Lettera/proposta
PER UN SEMINARIO DI LAVORATORI AUTONOMI

Il dibattito sul "salto di paradigma" produttivo e sociale, che va sotto il nome di passaggio dall’epoca fordista al postfordismo, segna il passo. Ciò accade proprio nel momento in cui la percezione di una profonda discontinuità e la consapevolezza di essere immersi fino al collo nella transizione verso qualcosa di sostanzialmente nuovo sono diventate "senso comune" di buona parte della sinistra antagonista e sociale. Perché questa impasse ?

Le grandi analisi teoriche, gli affreschi onnicomprensivi, sembrano oggi poter concordare solo in negativo. E’ dunque a tutti chiaro che cosa - dell’epoca precedente - non esiste più, o meglio che cosa ha perso la sua centralità produttiva e quindi politica: la classe operaia della grande fabbrica, organizzata secondo il metodo scientifico tayloristico; le sue forme d’organizzazione tradizionali, il sindacato industriale e il partito politico di massa; il compromesso socialdemocratico o keynesiano che aveva legittimato lo Stato sociale, il Welfare state.

In una fase di veloci, continue trasformazioni è ben più difficile afferrare con sicurezza quali siano gli elementi di innovazione che si affermeranno come egemoni. In uno scenario che sembra caratterizzato, in primo luogo, dalla frammentazione e dalla crescente complessità del sociale, sembra impossibile individuare una linea di tendenza certa, e soggetti sociali a partire dai quali costruire un’iniziativa politica all’altezza del cambiamento.

O meglio, finché si rimane sul terreno dell’analisi teoriche, è possibile affermare tutto o quasi e il contrario di tutto e sarà ben difficile compiere significatici passi in avanti: è giunto il momento di sancire invece la fine virtuale del dibattito sul postfordismo. Ciò non significa che i contributi di compagni, studiosi, ricercatori non siano, d’ora in poi, utili. Anzi, approfondire la comprensione teorica delle tendenze in atto rimane fondamentale. Ma ciò di cui manchiamo è la sperimentazione pratica, sono iniziative adeguate alla portata delle trasformazioni che stanno sotto i nostri occhi, iniziative che individuino concretamente i nuovi soggetti sociali, i bisogni materiali che essi esprimono, le loro possibili rivendicazioni e, infine, le forme di organizzazione e di conflitto che possono darsi. Solo affrontando questo terreno, potremo anche misurare la validità delle acquisizioni teoriche e spostare in avanti il livello della comprensione generale.

Questo piano di sperimentazione pratica può concretizzarsi, per il momento, solo come esperienza localizzata e parziale. Cerchiamo di capire perché.

In questi anni abbiamo assistito al progressivo assottigliarsi, alla drastica riduzione del peso quantitativo e anche della forza politica, dell’area del lavoro dipendente, normato e garantito: sta continuamente diminuendo il numero degli impieghi caratterizzati dall’accesso attraverso il mercato del lavoro ufficiale (in primis, gli Uffici provinciali per il Collocamento e la Massima Occupazione), da un rapporto contrattuale a tempo indeterminato, da orari di lavoro settimanali rigidi e predeterminati, da un salario definito omogeneamente in base alla qualifica e al tempo di lavoro erogato, dai diritti e dagli strumenti di difesa previsti dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, dalle tutele assistenziali e previdenziali quali la garanzia di sanità e pensioni.

Tanto che la genericissima qualificazione di "lavori atipici", utilizzata per definire il continente inesplorato che si estende al di là di questi rapporti di lavoro normati e garantiti, sembra ormai inadeguata a cogliere proprio quella sfera che si presenta, invece, come la forma più tipica di prestazione lavorativa nell’epoca attuale. Cioé il lavoro formalmente indipendente, non-normato.

Ora, è evidente come anche questa definizione così vaga ed onnicomprensiva non ci aiuti molto sul piano, che più di ogni altro ci interessa, delle forme di autorganizzazione e di lotta di queste nuove figure del lavoro, per la difesa delle proprie condizioni materiali di vita e la conquista di nuovi diritti, adeguati ai tempi e all’attuale organizzazione sociale del lavoro.

Assumiamo come punto di partenza il fatto che - nell’epoca della sussunzione (sottomissione) reale del lavoro e della società al rapporto di capitale - dobbiamo confrontarci con la straordinaria capacità capitalistica di "mettere al lavoro" ogni soggetto, di mettere a valore ogni ambito della società, di includere dentro i meccanismi dello sfruttamento ogni aspetto della vita individuale e sociale. Unica fonte della ricchezza prodotta appare oggi la cooperazione allargata, il lavoro sociale complesso, la sua intelligenza, l’attivazione, la combinazione e la valorizzazione di tutte le sue competenze creative, comunicative e relazionali, siano esse materiali o immateriali.

Il comando capitalistico - di fronte al riconoscimento di questa "sostanza comune", al carattere interamente socializzato e cooperante, di tutte le figure del lavoro vivo - non può funzionare in altro modo che riproponendo continuamente la costruzione di gerarchie produttive e sociali feroci, di differenziazioni e discriminazioni, di permanenti processi di inclusione/esclusione che inibiscano tutte le potenzialità liberatorie a cui la natura sociale della cooperazione produttiva allude.

Da parte nostra quindi, il riconoscimento del carattere di unicità del lavoro sociale non può prescindere dall’analisi dell’effettiva articolazione delle gabbie in cui i soggetti del lavoro vivo sono costretti. La macro-categoria del "lavori atipici" non è infatti in grado di fornirci alcun elemento utile dal punto di vista della comprensione sociologica e tantomeno dell’iniziativa politica antagonista sul lavoro postfordista.

Se il nostro orizzonte politico strategico è quello della ricomposizione, nel conflitto, delle differenti figure del lavoro sociale, intorno alla conquista di nuovi diritti universali; nell’immediato, è necessario passare attraverso la scomposizione, sul piano dell’analisi e della costruzione di percorsi di autorganizzazione e lotta, della galassia che, all’interno dell’organizzazione (sociale) dello sfruttamento capitalistico, esprime situazioni, bisogni, comportamenti soggettivi spesso estremamente diversificati.

Seguendo questa impostazione, partiamo - rinunciando per il momento ad ogni rappresentazione totalizzante - dalle situazioni specifiche che ci sono più vicine:

  1. il lavoro intermittente - precario, non-garantito, spesso dequalificato - condizione che accomuna quello che un tempo sarebbe stato definito "proletariato giovanile", riguarda in particolare la composizione che attraversa (come frequentatori ma anche come militanti) i Centri sociali. Questa composizione - che ha una sua componente cospicua di studenti universitari - è inserita in un "secondo o terzo mercato del lavoro", completamente deregolato dal punto di vista legislativo, che definiamo il mercato degli schiavi. Lasciamolo per il momento sullo sfondo.
  2. il cosiddetto lavoro autonomo, in tutte le sue sfaccettature: dalla pura e semplice esternalizzazione di segmenti del ciclo produttivo fordista alle figure più tradizionali dell’artigianato qualificato e della distribuzione commerciale, dal ciclo della consulenza ad alto contenuto di sapere alle figure neo-micro-imprenditoriali. Un punto centrale, intorno al quale definire le reali differenze tra queste figure, è stabilire il grado di effettiva "autonomia", dal mercato e dalle strutture di comando capitalistico, che questi lavoratori sono in grado di esprimere: in sostanza la capacità di decidere, di intervenire e autodeterminare tempi, modi e prezzi della propria prestazione lavorativa.

Anche per molti compagni che hanno vissuto i cicli di lotta operaia e proletaria precedenti (anni Sessanta e Settanta), il "lavoro autonomo" ha rappresentato una scelta conseguente al rifiuto del lavoro salariato di fabbrica e alla pratica dell’autovalorizzazione: un’occasione per conquistare spazi di indipendenza nella gestione della propria vita e delle proprie risorse umane e materiali.

Se questa è la tensione soggettiva che anima, ancora oggi, chi intraprende percorsi lavorativi di questo genere, è però evidente come egli debba quotidianamente fare i conti con l’intensificazione di meccanismi di controllo, comando e sfruttamento, certo profondamente diversi da quelli dell’organizzazione del lavoro di fabbrica, ma non meno pesantemente oppressivi: il rapporto tutt’altro che libero con il mercato e la committenza, la feroce concorrenza che ivi si instaura, il vero e proprio capestro costituito dal "mercato del denaro" ovvero da tutti gli strumenti irrinunciabili della finanza e del credito, la mancanza di istituti di tutela dal punto di vista assistenziale e pensionistico, il peso dell’imposizione tributaria e fiscale.

Proprio alla concreta esperienza di chi si confronta con queste problematiche, si rivolge la proposta di organizzazione di un primo momento di discussione seminariale sul lavoro autonomo. O meglio di un seminario di lavoratori autonomi , nel senso che oggetto di questa iniziativa non è più discutere in astratto sulle trasformazioni epocali in atto, quanto costruire un primo momento di discussione sulla base della logica del "partire da sé": una sorta di auto-inchiesta collettiva, che superi la dimensione del dibattito tra "specialisti" (anche di movimento) dei cambiamenti produttivi e sociali, in cui prenda piuttosto la parola chi vive direttamente questa condizione.

Solo in questi termini riteniamo sia possibile individuare, accantonando le speculari e altrettanto nefaste mitologie del "veterofabbrichismo" e della "libera imprenditoria", alcune prime risposte alle quattro questioni che ci stanno più a cuore:

a. quali sono i bisogni che questa composizione del "lavoro autonomo" esprime?

b. sulla base di quali possibili rivendicazioni, per quali nuovi diritti, è possibile lottare?

c. in quale forma comunicativa, associativa, di auto-tutela e mutuo soccorso possono organizzarsi questi soggetti ?

d. quali sono le controparti di questa composizione ? quali le forme di lotta e di conflitto più appropriate a sostenerne le rivendicazioni ?

e. esistono, infine, delle particolari situazioni che possono essere assunte come esemplificative, paradigmatiche rispetto ai punti precedenti, e diventare quindi concreto ed immediato terreno d’intervento ?

Come passaggi intermedi proponiamo:

ADL


Associazione Difesa Lavoratori
e-mail: adl@ecn.org

 


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