Interventi al seminario della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale

25 marzo 1996

Intervento 6
sul lavoro

Parto da due o tre cose introduttive di carattere generale. Sono anch'io molto soddisfatto delle relazioni di stamattina. Non che tutte le cose dette fossero cose nuove, anzi sono gli elementi su cui si sta discutendo da circa tre anni: però la linearità, con cui sono state esposte, delinea in modo molto appropriato i nodi che dobbiamo affrontare, e comincia a dare una visione d'assieme della realtà con cui quotidianamente ci confrontiamo. Anch'io, leggendo "il manifesto", rimango stupito nel trovare all'interno di numerosi articoli ed interventi molte delle cose che ho sentito affermare già da alcuni anni da parte dei compagni, nelle nostre sedi. Evidentemente però alcuni passaggi stentano a materializzarsi, alcuni terreni di ricerca stentano a concretizzarsi in dinamiche più larghe. Allo stesso tempo, nelle nostre zone, nei nostri territori - e la cosa mi conforta moltissimo - la presunzione di avere la capacità di prefigurare, in termini di analisi, alcuni passaggi trova puntualmente riscontro, ancora una volta. Ancora una volta, insomma, riusciamo ad avere una capacità di lettura della realtà che prefigura e - contemporaneamente - una capacità di applicazione pratica delle cose che si sono dette e discusse. L'elemento discriminante di questi anni, così com'era negli anni Settanta, la cosa che ci ha sempre contraddistinto è quella di non aver mai avuto una grossa distanza tra la chiacchera e la prassi, o tra l'analisi e l'iniziativa. In un contesto diverso, è quanto ritroviamo anche oggi: da un lato la discussione e l'analisi, dall'altro il tentativo di sperimentare sempre, dal punto di vista pratico, le cose su cui si lavora in termini di analisi o di ricerca. Mi ritrovo dunque nelle cose che sono state introdotte questa mattina, ritengo anzi che vadano riprese e valorizzate. Aggiungo due semplici considerazioni, a partire come tutti dal mio terreno specifico di iniziativa. Che cosa significa, per esempio, la globalizzazione dell'economia come passaggio rispetto l'autorganizzazione sui posti di lavoro? Anche qui l'atteggiamento non può essere che quello del "pessimismo relativo", nel momento in cui affronti questioni molto particolari nei singoli posti di lavoro e ti scontri con una problematica che ti porta all'altro capo del mondo: non è una questione che possa trovare immediatamente soluzione. Credo che questo tentativo di ricerca si riproduca un pò su tutti i terreni: abbiamo, ad esempio, parlato di fordismo ed oggi parliamo di postfordismo. Dovremmo soffermarci a capire perché non esista oggi un riferimento generale, chiamiamolo un paradigma anche se il termine non è appropriato, che ci permetta di interpretare complessivamente il postfordismo. Per esempio, qual è la dinamica - rispetto al modello produttivo della fabbrica diffusa, della globalizzazione, della socializzazione delle forme di produzione - paragonabile alla "qualità totale"? Sappiamo che il tentativo di attuare il passaggio alla "qualità totale" dentro la fabbrica fordista ha significato un terreno di cooptazione nella gestione del processo produttivo non solo della forma sindacale, ma anche di cooptazione mentale dell'operaio, per cui una cooptazione dei saperi che venivano in qualche modo legati alla rivalorizzazione produttiva. Oggi, all'interno della dimensione sociale diffusa, qual è il meccanismo? Passa probabilmente per tutta una serie di altre dinamiche: siamo tutti soggetti produttivi, siamo tutti coinvolti al di là delle figure di di volta in volta assumiamo; ma qual è la forma? Siamo tutti imprenditori di noi stessi o ci troviamo collocati all'interno di un meccanismo per cui qualsiasi aspetto della nostra vita viene poi, in realtà, sussunto e rivalorizzato rispetto ad un processo generale? Questo dato è sicuramente vero ma pone anche un terreno problematico di riflessione: se all'interno della fabbrica si poteva instaurare una logica di rifiuto di questo concetto della "qualità totale", che poi si esprimeva su un terreno di sabotaggio, di iniziativa sindacale pratica, di rifiuto di alcune cose, di attacco; oggi, nella dimensione produttiva sociale, quale può essere il terreno di rifiuto? Uno degli elementi su cui credo si possa lavorare è la scelta di non essere tutti imprenditori di se stessi, ma di sviluppare una logica di tipo cooperativo, che punti all'"annientamento" della logica individualistica, per sviluppare forme di relazione di tipo mutualistico e cooperativo.

Dentro questa riflessione, sul rapporto tra settorializzazione e complessivizzazione anche dell'intervento politico, anche i settori specificidel momento organizzativo debbonosempre più confrontarsi complessivamentecon tutti i vari aspetti del sociale. È necessario rendere materiale, all'interno di tutti gli organismi in cui operiamo, questo concetto di rapporto in rete: non solo perché il problema è quello di mettere in comunicazione la rete, ma anche e soprattutto perché i contenuti che affrontiamo ed i terreni su cui lavoriamo devono immediatamente porsi in una logica e in una dinamica complessiva. Scendiamo velocemente sul terreno pratico, senza scomodare grandi discorsi teorici: se fai intervento al Centro sociale non può esistere solo un discorso specifico del Centro sociale, ma devi fare immediatamente i conti con le tematiche dell'immigrazione, del reddito, della comunicazione. Così come se intervieni sull'autorganizzazione nel posto di lavoro, ti trovi immediatamente ad avere a che fare con giovani lavoratori che rivendicano anche spazi d'aggregazione, con l'immigrato che vive un problema di diritti negati e così via. Non possono esistere dinamiche separate. Anche qui si tratta di forzare nell'agire politico quotidiano.

Con questo spirito penso vada affrontato anche il mio terreno specifico, cioé l'esperienza dell'Associazione Difesa Lavoratori - Cobas, momentaneamente federata Slai, perché noi abbiamo un nostro progetto, una nostra pratica, un nostro approccio rispetto alle cose, che., se per un verso trova delle grosse assonanze su alcune cose che vengono fatte all'interno dell'Alfa di Arese, su altri terreni abbiamo delle logiche che ci porteranno probabilmente da tutt'altra parte. Per fortuna l'orientamento dominante nello Slai-Cobas non è quello del libro di Malabarba - "Dai Cobas al sindacato", facciamo gli scongiuri - , noi cerchiamo di dire qualcosa di completamente diverso, l'orientamento dev'essere ben altro, l'orientamento è la rete, le reti, non ricostruire il sindacato ma costruire e diffondere autorganizzazione. Il discorso strategico non può essere quello del nuovo sindacato nazionale, ma porsi il problema del lavoro produttivo e delle modificazioni che sono in atto. Per esempio, che cosa succede nel momento in cui l'Alfa chiude? A me dispiace, ma bisogna ragionarci prima. Chiaramente può esserci una logica di lotta di tipo resistenziale, ma le lotte di resistenza possono avere un senso solo nel momento in cui sono foriere dello sviluppo di un orizzonte nuovo; se invece sono un fine a se stesso, finisce come sono finite tutte le lotte di tipo resistenziale, punto e a capo.

La logica deve essere invece quella dell'internità ad una dinamica sociale. Noi cerchiamo di muoverci in quest'ottica, anche nelle piccole cose. Il fatto che l'A.D.L. sia passata da alcune singole esperienze di autorganizzazione ad oltre settecento iscritti in provincia di Padova non vuol dire nulla; vuol dire molto il fatto che promuoviamo iniziative di lotta e scioperi autorganizzati, che ci poniamo in una logica che non è di puzza al naso sulle dinamiche di trattativa, che riusciamo a conquistare spazi (come la nuova sede che diventerà un punto di riferimento per l'estensione della proposta A.D.L. a tutto il Nordest), che stiamo sperimentando l'apertura ad una logica diversa. Per esempio, con la campagna per ottenere il rimborso sulle bollette Enel, abbiamo raccolto in una settimana oltre trecento adesioni tra i lavoratori, mentre gli ambientalisti hanno fatto un'iniziativa solo di facciata. Abbiamo una logica che non è quella della semplice tutela sindacale del lavoratore di fabbrica o dell'impiegato in ufficio, ma ci muoviamo in una logica più complessiva dal punto di vista sociale: a partire dall'iniziativa del Cobas dell'Italcementi di Monselice abbiamo, per esempio, aperto una vertenza contro la scelta del cementificio di bruciare copertoni. La questione è stata sollevata dagli stessi lavoratori interni all'Italcementi e oggi sta mobilitando l'intero paese. C'è una composizione operaia molto giovane che con la riforma delle pensioni ha davanti la prospettiva di trent'anni di fabbrica e che si pone in prima persona il problema della salute. Noi non ragioniamo certo sull' "esportazione" di questo modello nelle altre provincie, ma vogliamo aprire un confronto a tutto campo con i differenti organismi: stiamo per esempio sviluppando un rapporto con il Centro sociale di Padova.

Volevo concludere con una annotazione sulla globalizzazione: questo discorso penso vada localizzato. Si pensa spesso ad una rigida divisione tra un centro dell'economia-mondo e una sua periferia. In realtà, a cinque kilometri da qui abbiamo delle fabbriche dove si lavora per 3.500 lire all'ora che sono legate al ciclo calzaturiero della Riviera del Brenta. Non so se avete letto sul giornale che a New York ti prendono l'impronta del piede con lo scanner e ti fanno la scarpa su misura qui. Allora, abbiamo certo un alto tasso di tecnologia, ma non vorrei credessimo che qui tutti lavorano al computer e le scarpe le fanno solo a Taiwan. In realtà questo meccanismo di stratificazione e polarizzazione sociale è ben presente anche qui, sotto casa nostra.

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