Contributo al convegno di Venezia 15-16 novembre 1996


NORDEST LABORATORIO POLITICO

ArsenaleSherwood - Padova

 

La politica come simulazione.

Non è semplice individuare e descrivere la configurazione geopolitica di una realtà, come quella del Nordest, in continua, caotica trasformazione. Lo stesso miracolo economico di cui tanto, forse troppo, si è parlato negli ultimi mesi, sta segnando il passo: calo della domanda e della produzione, crisi della struttura economica portante, la piccola media impresa, fallimenti a catena di tutte quelle attività che non riescono ad adeguarsi, rapidamente, ad un nuovo ciclo di innovazione tecnologica, investimenti, flessibilità produttiva, presenza nei mercati internazionali. Lo stesso recupero della lira sul marco tedesco ha bruscamente ridotto l’export, con pesanti ricadute su tutti i comparti produttivi. Una delle caratteristiche principali del postfordismo - e della sua ideologia legittimante, il verbo neoliberista - è proprio questa concezione del territorio come “Nuova frontiera”, selvaggio Far West, dove si assiste ad una spietata lotta quotidiana per la sopravvivenza. La guerra economica provoca effetti devastanti, ma anche un enorme accumulo di ricchezza, denaro e potere: una sorta di nuova accumulazione originaria nell’epoca della sussunzione reale! Gli scenari sociali evocano l’efficace immagine di Hegel, quando descrive le lotte, i bisogni, i conflitti, gli scontri di interesse che si agitano all’interno della società civile e della sfera lavorativa come un “animale selvaggio”. In questo quadro non vi sono certezze, dati consolidati e duraturi; piuttosto il regno dell’effimero e della precarietà, nuovo spirito dei tempi.

Gli scenari mutano infatti repentinamente, con grande velocità ed imprevedibilità: ogni più piccola variazione nella struttura globale porta ad effetti immediati in tutte le sue parti ed articolazioni locali e territoriali, e viceversa, allo stesso tempo.

Se per la soggettività antagonista è difficile oggi interpretare e rovesciare il segno delle trasformazioni in corso, riscoprire in esse tracce e possibili indicazioni per un nuovo percorso di liberazione sociale, neppure per le strutture del potere politico-istituzionale è cosa semplice ridisegnare le forme del comando e governare una così alta complessità. Questo vale in generale, ovviamente, non solo per l’area del Nordest. Basti pensare alle tumultuose vicissitudini, allo scontro tra apparati dello Stato, alle contraddizioni irrisolte, alle spietate lotte di potere che avvengono all’interno del Palazzo: uno sfondo cupo ha accompagnato e accompagna il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, uno sfondo di corruzione, intrighi e infamie, degno delle corti dell’Ancien regime, o in tempi più vicini, dei regimi del tardo-post socialismo reale. E se sicuramente Di Pietro non è Robespierre, neppure Cacciari è un “padre fondatore”!

Siamo di fronte ad una “rivoluzione dall’alto” nei termini già individuati da Marx e Gramsci. Sovversione dall’alto e rivoluzione passiva sono concetti forti: solo che, qui ed ora, essi assumono una coloritura farsesca, lasciando il posto ad un più prosaico e “normale” trasformismo opportunistico, strettamente connaturato ai ceti politici dirigenti di questo paese e al sistema dei partiti, vecchi e nuovi che siano.

Certo è che mancano completamente, sulla scena italiana di questo fine secolo, significativi movimenti antagonisti dal basso, lotte sociali di massa che assumano carattere ricompositivo. Questo fatto rende ancora più complicata la lettura delle modificazioni del “politico”, se non come mera riproduzione di comando, svuotato di senso, simulazione mediatica di una “dialettica” e di una “rappresentanza” che non esistono più, neppure formalmente.

Le stesse proposte federaliste del movimento dei sindaci del Nordest, o il secessionismo della Lega, sembrano a volte grottesche caricature di ciò che, in tempi più antichi e virtuosi, era legato a grandi passioni, a lotte sociali, alla potenza costituente della moltitudine. Oggi, nel postfordismo, anche le forme classiche del pensiero politico della modernità sono riciclate nel mercato della politica-spettacolo. Al “virtuoso”, segno distintivo della politicità alle sue origini, si è sostituito il “virtuale”, come mera simulazione mediatica.

 

La politica come comando.
Produzione e politica, produzione del politico.

Ma se questa vuota circolarità del potere e del politico, la sua totale autoreferenzialità, rende impossibile qualsiasi lettura unilineare degli eventi, o estremamente difficile riscoprire il reale dietro il velo della simulazione, è vero d’altra parte che possiamo individuare alcuni processi strutturali i cui effetti sono misurabili nel Nordest ed intorno ai quali si riarticolano, anche nel nostro territorio, le forme di governo.

1. Il duplice processo, simultaneo ed interconnesso, di globalizzazione/localizzazione: “Global is in the local” come ha scritto la sociologa tedesca Maria Mies. Per la prima volta nella storia, si assiste alla formazione di un vero e proprio mercato mondiale, non solo dal punto di vista della circolazione delle merci, ma anche della forza-lavoro e della riorganizzazione su scala mondiale dei processi produttivi. Lo sconvolgimento epocale dei vecchi equilibri economici e geopolitici produce nuove suddivisioni e segmentazioni gerarchiche all’interno del sistema dell’economia-mondo, nuovi rapporti di dominio e servitù, di violenza e sfruttamento, di inclusione/esclusione. La contraddizione strutturale tra Nord e Sud attraversa ogni luogo, dalle periferie alle metropoli. La “totalità” capitalistica, nell’epoca della sussunzione reale, incombe e produce effetti in ogni sua parte, sia pure infinitesimale o apparentemente marginale. Detto altrimenti, la complessità del globale si riproduce in ogni più piccola dimensione locale: “in ogni luogo si specchia il mondo, anche se in forme e modi differenti” scrivono gli zapatisti. Una sorta di “causalità immanente” dove la localizzazione non si qualifica in quanto polarità contrapposta al globale, come se si trattasse di due processi distinti o esclusivi l’uno dell’altro, bensì come un punto di vista e una differente prospettiva da cui cogliere lo stesso identico processo. Ciò significa, ad esempio, che uno dei “segreti” della longevità imprenditoriale di Benetton - a differenza della drammatica crisi che ha investito il suo emulo Stefanel - risiede proprio nell’aver saputo coniugare la trasformazione dell’impresa tessile trevigiana in un grande gruppo transnazionale, dalle attività diversificate e decentrate a livello mondiale, ad alto grado di finanziarizzazione, con il mantenimento di una radicata presenza territoriale, la costruzione di consenso politico locale intorno a questo modello d’impresa. Se le politiche valutarie all’interno dell’Europa di Maastricht o l’abbassamento del costo della forza-lavoro in Slovenia o nelle Filippine producono certo effetti immediati sullo sviluppo delle reti produttive qui localizzate, non è d’altra parte neppure pensabile un rapporto di meccanica sovradeterminazione di esse da parte di macrodecisioni globali: come nel celeberrimo esempio del battito d’ali di una farfalla ad Hong Kong che provoca un terremoto in California, così la piccola innovazione di un produttore di scarpe sportive a Montebelluna può spostare grossi investimenti e capitali finanziari alla New York Stock Exchange.

2. Le trasformazioni epocali del modello produttivo: la produzione sociale diffusa, l’impresa in rete, la “qualità totale”. Non esiste un unico modello produttivo postfordista, piuttosto un insieme estremamente variegato e diversificato di dinamiche produttive e riproduttive, di pratiche sociali, con alcuni elementi in comune: crisi e dissoluzione della grande fabbrica fordista-taylorista, salto di paradigma e aumento di complessità, l’inadeguatezza dei vecchi rapporti centralizzati, piramidali e verticistici, di direzione e comando (come era nella fabbrica taylorista). Al contrario, la macchina sociale, complessa e flessibile, della produzione postfordista presuppone una maggiore capacità di decisione e scelta da parte della forza-lavoro. Si rende necessaria una maggiore prossimità dei centri di progettazione/decisione alle articolazioni immateriali e materiali della produzione in rete, tra ideazione ed esecuzione, invenzione e realizzazione.

Si tratta, come è ovvio, di un perfezionamento contradditorio e ambivalente delle tecniche di comando e sfruttamento da parte del capitale, che deve assumere come presupposto imprescindibile della valorizzazione sia l’estensione della cooperazione sociale, sia la sua potenziale autonomia. E’ dunque la stessa “qualità” del lavoro vivo che deve essere messa in valore, la sua capacità di gestione ed organizzazione. La sua intelligenza e il suo sapere - per quanto informali possano essere - devono essere catturati ed imbrigliati.

All’interno di questi processi, la “qualità totale” non va interpretata come una determinata, specifica, organizzazione tecnica della produzione, la cui applicazione anche nella grande impresa ristrutturata ha visto esiti alterni, bensì come nuova filosofia e politica dell’impresa: una sorta di “mobilitazione totale” del lavoro vivo, della sua creatività e intelligenza, della ricchezza delle sue capacità intellettive e comunicative. L’ideologia del produttore, la nuova etica del lavoro e della professionalità, il mito dell’efficienza e dell’onnipotenza del mercato, la completa identificazione tra lavoratori e impresa, tra padroni e operai, la rottura della solidarietà, la logica premiale e meritocratica, l’occultamento delle contraddizioni o diseguaglianze di classe, sono questi gli effetti più perversi e orrendi di questo nuovo “totalitarismo”!

4. I processi qui delineati s’intrecciano con la fine del Welfarestate, per come storicamente l’abbiamo conosciuto, attraverso la rottura del patto sociale caratterizzante il fordismo: quest’ultimo punto ci permette di accostare più da vicino la realtà produttiva e sociale del Nordest. La particolare forma - “consociativo-clientelare” - assunta dal compromesso keynesiano in Italia aveva, fra le altre cose, garantito canali privilegiati di distribuzione del reddito tra centro e periferia: ciò che per la Campania era, per esempio, rappresentato dall’erogazione delle pensioni d’invalidità, qui assumeva il volto di un rapporto particolarmente favorevole col credito (casse rurali e di risparmio) da parte sia della grande impresa sia dei piccoli produttori localizzati, come costo politico della pace sociale, il prezzo del consenso pagato dal sistema dei partiti. Questi flussi finanziari, così come quelli relativi alla contribuzione europea in campo agricolo, hanno costituito - insieme alle liquidazioni, ai prepensionamenti, alla Cassa Integrazione - la base materiale su cui si sono fondate molte “avventure imprenditoriali” che hanno fatto la fortuna del sistema di piccola impresa in Veneto. A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si è però verificata la rottura di questo determinato rapporto tra potere politico centrale (consociativo a egemonia dc) che garantiva comunque a tutto il settore “artigiano” canali di erogazione finanziaria, di protezione politica e materiale (in una catena che partiva dal ministro doroteo e arrivava fino al parroco del paese). Non è un paradosso che l’area di maggior consenso democristiano esprima oggi i massimi livelli di contestazione del potere politico centralistico. Con lo svanire del “pericolo rosso”, la fine del socialismo reale e l’esaurimento dell’antagonismo operaio, l’integrazione europea e le compatibilità fissate da Maastricht rendono un “costo superfluo” questi trasferimenti privilegiati.

5. La crisi dello Stato-nazione: il processo che determina il superamento della dimensione nazionale dei mercati (siano essi delle merci o della forza-lavoro) porta anche al progressivo svuotamento delle macchine burocratico-amministrative “nazionali” in grado di governare, attraverso strumenti keynesiani, una qualsivoglia forma di pianificazione dello sviluppo economico e della regolazione sociale. I “luoghi”, sempre più inafferrabili, dove vengono prese le macrodecisioni che condizionano le politiche economiche e sociali dei diversi governi nazionali, sono già “altrove”. Queste strutturali ed irreversibili modificazioni non significano affatto che si vada verso “l’estinzione dello Stato”; anzi il thin State, omologo politico della lean production, non rinuncia affatto ad intervenire pesantemente in termini di comando sui processi della riproduzione sociale complessiva. La forma-Stato sta piuttosto ridefinendosi in rapporto alle nuove relazioni che si stabiliscono tra dimensione territoriale e produzione: da un lato il grado sempre più elevato di deterritorializzazione / smaterializzazione dei flussi della ricchezza e delle reti di comando, dall’altro la localizzazione sempre più radicata delle reti produttive, la compenetrazione della fabbrica socialmente diffusa col territorio.

Il nuovo modello produttivo - che ha trovato in questi territori un punto di significativa, per quanto specificatamente caratterizzata applicazione - vede dunque la “mobilitazione totale” delle energie e delle capacità lavorative sociali, l’estensione in termini assoluti della giornata lavorativa sociale, una nuova stratificazione in rapporti di gerarchia e sudditanza tra grandi, medie, piccole imprese e lavoro autonomo. La ferocia di queste relazioni gerarchizzate si mostra oggi chiaramente nella vicenda della crisi del “contoterzismo”: i subfornitori liquidati in quattro e quattro otto dai grandi gruppi del tessile-abbigliamento che hanno ridislocato interi segmenti del ciclo produttivo verso i paesi dell’Est. Allo stesso modo, all’interno dell’economia-mondo globalizzata si ridisegna una stratificazione tra aree più o meno ricche. Tutto questo determina anche la fine di una concezione universalistica dei diritti: in un sorta di nuovo feudalesimo post-industriale, vince l’esaltazione dell’elemento particolare e particolaristico, vanno fatti valere i privilegi di gruppi d’interesse, lobbies, comunità omogenee. Alla “forza del diritto” si sostituisce, senza più maschere, il diritto del più forte.

 

I sindaci, generali senza esercito.

Dal punto di vista delle trasformazioni produttive, il federalismo proposto dal movimento dei sindaci potrebbe rappresentare la soluzione “più efficiente”. Come nel just in time: riduzione dei tempi che trascorrono tra input dei bisogni locali e output della decisione politico-amministrativa, con conseguente snellimento delle strutture burocratiche intermedie. Forme di produzione / macchine di governo in grado di rispondere in tempo reale alle esigenze che emergono nel territorio, definiscono strutture più agili dal punto di vista capitalistico, in grado di collegare dimensione globale e locale. Il problema degli amministratori locali più intelligenti è creare le condizioni affinché un territorio sia il più possibile “appetibile” dentro le nuove condizioni dell’economia-mondo. Il movimento dei sindaci proporrebbe - in fondo - una forma di federalismo classico: cercando di connettere forti “autonomie locali” con un forte potere centrale, magari marcatamente trasformato in senso presidenzialista. Questo progetto potrebbe - nell’astrazione/simulazione del politico postmoderno - corrispondere alle nuove forme di organizzazione produttiva (qualità sociale, just in time, reti). Lo stesso discorso sull’autorganizzazione dei cittadini, più volte svolto da Cacciari, non ha solo il semplice obbiettivo di colmare le lacune lasciate aperte dalla fine del welfare, ma ricorda da vicino il kan-ban del metodo Toyota, l’autoattivazione della soggettività operaia.

Il progetto dei sindaci non manca però di suscitare una serie di perplessità, anche relative alle sue intrinseche contraddizioni: come sarebbe possibile attuare un tale modello di federalismo in un paese con una struttura statale unitaria e centralizzata, dal momento che, per riunire differenti poteri, è necessario come minimo prima separarli? In secondo luogo, dovrebbe stabilirsi un rapporto di vero e proprio “dualismo di poteri” che prefigura la costituzione di un contropotere duraturo e reale all’interno di un sistema di checks & balances, affinché nessuno dei due termini possa prevalere sull’altro. Possiamo forse immaginare un movimento rivoluzionario dei sindaci che proclami l’indipendenza costitutiva dei propri comuni dal governo centrale?

Ma il problema di Cacciari & co. è forse un altro: la costruzione di una nuova mini forza politica oppure una semplice riforma dello Stato in direzione di un più ampio decentramento amministrativo, il tutto infiocchettato da un discorso di facciata, che scomoda indebitamente potenti categorie del pensiero e della prassi politica.

 

La Lega e il tema della secessione.

E’ impossibile sviluppare qualunque ragionamento sul Nordest senza cogliere l’aspetto di estrema modernità della Lega: una forza politica post-ideologica, espressione della fine delle grandi narrazioni che hanno attraversato la storia del Novecento. Proprio per questo è difficile collocare la Lega secondo la distinzione classica, ereditata dalla tradizione parlamentare delle moderne democrazie borghesi, tra “destra” e “sinistra”. Certo, si tratta di una forza politica e sociale nemica, ostile allo sviluppo di nuovi processi di liberazione reale dal lavoro salariato e dallo sfruttamento, di solidarietà e cooperazione contro diseguaglianze, egoismi e gerarchie, di vera libertà da ogni forma di oppressione statale, contro ogni discriminazione di ceto o di razza. Ciò non toglie che vada oggi complessivamente registrata una certa inadeguatezza degli strumenti analitici e d’intervento che dovrebbero permetterci di conoscere e combattere questo nemico. Così come, per lottare nei nostri territori ed oltre contro il neoliberismo, non è sufficiente lanciare generici appelli contro la “nuova destra”, affrontare nuovi nemici con armi ormai spuntate. Si tratta invece di interrogarsi in profondità, sul perché oggi la “destra” - mantenendo questa definizione solo per semplicità comunicativa - abbia tanto consenso sociale. E sul perché proprio la Lega raccolga adesioni così vaste in aree del lavoro dipendente, dell’ “operaio ristrutturato”, del cosiddetto lavoro autonomo e della microimprenditoria. Che cosa rappresenta questo “blocco” di forze produttive? Ancora, come può il neoliberismo, con i suoi miti assolutisti del mercato e dell’impresa, ammantarsi poi di coloriture populiste e rappresentare la rivolta di ampi settori di massa contro quel potere dello Stato, garante e regolatore in ultima analisi proprio dei meccanismi del mercato? Certo, qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di “sporche ideologie” che ingannano e manipolano le coscienze, che il problema è la propaganda della “vera coscienza di classe” ... balle, se le cose fossero così semplici, perché non dovrebbero vedersi segnali diffusi e significativi di rivolta sociale, perché gli uomini continuano a “preferire di essere schiavi”?

Il fatto è che dalla moderna destra sociale, così come nell’ideologia neoliberista, sono sussunti, seppur in forma stravolta e mistificata, alcuni elementi che dovrebbero appartenere alla memoria e alla pratica sociale dei movimenti antagonisti e sovversivi. Non è del resto una novità: la destra diventa egemone solamente quando riesce a porsi oltre la distinzione destra/sinistra, quando si appropria di bisogni, tensioni, contraddizioni che attraversano i soggetti sociali e produttivi. Nella Lega possiamo per esempio ritrovare echi, per quanto lontani, di alcuni filoni di pensiero non propriamente di destra - sono fili impercettibili, spesso invisibili, forse anche nostre piccole forzature - : ma come non pensare alla “comunità dei produttori”, alla “morale dei produttori”, al concetto di “blocchi economico-sociali”, veicolati dal sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel? Come non ricordare l’influenza - spesso occultata - che Sorel stesso ebbe sulla formazione di Gramsci ? Nel concetto di “popolo dei produttori” riecheggiano i miti produttivistici ed organicisti a cui non è completamente estranea la tradizione della sinistra. La stessa categoria gramsciana di “nazional-popolare” che tanta parte ha avuto e continua ad avere tra gli eredi e gli orfani del vecchio Pci, al di là della loro attuale collocazione, è presente in maniera forte anche nella Lega, seppur ritagliata su un territorio più piccolo e immaginario, quale la Padania.

Il tema della secessione può essere invece ritrovato da un altro punto di vista nella storia critico-rivoluzionaria dell’ “altro movimento operaio”, dell’autonomia e indipendenza di classe, in tutti i momenti più alti di conflitto e ribellione, nel Sorel della scissione, nel Gramsci dei consigli, nel dualismo di poteri configurato dal soviettismo originario, persino nella feroce partiticità del leninismo e nella grande utopia del Sessantotto.

Come si colloca dunque il discorso secessionista della Lega in questa nostra lettura che cerca di collegare trasformazioni produttive e sociali e mutamento del quadro politico? Fin da tempi non sospetti abbiamo preso sul serio il percorso politico della Lega Nord, non per gridare “al lupo, i nuovi fascisti”, né per dare credito eccessivo alle sparate di Bossi, ma perché le problematiche della scissione, della separatezza, benchè trasfigurate da un punto di vista ferocemente neoliberista, colgono alcuni elementi essenziali della contemporanea mondializzazione. La Lega non è solo, da questo punto di vista, un fenomeno di chiusura localistica: coglie senza ipocrisie il dato brutale del momento economico come fondante qualsiasi altro valore.

La tematica delle scissione / separatezza appare quella che meglio interpreta gli scenari sociali del postfordismo, nel suo essere profondamente intrecciata con la fine della dialettica tra lotte operaie e sviluppo capitalistico. Di fronte alla rottura del vecchio compromesso sociale fordista-keynesiano, si delineano infatti - tra le altre - con maggior nettezza, due ipotesi di uscita: la prima punta ad una ricostruzione fittizia del patto sociale, alla messa in scena di una soluzione socialdemocratica, senza che più ne esistano le basi materiali ed i macro-soggetti di riferimento, nel quadro invece delle compatibilità internazionali imposte dalla logica neo-liberista; il compromesso viene sì riprodotto ma come “sommatoria di debolezze” dal punto di vista dei “poteri forti”, patto tra corporazioni di potere ... è questa la soluzione rappresentata sul terreno politico-istituzionale dal governo dell’Ulivo.

Oppure, nella seconda ipotesi, si tratta di liquidare gli aspetti più mistificanti di una dialettica fittizia e codificare - ovvero riconoscere formalmente - separazioni, scissioni, gerarchie che già esistono di fatto, assumendole come se fossero “naturali”; si da così corpo ad un nuovo organicismo, che si autoriconosce sulla base del brutale interesse economico. La “Nazione padana” si fonda sulla naturalità della seconda (o terza) natura disegnata dai rapporti di produzione capitalistici, fornendo un immaginario ed una cornice formale ad una delle caratteristiche fondamentali della globalizzazione: la costruzione di un sistema di ghetti.

 

I ghetti del neoliberismo.

Ci siamo soffermati sul concetto di “neoliberismo”, parlando di Lega e Nordest, per una serie di motivi:

1. perché riteniamo che il neoliberismo, pur nella complessità e diversificazione delle sue pratiche di dominio, sia effettivamente l’ideologia totale del modo di produzione capitalistico nell’epoca della sussunzione reale;

2. da questo punto di vista, “destra” e “sinistra” non sono che variabili dipendenti da un’unica struttura dominante, differenti modi di gestire uno stesso modello di sfruttamento e divisione del lavoro (chiaro che non siamo alle teorie sul “social-fascismo”, le differenze ci sono e vanno sottolineate);

3. La “violenza della moneta” e l’assolutizzazione della logica di mercato svelano, senza più maschere socialdemocratiche e dialettiche, la brutalità del modo di produzione capitalistico, nel duplice processo di globalizzazione e localizzazione, nelle nuove gerarchie sociali, nelle suddivisioni nord-sud. La riproduzione sociale e le forme di welfare fin qui conosciute devono essere piegate alla logica d’impresa, a criteri di efficienza e produttività: riassorbimento del politico nella dura necessità delle cosiddette leggi economiche, spacciate per dogmi naturali ed eterni ?

4. Nell’area del Nordest, intesa come territorio complesso, sociale e produttivo, innervato da profonde trasformazioni, il “neoliberismo” è - almeno in parte - rappresentato dallo “spirito di scissione” e dal progetto secessionista della Lega nord.

In linea con il New Federalism dell’epoca reaganiana, con le tesi di Buchanan - consigliere del Principe -, con quei processi di stratificazione e segmentazione sociale così ben tratteggiati da Mike Davies in City of Quartz e l’azzeccata definizione del “fascismo californiano”. Certo, il Nordest non è la California e i reaganiani nostrani di turno mostrano più spesso colori e sapori provinciali e paesani: ciò non toglie che, per combattere il neoliberismo qui da noi bisogna coglierne gli elementi fondanti, che non sono solo di carattere reazionario e neo-autoritario. Il neoliberismo potrebbe essere definito, con un buon grado di approssimazione, il Termidoro del Sessantotto, nel senso che in esso non è difficile scoprire tracce, per quanto trasfigurate e tradotte in nuove tecniche di dominio, di quella fase rivoluzionaria. Allo stesso modo in cui Marx definì, con insuperata chiarezza, il carattere delle controrivoluzioni (ne Le lotte di classe in Francia e Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte): non mera reazione del potere dopo un tentato assalto al cielo, ma forme sociali complesse, in cui - oltre alle peggiori pulsioni regressive - sono sussunte e cambiate di segno, anche innovazioni, forze, idee, principi nati nel fuoco della lotta rivoluzionaria. Così la comunicazione, un tempo forza produttiva ed innovativa al servizio dei movimenti e delle lotte, è diventata uno dei motori principali della macchina di sfruttamento post-fordista; l’antistatalismo, un tempo monopolio dell’antagonismo di classe, dell’autonomia operaia, delle spinte sociali più radicali, rivoluzionarie e libertarie degli anni Sessanta/Settanta, è diventato un leit motiv del populismo di destra.

Lo spirito di scissione, rottura, separatezza - che per noi significano spezzare la macchina centralizzata dello Stato e le sue forme di dominio, per costruire dal basso nuove e più libere espressioni di cooperazione sociale e diritti universali - nella Lega diventano, al contrario, celebrazione dell’egoismo proprietario e possessivo, un nuovo Stato, una nuova Nazione, una nuova razza di padroni, un mostruoso blocco corporativo e pseudo-comunitario, arroccato a difesa dei propri privilegi, della propria ricchezza, rottura della solidarietà e dei diritti universali, in nome di una mitica appartenenza di terra, sangue o comunità del lavoro. Questi sono solo alcuni esempi di come problematiche di carattere originariamente rivoluzionario ed antagonista possano essere fatte proprie e trasfigurate dalla destra, in assenza di lotte e movimenti significativi. Si potrebbe continuare all’infinito, su concetti quali autogoverno, autodeterminazione, democrazia diretta, differenze ...

Su una cosa vorremmo essere estremamente chiari: quello che proponiamo è solo uno schema di lettura, punto. Non è pensabile né praticabile un semplice rovesciamento di segno/senso del neoliberismo, per ritrovare la strada del conflitto e della rivoluzione. Questo schema di lettura, necessariamente semplificato, diventa inutile e dannoso quando si applica meccanicamente ai soggetti reali e ai loro comportamenti, alla concretezza dei rapporti di forza e di potere nella produzione sociale, alle gerarchie, agli egoismi e miserie che attraversano la quotidianità nei cupi scenari di fine secolo. Come scriveva Marx: “i reazionari di ogni tempo sono la spia degli stati d’animo della loro epoca”. Cioè la “destra” non è solo ideologia o politica, ma fotografa ed interpreta modi di vedere e pensare radicati nella società e nei soggetti concreti. Di sicuro, non sono oggi all’ordine del giorno meccanici rovesciamenti e geometriche simmetrie, ma su alcuni aspetti fondamentali la destra riesce a cogliere meglio di altri le caratteristiche del postfordismo: la territorialità e il radicamento comunitario, per esempio.

Nello sradicamento prodotto dai processi di globalizzazione, di sempre maggior mobilità ed astrazione della forza lavoro sociale, la riscoperta della comunità locale, del senso di appartenenza al luogo, sembra dare risposta ai bisogni di identità, al rapporto tra forme di vita, pulsioni, desideri ed ambiente sociale. Non è un caso che filoni di destra trovino alcuni riferimenti “colti” in figure quali Alain de Benoist e nello stesso Heidegger in altri termini, nei concetti di “comunità organica” o “comunità di destino” condivisa da un popolo o da un’epoca ... Così come Ernst Jünger nella sua concezione dell’ “operaio totale” e della comunità dei produttori nell’epoca della tecnica.

In una certa misura, un corpus teorico sotterraneo, legato alla dimensione della destra radicale e ad alcuni aspetti estremi del neoliberismo confluisce in uno stesso immaginario: le differenze comunitarie, la concezione di comunità organiche, legate alla terra, al sangue, al lavoro, ridisegnano e dividono ex novo lo spazio territoriale, proprio mentre i vecchi confini geopolitici tendono a scomparire nei nuovi processi di globalizzazione. Nell’epoca della sussunzione reale e di formazione di un mercato mondiale integrato, anche le comunità locali e gli ambienti sociali sono messi in valore.

Il valore del territorio/ambiente, comprese le comunità radicate nei loro luoghi, è stabilito dal loro livello di produttività e dalla loro collocazione nella gerarchia della divisione sociale ed internazionale del lavoro. Ci sono “comunità produttive” che valgono di più, altre di meno; è aperta la guerra tra comunità per contare di più nel grande scenario del mercato globale. L’assorbimento del “senso di comunità” all’interno dell’economico, la sua valorizzazione capitalistica sono elemento fondante del neoliberismo e della destra postfordista. E’ la rimozione / distruzione della cooperazione sociale dall’interno stesso della cooperazione.

Da “destra” con l’aura mitologica che circonda la figura dell’ “imprenditore”, come se davvero la produzione sociale oggi, i suoi meccanismi complessi, potessero essere creazione di un individuo particolarmente geniale ed innovativo, oppure frutto di chissà quale comunità organica, popolo o micronazione dei produttori che sia.

Da “sinistra” con la riaffermazione del ruolo delle grandi corporazione fordiste, per quanto prive di quella base materiale che forniva loro la legittimazione, con la ridefinizione del welfare in maniera da creare comunque nuovi privilegi, gerarchie, rapporti di inclusione-esclusione.

In ambedue i casi, da “destra” e da “sinistra”, ciò che viene mistificato, occultato, non riconosciuto è il ruolo centrale assunto dalla cooperazione sociale produttiva. Nessuna attività è infatti possibile oggi se non entro condizioni collettive di lavoro e l’esistenza di rapporti, relazioni, concatenamenti sociali. Come già era stato individuato da Marx: dai produttori isolati o dal loro meccanico assembramento nelle prime manifatture, alla macchina cooperante e complessa del capitalismo maturo... la forza e potenza del lavoro sociale non è la sommatoria delle sue parti, ma qualcosa di più, derivato dalla sinergia di chi lavora, pensa, progetta, organizza in comune, assieme ad altri. Che cosa, se non questa straordinaria base materiale, può essere la fonte di nuovi diritti e di una nuova universalità?

E’ questa dunque la complessità dell’azione politica oggi, in un territorio come il Nordest, in cui alcuni di questi processi hanno trovato, negli ultimi anni, una forte accelerazione.

In primo luogo è necessaria la riappropriazione del territorio, il suo ridisegno dal punto di vista dei bisogni sociali, dell’antagonismo, della sovversione, spezzando qualsiasi chiusura localistica, distruggendo vecchi e nuovi confini, sviluppare la rete dei contropoteri diffusi rispetto alle nuove forme di comando e sfruttamento e, nel contempo, costruire processi di tendenziale separatezza, momenti di cooperazione e costituzione altra. E’ dunque possibile coniugare conflitto e progetto, radicamento e radicalità nelle forme di lotta, autorganizzazione sociale e riappropriazione dal basso di diritti collettivi, del “bene comune”? E’ possibile immaginare e costruire la federazione delle reti di contropoteri, delle forme di autorganizzazione, di associazione libera ed indipendente?

Muovendo dal punto di vista dell’antagonismo, all’interno di rapporti sociali così modificati e strutturati, è possibile e necessario disarticolare ogni blocco organicistico, ogni comunità organica o “dei produttori”. Immettere disordine e sovversione in ogni superficie compatta, per rendere visibili le concrete dinamiche di classe: non tanto per distruggere il “senso di comunità” a cui, in forma orribilmente distorta, questi fenomeni alludono; al contrario per ricostruirlo realmente come associazione di liberi ed eguali, dialettica di differenze, ricco meticciaggio di molteplicità, attraverso conflitti e rotture che aprano e sciolgano ogni chiusura comunitaria e localistica. Qui, davvero, la cooperazione sociale può essere fonte di potere costituente, di nuovi diritti universali, contro qualsiasi differenzialismo, le nuove “gabbie sociali”, le suddivisioni Nord/Sud, il sistema planetario di ghetti che le devastanti immagini di fine millenio sembrano continuamente riproporci come “migliore dei mondi possibili”.

 

Padova, 10 novembre 1996