Mestre, 3 giugno 1997
UN ARTICOLO

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dal Manifesto del 4/6/97

Botte a Venezia

Il questore aveva previsto tutto. Tranne che il capo del Life arrivasse proprio in mezzo ai ragazzi dei centri sociali. Qualche calcio, e la polizia attacca con i manganelli, scalciando e sparando lacrimogeni contro chiunque, mentre dall'altra parte si grida: "Siamo qui perché non vogliamo diventare come la Croazia"

CARLO BONINI - INVIATO A MESTRE

C OMINCIA MALE e finisce peggio questa mattina in cui il buonsenso, la ragionevolezza e la politica vengono portati via dal fumo dei lacrimogeni, dal calpestìo di anfibi, dalle sirene delle ambulanze che, alla fine, di feriti ne trasporteranno undici. Da manganelli che si abbattono su teste e schiene con foga degna di altra causa, da ciottoli di fiume raccolti chi sa dove e poi scagliati alla cieca. Per tre ore, di fronte all'aula bunker del carcere di Mestre, il processo agli otto di San Marco non sembra esistere. Perché l'immagine del nord-est è lì, lungo Via delle Messi, un budello di asfalto e sterpaglie di 200 metri che costeggia il bunker, diviso da colori, accenti, convinzioni. Prima che le cariche ne impastino volti e voci.

Da una parte loro, un centinaio tra studenti medi, ragazzi del coordinamento dei centri sociali del nord-est, militanti di Rifondazione comunista. L'iconografia, almeno a tratti, sarà forse un po' retrò, con quei foulard e cappucci a coprire una quindicina di volti. Ma le facce, la musica e gli slogan sono di questo tempo. Se non altro perché ad accompagnarli non è solo il ritmo dei Pitura Freska da Marghera, restituito dai megafoni dell'inseparabile e scassato furgone da corteo, ma uno slogan che degli anni '70 certo non ha nulla: "Siamo contro il centralismo e il razzismo secessionista. Siamo per l'Italia federalista dei comuni voluta da Cacciari e da molti imprenditori democratici". Cinquanta metri oltre, separati da due cordoni di Celere, una trentina di militanti del Life. I pasdaran dell'evasione fiscale rivendicata. Gli uomini di Fabio Padovan. Con quei vessilli del serenissimo leon e i cartelloni "Viva Feltri e le otto simpatiche canaglie". E quella parlantina inesauribile che spesso trasuda odio sociale. Li scambieresti per una comitiva di gitanti sbarcati da chi sa quale torpedone. Ma che non vadano a una gita sembrano saperlo. Assenti, invece, gli annunciati neofascisti di Paolo Caratossidis.

Arriva Padovan

Neppure ventiquattro ore prima, in nome di una giornata politically correct, il questore di Venezia Lorenzo Cernepig li aveva messi tutti intorno a un tavolo. Secessionisti e comunisti. Con tanto di mappe e direttrici di afflusso. Per evitare contatti. Perché fossero solo sguardi e parole a incrociarsi di fronte all'aula. A sinistra sarebbero rimasti Rifondazione e centri sociali, a destra Life e affini. Ovvio. Ma alle 8 del mattino è già tutto andato a farsi benedire.

Alle spalle dei centri sociali arrivano a piedi Marco Taradash e Fabio Padovan. Gli hanno spiegato che sarebbe meglio fare il giro dall'altra parte, "come da disposizioni", per evitare che il gesto venga preso come una provocazione. Ma l'invito cade nel vuoto. Percorrono una cinquantina di metri e nessuno sembra riconoscerli. Fino a quando qualcuno, in testa al corteo, li vede e li indica. Volano i primi insulti. Padovan grida: "Con queste facce dovreste starci voi in galera, non quegli otto". In risposta, prima gli danno del "nazista", poi arrivano i calci. Uno colpisce la celebrata scatola di scarpe foderata destinata agli adesivi, un altro manda in frantumi il cellulare, gli altri lo raggiungono alle gambe. Per Taradash, uno sbarramento di sputi.

La Celere sbanda. E carica, impugnando, con scudi e manganelli, le transenne di acciaio a bordo strada. Vengono sparati due lacrimogeni. E a farne le spese è un pover'uomo, Albino Da Lio, che si è affacciato a una delle brutte casette a schiera. Il bossolo del lacrimogeno, un suppostone di acciaio contorto dal calore, lo colpisce a una gamba. La famiglia piange e lo saluta, mentre l'ambulanza se lo porta via insieme ai primi tra ragazzi dei centri sociali e celerini feriti. La mattina si tinge di rosso. Ma sul serio. Perché ora, fradicio di sudore, il vicequestore Antonio Palmosi organizza i suoi reparti facendo mostra della giacca intrisa di sangue. Di chi, non si sa.

E arriva Rocchetta

Potrebbe bastare. Ma non è così. Cambia anche la musica, e le note dei 99 Posse sparate dai megafoni del furgone sembrano premonitrici: "Curre, curre, guagliò". E i guaglioni corrono davvero. Questa volta alle spalle del corteo sono arrivati, con Rocchetta, altri vessilliferi del Life. Altri spintoni, un'altra carica. Violenta come la prima. Anche perché, questa volta, dall'altra parte qualcuno vuota i tascapane dei sassi. Di mezzo ci va chi è a tiro. Compresi un automobilista e una ragazzina di sedici anni, manganellata a terra. Luca Casarini, uno dei leader dei centri sociali, grida alla Celere: "Non siamo la parodia degli autonomi. Siamo per l'Italia dei comuni. Non vogliamo la Croazia". Protesta Pietrangelo Pettenò, capogruppo al comune di Rifondazione. Ma non serve.