione e ancora lotte-crisi-ristrutturazione ...

È chiaro che in questo modo si prosegue all'infinito. Ma si va avanti all'infinito? Questo è il problema oggi. Non si può, all'interno di questo, andare avanti all'infinito. C'è un punto in cui emerge una differenza qualitativa inconciliabile, in cui non è più possibile trovare un rapporto di mediazione tra lavoro vivo=lavoro sociale e lavoro morto=capitale. Gli effetti devastanti di questa questione oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Marx sintetizza molto bene questo concetto: "la macchina corre là dove c'è lo sciopero". L'introduzione di macchinario non è una scelta "a priori" del capitalismo, anzi l'innovazione tecnologica viene applicata laddove c'è la lotta, dove si sviluppa conflitto. Non solo in Marx, c'è tutto un filone, una metodologia, un tipo di pensiero che mette in luce il rapporto tra conflitto e innovazione, tra lotte operaie e sviluppo capitalistico: vorrei citare "Operai e capitale" di Mario Tronti, "L'altro movimento operaio" di Karl Heinz Roth, "The Making of the English Working Class" di Edward Thompson, "Lo schiavo americano dal tramonto all'alba" di Rawick, gli ultimi lavori di Antonio Negri. C'è un'asse di pensiero che si pone questo rompicapo: essere nella sussunzione reale, vedere il meccanismo di rottura della dialettica come rapporto di mediazione tra capitale e lavoro però non riuscire ancora a trovare quelli che sono gli elementi che possono fondare e costituire all'interno di questa dimensione una nuova soggettività.

Se il dominio del capitale è globale come può emergere, all'interno di questo, una soggettività antagonista che abbia in sé la potenza della distruzione generale del rapporto di sfruttamento e allo stesso tempo la potenza di costruire un mondo nuovo? Questo è il grande problema che si apre. Quindi la rottura della dialettica ha varie implicazioni a più dimensioni, tutte problematiche, non ci può essere una linea di sviluppo di pensiero lineare e coerente. Stiamo parlando di un fenomeno nuovo per noi, per i compagni, per chi ancora milita e cerca di sviluppare antagonismo sociale. È chiaro che è un pensiero nuovo e innovativo. Su questo credo che dobbiamo avere da una parte lo spirito della frontiera unito ad un grande realismo politico. Dobbiamo avere la forza dell'immaginazione e nello stesso tempo l'efficacia della concretezza. Immaginazione e concretezza sono lo stimolo per afferrare questo qualcosa di nuovo che intuiamo e vediamo, perché la rottura della dialettica è tragedia. In assenza di un progetto sociale alternativo la rottura della dialettica nel mondo si trasforma in guerre etniche, in razzismo, in suddivisioni sempre più generalizzate tra nord e sud. La rottura del meccanismo del progresso, dal punto di vista storicistico, non ha portato qualcosa di nuovo nel senso della conquista di spazi, di maggiore qualità della vita per l'umanità intera, al contrario vediamo che la rottura dell'idea di progresso ha rovesciato la storia in una specie di nuovo medioevo industriale, in una nuova barbarie. Comunismo o barbarie, diceva Marx dentro uno schema di rottura non-lineare. C'è un discorso di rottura della dialettica della logica del progresso che non si accompagna alla fondazione di una società nuova: questo è il problema. Allora, che cosa possiamo fare per uscire da questa situazione, da questo scenario, nel senso pessimista a cui prima accennavamo?

La rottura della dialettica finora non ha comportato l'emergere di una costituzione altra, l'emergere di una cooperazione sociale alternativa. Credo sia necessario aprire un discorso molto approfondito. Questi sono dei quadri di riferimento molto generali, ma è importante la materialità e lo spessore della nostra attività, il senso di "responsabilità" e il senso etico profondo che accompagna la nostra azione politica. Credo che nelle cose che facciamo, nelle cose su cui ci misuriamo quotidianamente, negli organismi che riusciamo a costituire ci sia non la risposta assoluta - questa non esiste - ma un embrione che apre delle strade per il futuro, un embrione che riesce a costruire, a indicare un possibile futuro che non sia legato solo alla tragedia di questa epoca, ma che apra spazi e tempi di libertà collettiva, per un nuovo progetto di liberazione.

Finora abbiamo visto che la rottura della dialettica comporta questo insieme di ragionamenti e ci pone dei problemi di tipo strategico in senso teorico politico perché mette in discussione snche il tipo di rapporto e di relazione tra potere e contropotere, mette in discussione il nostro rapporto con il potere, con la distruzione del potere. Ma in che senso? Semplifico: finora, storicamente, abbiamo visto due campi teorici importanti dal punto di vista della definizione tra potere e contropotere. Uno accompagna le vicende della Terza Internazionale e non solo, e vede nella conquista del potere politico il primo momento per poi, successivamente in una seconda fase, modificare i rapporti sociali, i rapporti di produzione e costruire un'altra società. Quindi c'è la conquista del potere politico dentro una logica di rivoluzione dall'alto: è il discorso insurrezionalista, è il discorso della presa del Palazzo d'Inverno, è un discorso che ha una radice giacobina molto profonda. Questo schema ha funzionato durante la Terza Internazionale, è filtrato, anche se in modo modificato, nel comunismo italiano, nel Pci, in maniera diversificata attraverso Gramsci e Togliatti, ma comunque lo schema è questo e naturalmente è arrivato a ridosso anche dei gruppi della sinistra rivoluzionaria negli anni '60 e '70. Noi abbiamo visto il fallimento totale di questo tipo di concezione, abbiamo visto il crollo del socialismo, abbiamo visto come questo tipo di schema non ha fatto altro che sostituire un potere con un altro potere e modificazioni strutturali dal punto di vista della vita sociale delle masse non ci sono state, anzi io credo che si sia risolto in una profonda tragedia.

L'altro schema è quello del contropotere. Non la teoria dei due tempi, ma un contropotere che cresce all'interno di una dimensione sociale e che si allarga ed espande a tal punto da far progressivamente estinguere il potere. Ma che cos'hanno in comune questi due schemi? Sono schemi ancora dentro un rapporto dialettico. Anche la figura del contropotere - come crescita di questo dualismo che, al di là del puro evento insurrezionale, riesce ad allargarsi ed estinguere progressivamente quelle che sono le forme del dominio nella società - è comunque uno schema dialettico perché in qualche modo si rapporta specularmente alla figura del nemico. Le forme di organizzazioni, le forme di lotta sono in qualche modo speculari e omologhe a quella che è la forma del dominio; non può essere altrimenti in questa logica - potere e contropotere. È chiaro che i tuoi movimenti e le tue dinamiche devono sempre essere speculari a quelli che sono i meccanismi e le dinamiche del potere. Quindi anche questa figura, potere-contropotere, è una figura dialettica.

Ma allora come possiamo uscire da questa problematica? In realtà la rottura della dialettica significa separazione. Questo è chiaro anche facendo un esempio semplice: le persone possono avere un rapporto dialettico nel senso di comunicazione. A volte si scontrano e risolvono il problema dentro una dialettica superiore, oppure questo rapporto non esiste più per cui le persone o non comunicano più oppure tra loro c'è separazione e/o guerra. La rottura della dialettica è la separazione dei termini di una opposizione. Capitale e lavoro, abbiamo visto, hanno prodotto uno sviluppo dialettico, un rapporto dialettico, le lotte operaie hanno prodotto innovazione e sviluppo. Questo tipo di rapporto si rompe perché il capitale diventa il "soggetto assoluto" della produzione, estendendosi sulla totalità della vita sociale, non riconosce alcuna indipendenza al lavoro vivo, mostra la produzione come sua propria emanazione, come se fosse un meccanismo automatico, cancella l'altro polo della contraddizione. Da questo punto di vista, la rottura della dialettica è nei fatti. Allora il problema è la separazione e la separazione porta alla costruzione di una cooperazione altra e antagonista, un'altra concezione del tempo e dello spazio, significa costruire una soggettività altra e dare ad essa lo spessore e la forza di una nuova costituzione materiale.

Noi sappiamo che questo oggi è utopico, non vediamo l'emergere di una una cooperazione altra a meno di non finire in un discorso da "socialismo utopistico". Chiaramente l'utopia non è una cosa negativa, quando è utopia che si basa sulle possibilità materiali. La carica utopica è anche uno stimolo fondamentale comunque preferibile al realismo cinico e idiota, però oggi è difficile scorgere l'emergere di una cooperazione alternativa. D'altra parte è possibile pensare alla formazione, alla separatezza senza rottura e senza antagonismo? È possibile pensare che per qualche motivo il capitale ci liberi dalle catene con cui ci tiene legati, dal momento che siamo noi a produrre la ricchezza sociale, è possibile che allenti questi legami affinché noi ci separiamo da esso, così semplicemente come in un "pranzo di gala"? Io credo di no. Credo che la separatezza, figura importante da capire, non possa che essere il frutto di un processo antagonistico molto radicale, non lo chiamiamo guerra civile ma sicuramente è un rapporto di lotta, di scontro, di conflitti, di rottura. La separatezza può darsi solo all'interno di un discorso di rottura con l'ordine costituito. Non ci sono alternative; tutte le altre alternative possono suggestionare dei radical chic di sinistra, o mascherare i peggiori opportunismi. La costruzione di una cooperazione altra, senza rottura e antagonismo, è assolutamente un discorso che non regge sul piano della materialità dello scontro.

Il problema è questo: la separatezza implica l'antagonismo, implica la rottura ed è anche vero però che l'antagonismo deve avere un rapporto dialettico. Non possiamo immaginare oggi un fermento sociale che non si rapporti con la controparte e non sviluppi delle rivendicazioni. Questo è contraddittorio perché se non esiste più mediazione e riformismo perché ci dovrebbero essere delle lotte che chiedono rivendicazioni, a chi si chiedono le rivendicazioni? Quindi è chiaro che ci troviamo di fronte a un rompicapo: da una parte la necessità del conflitto dall'altra il fatto che il conflitto non può avere altro che la forma del contropotere perché non possiamo immaginare un conflitto che non abbia questa forma - la forma di un rapporto di scontro conflittuale contro un potere per strappare a questo potere cose materiali, spazi, rivendicazioni. Anche la lotta di classe in Francia è la dimostrazione che il potere ha dovuto mediare attorno ad alcune questioni, per cui vi è stata mediazione.

Allora, come uscire da questo? Chiaramente è difficile, però penso che una via che vale la pena di percorrere sia quella di sciogliere il concetto di contropotere dalla figura onnicomprensiva che si usava negli anni '70, cioé non il contropotere come figura assoluta, speculare al "moloch" statuale. Piuttosto possono delinearsi e già si disegnano nel sociale reti di contropoteri diffusi. Questo è un discorso molto importante da afferrare perché se la sussunzione reale implica la totalità del comando sull'intero arco della vita sociale è chiaro che ogni elemento può diventare momento conflittuale e di rottura, quindi si moltiplicano le possibilità di scontro. Ogni momento della nostra vita produttiva/riproduttiva può diventare elemento di costituzione materiale di contropotere, che non è un contropotere come figura assolutizzata o assolutizzante ma è piuttosto una rete di contropoteri, molto più adeguata a definire l'investimento politico di un processo costituito dalla produzione in rete, dal lavoro sociale in rete, dalle modificazioni strutturali che si sono avute su questo terreno: costruire e distendere la rete dei contropoteri su ogni ambito del quotidiano e della vita sociale.

Questo è un orizzonte aperto e possibile. Questa rete di contropoteri non è una cosa astratta, noi in parte lo stiamo già facendo. Per limiti di forze, abbiamo scelto alcuni terreni sui quali sviluppare o tentare di sviluppare delle reti di contropotere a partire da precisi elementi e contraddizioni sociali: per esempio l'associazione Razzismo Stop, i Centri sociali e le loro forme costitutive (come il Melting), le radio e i momenti di comunicazione, l'associazione Difesa Lavoratori, ecc.; tutti questi ambiti della vita sociale riproduttiva possono essere investiti da un contropotere reale, ma questo contropotere non è qualcosa di generico, non sono solo le lotte fatte con ogni mezzo necessario, sono anche la possibilità di avviare fin dall'interno una capacità costitutiva, cioé far sì che questi organismi abbiano una loro vita propria interna che circola, abbiano i loro elementi fondanti, una loro istituzionalità originaria, un proprio modo d'essere, che siano organismi sociali complessi, che siano delle cellule con una vita e un'articolazione interna. Questo è la produzione di soggettività, è il meccanismo che produce soggettività. All'interno della figura del pessimismo di cui parlavo poc'anzi, è importante che quel poco o tanto che riusciamo a produrre sia fondante di un modo d'essere, non come modo d'essere che si ritrova solo nel momento del "contro" ma come modo d'essere che si ritrova nel momento progettuale del "per", del costruire. Credo che questo possa rappresentare, anche in quell'orizzonte pessimistico, uno spiraglio che si apre sul terreno della libertà, dal momento che la vera libertà dei soggetti è lottare contro il dominio e proprio il costituirsi in quanto soggetto: questa è la libertà soggettiva, questa è la libertà dei soggetti.

Quindi tendenziale separatezza e rete di contropoteri: noi abbiamo queste due figure. Penso che la rete dei contropoteri diffusi, nel senso che ho detto, possa assumere progressivamente, senza pensare che la questione si risolva dall'oggi al domani, la forma di una costituzione altra, la forma di una tendenziale separatezza. Penso che già all'interno di questi elementi, di questi embrioni si possa dare le caratteristiche di un'altra soggettività che emerge in maniera forte e costitutiva. Prima parlavamo di tempi, della discontinuità, della rottura, delle dislocazioni, con la fine completa di ogni concezione lineare del tempo e della storia: questo significa che coesistono nello stesso spazio delle temporalità differenti, multiple. Oggi bisogna afferrare il senso di quello che stiamo dicendo in una temporalità di lunga durata. Penso che il pensiero della lunga durata oggi sia un elemento importanate e fondamentale da acquisire. I problemi che abbiamo delineato non si risolveranno dall'oggi al domani, né vi saranno scoppi insurrezionali improvvisi che facciano emergere una soggettività del nuovo processo di liberazione. Credo che il problema sia invece dentro la lunga durata e dentro il fatto di acquisire sempre di più un senso profondo di responsabilità etica sui momenti anche piccoli ma costitutivi che noi fondiamo.

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