Interventi al seminario della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale

25 marzo 1996

Intervento 3
sull'autorganizzazione

Tutte le questioni esposte finora riassumono un passaggio della fine anni '80 - primi anni '90 che ha prodotto, all'interno delle soggettività organizzate in questo territorio ma anche a livello europeo, una grossa crisi dal punto di vista delle prospettive. Ognuno di noi è stato attraversato anche individualmente da crisi soggettive, dall'interrogarsi su quello che poteva essere il proprio agire dentro una dimensione in cui non vi erano più determinate certezze. Abbiamo visto la fine di una composizione di classe, la fine di un soggetto trainante rispetto ad un possibile processo rivoluzionario. Abbiamo assistito al crollo del muro di Berlino, che ha simboleggiato in qualche modo la fine di un percorso storico che ha avuto inizio nei primi anni di questo secolo e che si è concluso in una tragedia, si è concluso in quello che stiamo osservando oggi rispetto alla ex Jugoslavia e rispetto a ciò che avviene nell'ex Unione Sovietica, rispetto cioé a quello che avviene nei paesi ex-socialisti, in quei paesi in cui è stata fatta la rivoluzione, dove si sono sperimentate le forme di organizzazione della produzione e dell'economia di tipo collettivistico. Molto probabilmente era l'unica cosa che si poteva fare in quel momento storico, ma la collettivizzazione di tutti i mezzi di produzione, l'abolizione della proprietà privata per decreto, e così via alla fine hanno prodotto una forma societaria che non è stata migliore di quella che si è prodotta nel capitalismo.

Anche se noi apparteniamo ad un filone di pensiero molto diverso e non avevamo come riferimenti quei modelli, siamo cresciuti però in una fase storica in cui c'erano lotte contro l'imperialismo che erano forti (il Vietnam per esempio), c'erano punti di riferimento e schemi d'identificazione forti rispetto a soggetti collettivi ed antagonisti che insorgevano in ogni parte del mondo. Per cui anche se avevamo una matrice diversa, non ortodossa, credo comunque che per tutti il crollo del socialismo reale abbia rappresentato la fine di una esperienza storica in questo secolo, con la conseguenza che i processi e i percorsi della liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, della liberazione dell'uomo, non potevano più darsi in quelle forme vecchie, non avevano più nessun tipo di riferimento, non esisteva più nessun modello alternativo al modello capitalistico, e che tutto quanto avevamo di fronte era la necessità di ricercare delle strade nuove, di ricercare qualcosa che non sapevamo e non sappiamo ancora che cosa sarà.

Nel senso che i percorsi di liberazione, della costruzione di una società di uomini liberi e uguali in cui ci sia la democrazia vera e la giustizia (cose di cui si sente tanto parlare... magari Marcos e l'esperienza del Chiapas che sono - sul piano internazionale - forse l'unico elemento veramente nuovo e stimolante), una società che abbia queste caratteristiche come elementi fondanti e costitutivi credo che sia oggi una cosa confusa e non si riesce a capire in che tipo di prospettiva strategica ci si muove. Detto questo conosciamo bene i problemi che abbiamo incontrato confrontandoci con la soggettività, anche qui in Italia. Da una parte quelli che sono rimasti fermi ad un discorso di ortodossia marxista-leninista (e chi oggi continua a perseguire ancora determinati obiettivi, chi ha ancora in mente quel tipo di visione della storia, credo che sia veramente fuori di qualsiasi possibilità di percorso di liberazione); dall'altra ci sono soggetti, che hanno attraversato i movimenti, che pensano che i percorsi di liberazione oggi possano darsi solo in forma totalmente separata, quindi si finge che lo sfruttamento, il capitalismo e gli effetti catastrofici che produce in giro per il mondo, non ci riguardino: costruiamo le nostre cooperative, facciamo collanine, facciamo progetti con l'energia solare, ma in termini separati da quello che è il processo capitalistico e lo sfruttamento. In questo modo noi ci costituiamo e andiamo avanti per la nostra strada. Credo che anche questa posizione produca solo il fatto che alcuni soggetti diventano "imprenditori alternativi", ma dal punto di vista puramente ideologico perché poi concretamente non riescono a incidere e a trasformare alcunché!

C'è un altro tipo di soggetti (che sono ancora peggio) e sono quelli che hanno scelto - non vedendo più prospettive di una trasformazione in cui ci sia il conflitto come elemento fondamentale - di entrare nelle varie istituzioni, nei partiti (alcuni in Rifondazione Comunista) e sono ricaduti nella banalità del concetto della delega; il partito si rappresenta all'interno del parlamento, quindi c'è chi lo vota e poi ci sono le lotte viste solo in funzione di una battaglia parlamentare per cambiare qualche leggina... Io credo che, rispetto ai processi di trasformazione e velocizzazione della forma-Stato verso il maggioritario, anche il concetto dell'opposizione parlamentare perda sempre più significato e non abbia più alcuna possibilità concreta: lo vediamo quotidianamente. Quindi ci sono varie opzioni che i diversi soggetti hanno scelto.

Ognuno di noi si è posto il problema di dare un senso a quello che facciamo, perché se o faccio una cosa, mi impegno nel mio percorso di vita, lo faccio perché voglio determinare qualcosa, voglio cambiare concretamente la realtà, voglio trasformare lo stato di cose presenti. Se è una cosa fatta tanto per fare qualcosa, perché ogni tanto esca un articolo sul giornale... chissenefrega!

Noi siamo sempre stati (e qui recupero il concetto di essere) rivoluzionari, perché la realtà vogliamo cambiarla... e nel corso della nostra vita, in tempi più accelerati possibili, però dentro una trasformazione reale e non dentro uno scimmiottamento di cambiamenti o finzioni di cambiamenti. Credo che questo sia l'elemento fondante del percorso che abbiamo avviato nel momento in cui sono venuti al pettine i nodi di una crisi profonda e anche soggettiva di quello che ognuno di noi voleva e vuole fare.

In questo quadro abbiamo cominciato a funzionare e ragionare anche in termini negativi: cioé intanto diciamo quello che non bisogna fare. Rispetto a quella che era la realtà del coordinamento nazionale della vecchia autonomia, di fronte a chi voleva forzare per creare una specie di partitino, credendo che mettendo assieme tante debolezze si potesse fare una forza, noi abbiamo detto che questa cosa non vuol dire niente... che oggi il problema non sta nel trovare delle forme partitiche! Anche perché, seguendo i discorsi precedenti, credo che oggi la forma partito a livello di Stato nazione, non risponda assolutamente alle necessità della trasformazione; ci sono altri percorsi che bisogna intraprendere! Per cui, intanto, abbiamo detto no a quel progetto.

Tra le compagne e i compagni presenti nel territorio padovano e nel Nordest, abbiamo cominciato a porci il problema che non poteva più funzionare una struttura che apparteneva agli anni '70 e '80, quindi era intanto necessaria una disarticolazione delle strutture. Si cominciò a pensare che un centro sociale non può essere onnicomprensivo di tutti i settori sociali che ci interessano, così come alcuni fenomeni nuovi (per esempio l'immigrazione) dovevano avere dei punti di osservazione e di intervento politico diversificati rispetto ad altre cose. Il concetto di fondo era che in ogni settore, dentro al quale non esisteva più una centralità di qualche soggetto, la sceltà dell'autorganizzazione sociale come scelta strategica non era solo il fatto di dire "noi ci costituiamo e facciamo autorganizzazione sociale in funzione solo delle lotte", ma l'autorganizzazione sociale diviene un percorso di costruzione di conflitti e nello stesso tempo capacità di costituirsi all'interno di questo percorso anche in termini solidali, in termini di senso di comunità che cambia/trasforma la vita dei soggetti con cui entriamo in contatto attraverso le lotte, per trasformare contemporaneamente anche la nostra vita.

Un esempio: negli anni Settanta non avremmo mai concepito che la radio fosse quello che è oggi (con il bar, la cucina), perché allora c'erano le sedi! Perché il problema era il potere, l'abbattimento dello Stato capitalistico e quindi tutto era finalizzato a questo. Costruire degli spazi sociali che caratterizzano e modificano la tua vita... perché nel momento in cui vieni in radio e vivi questa realtà, vivi una cosa diversa dal fatto di essere in una sede. Questo come esempio che va preso così com'è.

Nell'esperienza dei centri sociali queste cose sono molto più significative; credo che il concetto dell'autorganizzazione sociale come il fatto di costruire dei percorsi di antagonismo è contemporaneamente anche un fatto costitutivo di trasformazione reale del presente, di quello che stiamo facendo.

Questa era una sintesi di quello che è avvenuto attorno alla fine anni '80 - inizio anni '90 e credo che abbiamo cominciato a individuare alcune strade su cui indirizzarci e su questo negli ultimi anni abbiamo raggiunto dei risultati, tendendo anche conto del pessimismo di cui si parlava prima... credo bisogna anche cercare di capire che, specie in questi ultimi tre anni, di strada se n'è fatta, ci sono stati risultati materiali concreti. Faccio solo alcuni esempi: se noi pensiamo a com'era il C.S.O. Pedro qualche anno fa, al fatto che alcuni di noi si trovavano là a tenere in piedi una baracca, credo che la realtà di oggi sia diversa. C'è stato un momento in cui abbiamo scelto, dentro al dibattito tra compagni, che bisognava fare un passaggio. Cioé il Centro Sociale non poteva più andare avanti nella forma in cui esisteva: bisognava trasformarlo e c'era la possibilità di farlo arrivando a stabilizzare questa conquista con il comune, che non voleva dire scendere a patti rinunciando alle caratteristiche fondamentali dell'autogestione e degli aspetti di illegalità, ma significava semplicemente andare a vedere se era possibile ottenere dei risultati concreti e stabili. Questa cosa, coinvolgendo sul discorso dell'area di Via Ticino, la battaglia rispetto ai Rom e il discorso dell'area da trasformare in area verde... queste cose le abbiamo ottenute. Siamo riusciti a trasformare il Centro Sociale in quello che è oggi, con tutte le contraddizioni e i limiti che ci sono e di cui è importante discutere. Non è ancora stato fatto il parco ma c'è già il progetto deliberato in comune. Siamo riusciti, altra cosa fondamentale, a far realizzare in una città come Padova tre piccoli campi per profughi Rom, cosa non di poco conto! Perché i Rom che erano in via Ticino sarebbero stati sbattuti da qualche parte o imbarcati per la ex Jugoslavia. Con la lotta siamo riusciti a trasformare anche la vita: per i Rom il passaggio da via Ticino ai campi non è che sia speciale, però avere l'acqua, la luce, la possibilità di farsi le docce, essere riconosciuti e avere una carta che ti dà diritti di cittadinanza... sono cose importantissime! E queste cose sono piccole rivoluzioni! Nessuno oggi è in grado di farlo. Dove si sono conquistate delle cose, si sono conquistate perché ci sono state le lotte; l'abbiamo visto anche a Vigonza. Il campo per i profughi che è stato fatto a Vigonza, è stato realizzato perché abbiamo impostato la lotta in una determinata maniera.

Allora, credo che questi aspetti siano trasformazioni reali. Siamo riusciti, dentro a questa impostazione, a ottenere molti più risultati di chiunque altro si sia messo a pensare e a fare progetti di chissà quale tipo... perché non vivono la realtà. Oggi non c'è nessuno che si rapporta ai problemi concreti, che vive all'interno delle contraddizioni e che da queste trae spunto per cercare di impostare, nel bisogno collettivo, una lotta anche radicale quando è necessaria. Come abbiamo visto anche rispetto a tante cose: pensiamo a cos'era la radio verso il '91/'92. La radio era un insieme caotico di voci che venivano a trasmettere, ognuno diceva quello che gli passava per la testa, non c'era un lavoro redazionale, non c'era un'impostazione, non c'era una struttura che aveva un progetto, la musica veniva buttata su quando qualcuno voleva: questa era la radio. Dentro a questo dibattito, questa disarticolazione delle strutture, si è arrivati al fatto che la radio oggi - cosa evidente - è importante. La radio oggi è ascoltabile: c'è una redazione che discute politicamente, che riesce a programmare tutto, dalla musica a tutto il resto, e soprattutto mi sembra che la radio è diventata un bene di appartenenza comune. È un qualcosa in cui tutti, le varie strutture (dai C.S. a Razzismo Stop, all'A.D.L., ecc.) si riconoscono, perché è uno strumento fondamentale di comunicazione, di informazione, per far circolare le lotte che ci sono, per far circolare i dibattiti politici, le notizie a livello internazionale; ascoltare la radio oggi è importantissimo per ognuno di noi, perché dalla radio riesci ad avere le cose che poi ti servono direttamente anche al tuo agire politico.

Oltre a questo la radio ha messo in piedi una sperimentazione interessante: la festa che non è più una festa. Cioé trentotto giorni... non è più una festa, è qualcosa di diverso! All'interno stiamo sperimentando delle forme di cooperazione... cioé dentro al concetto principale che c'è un bene comune (la radio) a cui tutti teniamo, per cui si mettono in sinergia tutte le forze di ogni realtà organizzata di compagni per permettere che la radio possa avere un finanziamento, ma contemporaneamente la gente che vive questa eseprienza dei 34 giorni, vive una esperienza di vita reale, di socialità, di conoscenza, di relazioni, di rapporti che si instaurano. E poi c'è un discorso sul reddito che ha avuto degli sviluppi: c'è chi si prende un reddito e chi no... perché non tutti siamo uguali, c'è chi ha più bisogno: quindi c'è un discorso sulle differenze.

Credo quindi che la sperimentazione della "festa della radio" sia una cosa interessante ma chiaramente non esportabile ad altre cose. Cioé questo terreno della cooperazione è talmente complesso e difficile, che non credo sia assolutamente estendibile a qualcos'altro, perché le contraddizioni sono enormi. Pensiamo rispetto al lavoro: la cooperativa delle pulizie a Monselice avrebbe la possibilità di autogestione, hanno la forza, hanno fatto le lotte e sono in trenta-quaranta. Però dicono "Vogliamo un padrone!". Credo che questo sia una delle contraddizioni più grosse su cosa vuol dire oggi il costituirsi dei soggetti, che se non affrontano anche il terreno della produzione e quindi della cooperazione credo che siano molto limitati. Si trovano tantissime realtà che tentano - una volta che i padroni chiudono - esperienze di cooperazione che però sono fallimentari. Esperienze di cooperazioni sono rapportabili dentro a terreni in cui c'è una soggettività politica che ha in mente un progetto, che ha finalità comuni e su questo è possibile costruire delle cose: su altri terreni della produzione credo che sia, oggi, ancora estremamente difficile, se non impossibile, creare esperienze di cooperazioni in termini solidali egualitari.

Ho citato alcune cose, ma pensiamo a che cosa è stata e che cosa è oggi l'Associazione Difesa Lavoratori. L'A.D.L. è partita da una realtà della Bassa padovana e oggi è una realtà grossa a livello provinciale: si è arrivati, dopo circa un anno e mezzo, ad avere centinaia di iscritti dentro a una forma di organizzazione che punta sulla lotta, e sul costruire al tempo stesso punti di riferimento stabili, l'assistenza legale, ecc. Un organismo che ha tutti gli elementi della cellula di vita propria, così come stiamo cercando di fare con Razzismo Stop.

Anche per quanto riguarda l'associazionismo antirazzista, troviamo da una parte alcune realtà (come la "rete antirazzista" a livello nazionale) che hanno come punti di riferimento le battaglie parlamentari; dall'altra troviamo (a livello di quello che è la vecchia autonomia nazionale) che non c'è nessuna intelligenza politica, a parte qualche situazione isolata, di capire che su questo terreno ti devi dare forme organizzate affinché gli immigrati si autorganizzino e si creino assieme delle strutture, quindi devi avere dei progetti chiari che puntino a creare nella pratica una società multirazziale con uguali diritti per tutti. Però questo è un problema di conflitto e di strutture che metti in piedi perché se non fai questo non puoi procedere! E allora ti trovi all'ultima manifestazione nazionale a Roma dove i C.S. romani e le realtà di immigrati non c'erano... C'era l'"Auro e Marco", e basta ... c'erano i soliti vecchi compagni che distribuivano volantini: questa è una metodologia di lavoro che non può produrre nulla, e lo vediamo. Mentre con un'impostazione di lavoro diversa hai costruito un rapporto: con le realtà dell'immigrazione abbiamo fatto due pullman di immigrati. Mentre c'era la manifestazione a Trieste e i C.S. hanno avuto il loro terreno di conflitto rispetto a Trieste, contemporaneamente c'era questa cosa con gli immigrati. Credo, quindi, che da questo punto di vista ci siano stati molti risultati; credo siano cose anche eccezionali per quella che è la realtà che viviamo e di questo dobbiamo esserne consapevoli nell'andare avanti, perché sono tante piccole rivoluzioni che mettiamo in atto, piccole rivoluzioni che trasformano il presente.

L'elemento fondamentale è la capacità di avere progetti che sono il frutto di discussioni collettive: ciò che volevo mettere in risalto è che da un'impostazione di dibattito teorico, di analisi che abbiamo fatto, siamo riusciti a mettere in piedi dei passaggi materiali che hanno modificato la realtà che stiamo vivendo. Non ho citato altre cose importanti, come il fatto che a Marghera si è passati da quello che era l'altro centro sociale al nuovo Rivolta, la realtà di Venezia, di Trieste, ecc.. Tutto il lavoro in rete che si è messo in piedi, questa capacità di comunicare e di non avere impostazioni di tipo ideologico, ma di essere improntati al concreto...tutto ciò ha prodotto questa rete autonoma dell'autorganizzazione sociale a livello del nordest, che è una cosa con un'ossatura molto significativa e solida.

Questo non ci deve far pensare di vivere sugli allori, perché in realtà ci sono grossi problemi dal punto di vista del "cosa vogliamo fare", come vogliamo impostare le cose in futuro.

Su questo piano, credo siano fondamentali alcune cose: un'impostazione e una metodologia di lavoro che parte da alcuni ragionamenti. Se vogliamo essere dei soggetti che vogliono trasformare il presente, dobbiamo porci nell'ottica che non lavoriamo solo per noi stessi... cioé, lavoriamo per noi stessi ma lavoriamo anche per trasformare il reale che ci sta attorno; se non è così, si costruiscono dei ghetti! Se invece non vuole essere la costruzione dei ghetti, il nostro agire deve essere anche un relazionarsi con le contraddizioni che vivono al di fuori di noi. Se vogliamo affrontare la questione sul reddito, non possiamo pensare che la risoluzione di questoproblema sta nel fatto che coloro che sono dentro al C.S. si distribuiscono un pò di soldi che vengono fuori dagli incassi... e quella è la risoluzione del problema del reddito. Il problema del reddito, oggi, è capire qual'è la composizione di classe, capire qual'è la dimensione dentro la fabbrica sociale, dentro la frammentazione produttiva, capire cosa vuol dire essere precario; per cui agitare la parola d'ordine "reddito garantito", vuol dire tutto ma vuol dire niente se non siamo in grado di costruire i percorsi materiali dei soggetti che vivono questa contraddizione e che producono lotte e proposte.

Questo è un elemento fondamentale e per fare questo non è che uno si inventa una mattina la parola d'ordine "reddito garantito" e la settimana successiva un'altra parola d'ordine. Va superata questa metodologia di lavoro che (bisogna dire in parte) c'è stata e c'è ancora..., per cui si lanciano delle parole d'ordine che poi non hanno una verifica concreta... come sul terreno della casa: se si vuole costruire un movimento di lotta sul diritto alla casa, bisogna sapere cosa vuol dire! Bisogna avere la capacità di fare un'analisi sulla realtà di chi vive il problema della casa; su questo ci deve essere la pianificazione di un intervento! Ci deve essere la capacità di dire su queste problematiche vediamo cosa è possibile fare! Dopo può succedere che non riesci a ottenere nulla perché magari la situazione non è adeguata, però - questo è il concetto fondamentale - ci deve essere un lavoro sotterraneo costante, condotto con metodo e quindi i compagni decidono di fare non solo le cose che piace loro fare... (cosa che può essere andata bene per un certo periodo di tempo). Se non c'è questo, c'è un ributtarsi addosso le cose e invece di uno sviluppo in avanti, c'è un arretrare, perché gli elementi nuovi di trasformazione li hai quando vedi che puoi cambiare anche la realtà circostante; se non è così rischi l'asfissia.

Credo che si debbano individuare progetti chiari rispetto ai settori in cui ognuno di noi è più o meno inserito - precariato, lavoro, casa, ecc. - e all'interno di questi cercare di capire, rispetto alla propria condizione, cosa si può fare in termini di costruzione di lotte e di organizzazione e stabilità di organismi che si pongono in questa prospettiva: che insomma non siano delle cose estemporanee, che si mettono in piedi oggi e già domani non ci sono più. Se non siamo in grado di chiarirci questo apsetto e non ci poniamo fin da subito nella discussione tra compagni/e il come dare delle risposte concrete/operative su questo problema, credo che tutto quello che abbiamo creato rischi di non andare avanti e quindi di andare indietro.

Un altro aspetto fondamentale è che noi, da sempre nella nostra storia, non abbiamo mai avuto vocazioni minoritarie; quando verifichiamo la possibilità di costruire una lotta su un determinato settore sociale, pensiamo sia possibile creare la lotta per la maggioranza politicamente più significativa di quel settore: non pensiamo alla lotta esemplare di quattro soggetti che fanno una cosa e poi è finita là. No, facciamo un discorso per costruire lotte che abbiano valenza di maggioranza all'interno di quel settore. È sempre stata così! Per cui credo che questo sia un altro concetto fondamentale nell'impostazione delle lotte che andiamo a fare.

Credo che oggi ci sia bisogno di questi elementi profondi di analisi teorica e di come poi misuriamo queste analisi sul piano concreto, soprattutto perché non si può andare oltre a un certo punto di teoria: se non c'è una sperimentazione concreta delle teorie, non si va avanti neanche sul piano della teoria.

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