Interventi al seminario della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale

25 marzo 1996

Intervento 2
sulla globalizzazione

Dell'insieme di questioni appena affrontate, abbiamo toccato l'aspetto relativo al problema del rapporto tra sviluppo di forme di contropoteri diffusi e costituzione altra e separata. Questa tematica è complessa da definire, e dire complessa non significa fare un'ammissione di impotenza o di incapacità nel risolverla: significa invece assumerla in tutta la sua problematicità ed è chiaro che quando ci si pone un problema, il "come" ci si pone questo problema ci mette anche nelle condizioni di risolverlo, ovviamente con tempi non-immediati.

Ci sono alcuni caposaldi che possiamo dare per acquisiti e sono, sostanzialmente, quelli citati nella prima parte della relazione precedente, tra i quali - fondamentale - la comprensione di quale trasformazione epocale stiamo vivendo. C'è un secondo aspetto che è tutto da sviluppare e da risolvere ed è il punto di vista sotto il quale vorrei cercare di aggredire questa tematica complessa. L'aspetto essenziale rispetto a qualsiasi forma di organizzazione dell'azione politica trasformativa e sovversiva: il rapporto con la dimensione territoriale.

Inizio con una apparente banalità: spazio e tempo sono i parametri di riferimento da cui non si può prescindere per collocare la propria azione politica trasformativa. Sul tempo mi sembra che alcune cose siano già state dette in modo significativo: la fine dei paradigmi lineari - sia quelli deterministici, sia quelli finalistici che vedono nella storia una teleologia, la realizzazione di una finalità che è già presente all'inizio - ma anche di quei paradigmi di percezione del nostro essere nel tempo che sono oggi dominanti.

Quando ce la prendiamo con il finalismo, con l'idea della storia come progresso e quindi con orizzonti per cui - in maniera deterministica - alla fine c'è, necessariamente, un "sol dell'avvenire" che ci aspetta, ce la prendiamo in sostanza con un "cane morto". Oggi i paradigmi del tempo dominanti sono quelli che - in varie forme, con accenti più o meno raffinati o volgari - parlano della "fine della storia": parlano cioé del tempo presente come di un eterno presente, in cui non può e non potrà accadere più nulla. Un eterno presente in cui, al limite, possono succedere dei fatti che si susseguono in una sostanziale immutabilità delle condizioni reali in cui ci troviamo a vivere. La fine di questi paradigmi del tempo trova la sua definizione - in termini marxiani - in quella che abbiamo definito altre volte come la crisi e l'esaurimento della formulazione classica della legge del valore. Cioé oggi lo sfruttamento non è più temporalmente quantificabile, non è più possibile distinguere tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro - quindi tempo della valorizzazione come entità separate misurabili in termini precisi. Questo perché la base materiale, su cui si erge la ricchezza delle nostre società, è ormai costituita dalla straodinaria combinazione tra un "sapere sociale generale" sempre più avanzato e diffuso, e la maturità della cooperazione sociale complessa tra soggetti del lavoro vivo.

Ma ciò che vorrei qui affrontare è l'altro corno del problema, cioé la dimensione spaziale delle trasformazioni a cui abbiamo assistito e stiamo vivendo: perché, anche in quel rapporto di scambio reciproco e fecondo con il pensiero borghese otto-novecentesco della "crisi", questo aspetto è importante. È significativo che, sul piano della riflessione filosofica, il Novecento si apra con Henri Bergson, che ragiona sul tempo come durata, e si chiuda con Martin Heidegger che ragiona sul rapporto dell'uomo con il territorio, con l'abitare e quindi sul rapporto del territorio con la nuova dimensione della tecnica mondializzata.

Quando parliamo delle trasformazioni produttive abbiamo a che fare con la fine di un paradigma spaziale che apparteneva all'epoca dell'organizzazione del lavoro taylorista, dell'organizzazione della riproduzione sociale fordista e dell'organizzazione statuale di tipo keynesiano. Abbiamo a che fare con l'istaurarsi di una nuova dialettica - questa sì, con tutte le enormi contraddizioni che apre - tra la dimensione globale e la dimensione locale della produzione. Potremmo definire quanto sta avvenendo, in maniera un pò più precisa, come un simultaneo processo di de-territorializzazione - cioé di perdita da parte della produzione del suo rapporto con un determinato territorio - e di ri-territorializzazione del rapporto tra capitale e lavoro - come ri-conquista di una nuova dimensione di localizzazione.

La de-territorializzazione è l'aspetto forse più scontato ed è diventato quasi un luogo comune quello relativo alla nuova dimensione del mercato mondiale, dell'organizzazione reticolare a livello mondiale della produzione. Non è un caso che nel primo sommario del "Capitale", tracciato da Marx nel momento in cui si accingeva ad iniziare quest'opera, vi fossero indicati due capitoli significativi, che poi non ritroviamo nella stesura definitiva: il capitolo sullo Stato, e quindi tutta la problematicità (dal punto di vista operaio) che Marx assumeva della rottura della macchina statale e quindi il nodo del potere, e il capitolo dedicato al mercato mondiale e al commercio. La categoria del mercato mondiale, così come le categorie che sono state richiamate precedentemente - sussunzione reale, cooperazione matura, ecc. - sono categorie che hanno una valenza quasi profetica nel pensiero marxiano. Quando Marx parlava di mercato mondiale vedeva e si misurava concretamente con una situazione in cui la dimensione dello sviluppo del modo di produzione capitalistico era la dimensione degli Stati nazionali. Le imprese capitalistiche assumevano come spazio di sviluppo i confini dello Stato nazionale. Questa caratteristica - ovviamente a fasi alterne, perché dall'epoca del colonialismo si è passati a quella dell'imperialismo - è rimasta sostanzialmente immutata fino alla seconda metà degli anni '70 di questo secolo. Anche la figura delle imprese multinazionali, diventate la figura centrale di organizzazione del capitale collettivo nella seconda metà di questo secolo, proprio se analizziamo lo stesso termine "multinazionali", erano imprese che si costituivano all'interno dei confini degli Stati nazionali e però assumevano una dimensione di intervento, di ricerca di mercato e di dislocazione di alcuni settori della produzione che andava ben oltre i confini dello Stato nazionale, che rimaneva tuttavia sempre il centro di questa impresa, l'entità i cui "interessi nazionali" ne orientavano le scelte produttive e politiche. Oggi i teorici più avanzati dell'organizzazione del lavoro capitalistica parlano di "impresa globale": non è più possibile legare il capitale alla sua appartenenza a uno Stato nazionale. Per fare alcuni esempi, l'ITT, la Texaco, ecc. si sapeva benissimo che erano, e non a caso, multinazionali americane; oggi è sempre più difficile ricondurre la composizione di capitale delle imprese a una nazione o a un territorio. Allo stesso modo si è passati, in una tendenza che era già percepibile fin dalla fine degli anni '70, oltre la vecchia divisione internazionale del lavoro. È chiaro che la dimensione internazionale è sempre stata presente nel punto di vista capitalistico. Si è passati attraverso la divisione classica del lavoro su scala internazionale che era essenzialmente questa: le nazioni si dividevano tra nazione colonizzate, fornitrici di materie prime da saccheggiare e nazioni in cui aveva invece luogo la fase della produzione delle merci e dei beni materiali e del consumo di questi stessi beni.

A partire dalla metà degli anni '70, il capitale è alla ricerca di qualcosa di diverso, cioé una combinazione più favorevole dei rapporti tra capitale e lavoro perché l'impatto delle lotte operaie nel cuore dei paesi a capitalismo avanzato rendeva sempre più difficile mediare il rapporto con la classe operaia. Il tentativo era quello di cercare forza-lavoro a basso costo: il capitale, quindi, ha iniziato a pensare a una dislocazione dei diversi segmenti del ciclo produttivo su scala internazionale/globalizzata. La conseguenza di ciò è che oggi quando prendiamo un prodotto materiale complesso, su questo stesso prodotto è sempre più difficile scrivere "made in Italy" o "made in Usa": è un prodotto sempre più "made in the world". È un prodotto in cui alcuni componenti sono di produzione coreana, altri arrivano da Singapore o dalla California, e viene assemblato in un paese terzo o quarto. Si è quindi passati a una nuova divisione internazionale del lavoro e oggi la figura del mercato mondiale che Marx aveva profetizzato assume spessore e sta diventando una realtà. Oggi si può parlare, per la prima volta nella storia, di un'economia-mondo i cui confini coincidono con i confini del mondo. Si può parlare di un sistema capitalistico mondiale ad alto livello di integrazione. La realtà di questo mercato mondiale è una realtà in cui componenti, materiali e immateriali circolano all'interno di reti plurali, circolano all'interno di tante reti produttive che si rapportano con una dimensione globalizzata.

Ci sono due studiosi inglesi che identificano questo passaggio, rispetto la dimensione spaziale, dal fordismo al post-fordismo con il passaggio da quello che chiamano lo "spazio dei luoghi" - uno spazio organizzato sui luoghi - ad uno spazio organizzato sui flussi. Le caratteristiche proprie dello "spazio dei luoghi" erano le seguenti: lo spazio era definito da una serie di processi costitutivi sia sul campo della produzione, sia sul campo della decisione, sia sul campo della costruzione dell'identità collettiva e quindi anche degli antagonismi. Tutti questi processi costitutivi coincidevano, insistevano sui medesimi luoghi.

Lo "spazio dei flussi" è, invece, uno spazio in cui le dinamiche proprie di un territorio dipendono sempre più da decisioni che vengono assunte altrove. Il momento dei processi costitutivi non coincide più con il luogo in cui effettivamente avvengono e si realizzano questi processi: assistiamo a momenti decisionali che sono dislocati al di là dei confini di questo spazio. L'elemento qualificante dello "spazio dei flussi" - che è oggi la dimensione spaziale della produzione ma è anche, in termini più ricchi e articolati, quella del momento decisionale e del momento riproduttivo sociale complessivo - è il fatto che questo "spazio dei flussi" è costituito/innervato da connessioni. L'elemento fondante le relazioni non è più la vicinanza, la contiguità spaziale, ma la connessione che si riesce a stabilire tra i diversi segmenti di queste reti produttive globali.

Sempre questi due studiosi anglosassoni parlano di dinamiche territoriali produttive che si organizzano intorno a una contraddizione sempre più evidente tra il fatto che esistono dei "luoghi senza potere" e delle forme di potere (o poteri diffusi) che non hanno luogo, che non possono essere identificati e ricondotti ad una localizzazione precisa.

Non mi dilungo oltre sull'aspetto della globalizzazione. Quello che rimane un pò ai margini in questi affreschi dei processi di globalizzazione - che ormai da più parti vengono tracciati - è l'altro aspetto: in maniera apparentemente paradossale, tanto più processi economici si globalizzano, tanto più contemporaneamente - in modo che è difficile distinguere - questi processi produttivi si localizzano, assumono il territorio e la localizzazione come altro elemento decisivo e complementare.

La territorializzazione produttiva rovescia, di fatto, il rapporto che la fabbrica fordista - la grande concentrazione produttiva industriale - intratteneva con il territorio. Un rapporto secondo il quale era la grande fabbrica a investire il territorio, a informare di sé il territorio, a mettere in forma il territorio circostante. È il rapporto che legava la grande fabbrica alla "città-fabbrica"; intorno alla grande concentrazione produttiva (Marghera, Torino, Detroit, ecc.) lo spazio urbano si rimodellava sul modello della grande fabbrica taylorista. Questo, in parte, è avvenuto anche nella prima fase della ristrutturazione capitalistica, in cui la figura del decentramento produttivo era la semplice ri-dislocazione di segmenti produttivi sul territorio, in un rapporto di appalto e sub-appalto che poi legava sempre in maniera diretta e immediata la grande fabbrica con questi segmenti diffusi. Quello che è successo in seguito è il passaggio dalla fabbrica diffusa che investe il territorio a un concetto più articolato e ricco che abbiamo definito "fabbrica sociale"; cioé il passaggio da puro e semplice decentramento produttivo alla costituzione della piccola e media impresa in rete, che intrattiene con il territorio un rapporto essenziale.

Cercherò di sintetizzare gli aspetti che caratterizzano vicende molto vicine a noi, dove possiamo leggere chiaramente questo tipo di passaggio dalla grande produzione industriale di Mestre e Marghera alla realtà attuale del Nordest come territorio produttivo innervato da reti di piccola e media impresa.

Per quanto riguarda la realtà del Nordest, all'inizio degli anni '70 si è combinata l'esigenza capitalistica di disgregare la composizione operaia di fabbrica e l'elemento di soggettività antagonista che rappresentava, di disperderla sul territorio, di investire le grandi concentrazioni industriali fordiste e di rompere, in questo modo, quel livello di contropotere operaio di fabbrica che nel frattempo si era accumulato. Allo stesso tempo a questa esigenza capitalistica ha corrisposto da parte operaia - ed è sempre importante vedere l'uno assieme all'altro aspetto - il rifiuto del lavoro salariato che si traduceva anche nel rifiuto della sua forma specifica come lavoro operaio dequalificato di fabbrica, nel rifiuto quindi dell'organizzazione taylorista del lavoro. A ciò corrispondeva una tensione operaia all'autovalorizzazione. Molte delle avanguardie, delle figure operaie espulse dalla fabbrica fordista hanno così dato vita sul territorio a forme di autoimprenditorialità, di microimprenditorialità e, in molti casi, a quella che è la struttura originaria della piccola-media impresa così come oggi la conosciamo, combinando una serie di saperi che venivano dall'esperienza delle lotte operaie (a partire dalla conoscenza approfondita del ciclo produttivo taylorista) con saperi diffusi, pratiche e forme di cooperazione sopravvissuta semi-artigianale che già si trovavano sul territorio. Per fare un esempio: la produzione dell'occhialeria è da sempre una produzione tradizionale del Bellunese, oppure una produzione metalmeccanica fine,come i radiatori nell'Alta Padovana, è anche quella una tradizione produttiva di piccole fonderie per metalli speciali, preesistente alla fine della grande fabbrica fordista, così come il settore tessile era presente nel Trevigiano fin da prima della grande ristrutturazione degli anni '70/'80.

L'elemento nuovo, però, è questo: per riuscire a esistere, la rete della piccola impresa deve organizzare delle condizioni che non sono più quelle unicamente tecniche, legate all'organizzazione del lavoro nel luogo della produzione, ma sono le condizioni politiche della produzione; deve organizzarsi il mercato, le linee di credito, il rapporto con le amministrazioni locali, con le banche... insomma deve organizzare il territorio come una fabbrica sociale, deve organizzare il territorio come mercato in cui l'elemento politico è l'elemento centrale.

È il passaggio che un ricercatore francese di geopolitica, Jacques Lévy, ha approcciato - in termini diversi - definendolo il passaggio dal territorio alla rete. È un altro modo di leggere il passaggio dallo "spazio dei luoghi" allo "spazio di flussi".

Per Lévy la spazialità di tipo territoriale fa riferimento a una dimensione stanziale/sedentaria dell'organizzazione produttiva. In questo senso, lui dice, c'è addirittura una continuità - al di là della rottura, del salto produttivo che c'è stato - tra un'economia di tipo agricolo e un'economia di tipo fordista organizzata sulla grande fabbrica. I rapporti sociali di comando che caratterizzano la dimensione del territorio sono rapporti di comando fondati sulla disciplina: sono fondati, com'era il caso della grande concentrazione industriale, sulla rigidità del comando, dei regolamenti, sulla rigidità dei tempi che caratterizzavano la prestazione lavorativa. Caratteristica del territorio è la contiguità: si produce perché (per esempio lungo la catena di montaggio) tanti punti sono messi l'uno vicino all'altro e c'è un passaggio lineare da un punto all'altro. Nella dimensione della rete viene a mancare l'elemento della contiguità e della continuità spaziale: balza il primo piano l'elemento della connessione tra punti anche distanti tra loro.

È in questo senso che anche i processi comunicativi, gli scambi sempre più astratti, simbolici, immateriali diventano e assumono un ruolo centrale in questo modello di organizzazione in rete. Questo però porta a delle conseguenze, che sono quelle della crescente contraddizione - come sottolineato anche da Revelli - tra "poteri senza luoghi" e "luoghi senza poteri", che per Lévy è costituita dalla sovrapposizione tra l'elemento territoriale e l'elemento reticolare.

Il punto è che questa trasformazione dell'organizzazione produttiva del territorio ha un rapporto diretto con le forme della politica. Fin dall'inizio avevamo accennato al rapporto essenziale tra economia capitalistica e Stato nazionale. Lo Stato nazionale è il contenitore in cui, ancor prima della rivoluzione industriale, si sviluppano rapporti capitalistici di produzione. Oggi diventa invece sempre più difficile individuare che cosa sia dentro e che cosa sia fuori da queste reti produttive globalizzate, le cui radici affondano in territori che non possono essere governati da grandi macchine burocratico-amministrative centralizzate e la cui scala di relazioni va - allo stesso tempo - molto al di là dei confini degli Stati nazionali.

L'organizzazione di tipo territoriale aveva un rapporto essenziale con la sovranità. Il potere sovrano si organizzava su uno spazio territoriale: il potere sovrano, che nella modernità si definisce come un potere che non riconosce entità superiore a se stesso - ed è questa la definizione moderna da Hobbes in poi della sovranità -, aveva bisogno di delimitare chiaramente i propri confini, al di fuori dei quali non esercitava la propria sovranità: confini territoriali che poi sono divenuti i confini della cittadinanza, determinata dal rapporto essenziale tra nascita e territorio. Questo intreccio - che legava in maniera indissolubile sovranità e territorio, potere politico sovrano e produzione localizzata/territorializzata definita dal rapporto preciso con un territorio - viene a mancare nel momento in cui abbiamo elementi di sovranità che non hanno territorio e sono ben più forti dei singoli Stati nazione; tutte le forme di comando finanziario sovranazionale (FMI, Banca Mondiale, Direttive del G7, ecc.) sono forme di potere che non si esercitano su un territorio, o meglio si esercitano sul territorio del sistema capitalistico globalizzato. Sono forme di potere che trascendono di molto i poteri di ogni singolo stato. È il ritornello che abbiamo sentito in questi anni: tutta una serie di decisioni e di scelte venivano prese perché esistevano delle compatibilità globali della economia dei mercati che andavano ben al di là dei singoli stati nazionali.

Ma se la figura moderna della sovranità viene messa in discussione, deve anche essere ridefinito il modello della trasformazione radicale, della rottura della sovranità, le forme dell'agire politico sovversivo che in modo certo antagonistico ma anche speculare si rapportavano a questo modello della sovranità.

Le definizioni contemporanee di sovranità - quella di Max Weber, che definisce la sovranità come monopolio sull'uso legittimo della forza, e quella di Carl Schmitt, che definisce la sovranità come monopolio della decisione fondativa del politico nello stato di eccezione - si sono misurate da una parte con la concezione classica moderna della sovranità e dall'altra con l'apparire del fantasma che terrorizzava sia Weber che Schmitt: l'incubo del leninismo, l'incubo dell'emergere potente di un soggetto operaio nella forma della rivoluzione e dell'insurrezione, viste come momenti radicalmente negativi e tuttavia speculari alla sovranità statuale. Quali sono le caratteristiche che uniscono sia il modello insurrezionale caratteristico della Terza Internazionale sia il modello del contropotere delineati precedentemente? Il fatto che si rapportano in negativo ai due assunti di Weber e Schmitt. Il contropotere che cos'altro è se non la rottura del monopolio sull'uso legittimo della forza? E il momento insurrezionale che ncos'altro è se non l'assunzione della figura schmittiana della decisione nello stato d'eccezione? È chiaro che ai soggetti titolari del potere a cui pensavano questi pensatori ne vengono sostituiti altri: nella concezione leniniana della dittatura del proletariato è la classe che diventa il "sovrano" e decide nello stato d'eccezione, così come il contropotere si è sempre rivelata pratica di un potere altro, di parte ma speculare rispetto alla definizione di sovranità come potere legittimo che ne esclude altri e che si esercita su un determinato territorio.

Ma nel momento in cui sembra venir meno la possibilità di riferiread un preciso territorio l'esercizio e la titolarità del potere sovrano, che figura assume l'agire politico sovversivo e trasformativo? È quello che abbiamo cercato di definire, per approssimazioni successive, con questa figura delle reti dei contropoteri, con un modello che abbiamo pensato non più riferito ad un unico soggetto, ad una composizione di classe omogenea ben definita, un soggetto centrale capace di ricomporre intorno a sé gli altri segmenti di classe. È questo il motivo per cui preferiamo parlare non di proletariato o di classe operaia, ma parliamo al plurale, di soggetti, parliamo di differenti soggettività, e cerchiamo di investire queste differenti soggettività, questi differenti terreni di contraddizione con forme specifiche di organizzazione, con reti sociali autorganizzate che attraversino questo tipo di composizione estremamente frammentata, plurale, costituita da differenti soggetti.

È il motivo per cui non crediamo - e non è solo una questione terminologica - sia possibile parlare e riferirci a una figura unica di contropotere ma pensiamo all'organizzazione reticolare dei contropoteri, che non è qualcosa che sta molto al di là della pratica quotidiana che le singole reti sociali e autorganizzate già vivono e agiscono giorno per giorno. È qualcosa che ha a che fare direttamente con l'assumere il territorio non come dato già esistente, definito o dalla naturalità dei luoghi o dai confini amministrativi e politici esistenti degli Stati, delle regioni, dei comuni, ma la capacità di pensare il territorio come qualcosa che i contropoteri e le reti sociali autorganizzate ridisegnano e ridefiniscono ogni volta sulla base della propria azione soggettiva, della propria capacità di concretizzare questa azione su un terreno che è qui e subito, un terreno di conflitto e un terreno di prefigurazione, di costruzione e costituzione altra.

Come conciliare questi due elementi è un nodo estremamente problematico e di difficile soluzione, ma penso che già nel dibattito di oggi inizieremo ad affrontarlo e a tentare di venire a capo di alcuni nodi.

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