due o tre cose che ancora non ci siamo detti su

territorio, fisco e autogoverno


I tre dibattiti promossi dall'associazione ArsenaleSherwood all'interno del Festival della Radio si inseriscono nel continuo processo di ricerca teorico-pratica sulle nuove forme dell'agire politico antagonista, nel quadro delle trasformazioni epocali che connotano questa fine secolo.
I concetti analitici che abbiamo cercato di sviluppare e le sperimentazioni organizzative che abbiamo praticato hanno carattere necessariamente aperto, non assoluto o definitivo. Non è certo questa un'epoca di certezze, bensì profondamente segnata da una grande problematicità, da contraddizioni che attraversano l'intera struttura sociale ed i soggetti che in essa vivono, producono, agiscono. Niente è più come prima! Sembra essere una verità elementare, quasi banale; ma che deve servirci ad inventare un nuovo spazio dell'azione e dell'intervento politico, ridando senso alla nostra soggettività e militanza. Lasciamo volentieri i rottami di vecchi dogmi alle sette, ai fondamentalisti, a tutti coloro che sono convinti sia possibile "rifondare" ciò che non esiste più!

In questo panorama caotico e contraddittorio alcuni punti fermi ci sembra possano essere ormai assunti come importanti:

  1. le modificazioni strutturali del modello produttivo a partire dalla divisione e organizzazione del lavoro sociale nel postfordismo;
  2. i processi di globalizzazione economica e - simultaneamente - le nuove localizzazioni produttive;
  3. la crisi dello Stato-sociale/nazionale come crisi degli equilibri politici e di classe che ne erano a fondamento.

I grandi avvenimenti che hanno segnato la storia della modernità, le rivoluzioni borghesi, lo sviluppo del capitalismo, le lotte della classe operaia industriale, l'affermarsi del modello di Stato sociale keynesiano, sono venuti tutti a determinarsi nel quadro degli Stati-nazione. Questo non perché le caratteristiche internazionali e mondiali del capitalismo non fossero importanti anche prima: solo che erano comunque subordinate all'economia e alla sovranità sul territorio nazionale, dalle avventure coloniali del secolo scorso alle politiche imperialiste delle cosiddette "superpotenze".
A fronte dei processi di globalizzazione, è invece il concetto stesso di "nazione" che perde la sua centralità: i capitali sono liberi di circolare in tempo reale ovunque nel mondo, per essere impiegati laddove trovino le condizioni più favorevoli e vantaggiose, senza più barriere né confini. Non più la "ricchezza delle nazioni", dunque: caso mai "ricchezza senza nazioni" e "nazioni senza ricchezza"!
D'altra parte le nuove localizzazioni produttive, le reti della produzione diffusa (la "produzione in rete" non è un astratto modello interpretativo, bensì il concreto funzionamento del modello di accumulazione postfordista!) - radicate in specifici territori di cui sfruttano l'ambiente naturale e sociale, le intelligenze e i saperi, le risorse umane cooperanti, le infrastrutture e le capacità d'innovazione tecnologica - sono già immediatamente proiettate in una dimensione trans-nazionale, nella terra sconfinata del mercato globale, nella sua catena di interdipendenze, suddivisioni, gerarchie vecchie e nuove. Che cosa c'entra tutto ciò con la stessa possibilità di una pianificazione economica nazionale, con qualsiasi vincolo e rigidità? Che cosa rimane della sovranità nazionale rispetto a macrodecisioni politiche ed economiche che sono prese in altri luoghi?
Da queste semplici osservazioni, è facile capire la portata della "rivoluzione" capitalistica che è in corso: se il modello produttivo fordista e lo Stato-nazione si basavano su un concetto di spazio-tempo relativamente omogeneo, lineare, continuo, scandito dai ritmi di una giornata lavorativa sociale rigida ed uniforme, all'interno di ben definiti confini geografici; il nuovo scenario ci offre, al contrario, un'immagine di rottura e di discontinuità. Spazi e territori, tempi di vita e di lavoro, modalità produttive e rapporti sociali si vanno ridisegnando in nuove, contraddittorie configurazioni.
Il concetto di territorio non ha nulla di naturalistico, di statico ed immutabile, ma si definisce nel rapporto fra spazio e politica, tra produzione e riproduzione: il nostro agire politico può dunque appropriarsi, ridefinire, riattraversare i territori dal punto di vista delle reti sociali, della soggettività e cooperazione antagonista.

In questo quadro di riferimento, il problema politico centrale cui ci troviamo di fronte fin da subito, nel nostro territorio, è costituito dall'apertura di una fondamentale contraddizione legata al problema dell'organizzazione politico-amministrativa a cavallo tra le nuove dimensioni produttive e sociali del globale e del locale. Intorno a questa contraddizione vanno delineandosi diverse possibili proposte: da quella istituzionale stabilizzante incarnata dal movimento dei sindaci del Nord-Est a quella veicolata dalla Lega Nord e dal tema della secessione.
Lasciamo perdere la discussione, oziosa, se rispetto a quest'ultimo punto si tratti di "sparate" di Bossi in funzione tattica per aumentare la pressione verso il governo centrale e alzare la posta delle rivendicazioni autonomiste e/o federaliste; oppure se la secessione sia una possibilità reale o meno in uno Stato europeo come l'Italia, a capitalismo avanzato, inserito dentro una rete ben definita di equilibri internazionali... tutto vero e mille altri discorsi si potrebbero fare. Ma ciò nulla toglie agli effetti che la proposta leghista produce nell'immaginario collettivo, ovvero sul piano della produzione di soggettività: le passioni e il consenso che essa suscita in molti strati "popolari" del Nord.
Il nostro punto di vista non può dare adito ad alcuna ambiguità: siamo contro lo Stato-Nazione, il centralismo statalista, il suo apparato burocratico-amministrativo... Ma siamo, con altrattanta forza e convinzione, contro la sua riproduzione su scala più piccola, lo Stato della "Nazione Padana" come nella proposta secessionista di Bossi.
Contro il "grande nazionalismo", ma anche contro i "micro-nazionalismi", la suddivisione delle aree territoriali in base a discriminazioni tra ricchezza e povertà, forti e deboli, sviluppo e sottosviluppo, gabbie salariali e sociali. Abbiamo sotto gli occhi quali devastazioni, tragedie e barbarie, grandi e piccoli nazionalismi abbiano prodotto nella storia passata e nel presente!
Ciò non toglie che dobbiamo recuperare - non come scimmiottatura, ma ben più profondamente all'interno della nostra memoria e identità - idee forza quali autonomia, indipendenza, autogoverno.
È vero: all'origine di tutte le moderne costituzioni sta il diritto di resistenza, di insurrezione, di secessione come rottura di un patto, come libertà di separarsi da un governo oppressivo - parole dimenticate, occultate, rimosse, in primo luogo dalla tradizione politica della "Sinistra". Possono queste parole essere riempite da contenuti di liberazione, delle nuove forme di cooperazione ed autorganizzazione sociale?
Il nostro antistatalismo è coerente ed irriducibile: siamo per la rottura della macchina statale, in qualsiasi forma essa si presenti, e per lo sviluppo dell'autonomia reale dei soggetti sociali. In questo senso possiamo riscoprire l'importanza e la profondità di concetti quali autodeterminazione ed autogoverno: sono per noi le coordinate di un processo di liberazione sociale, non di fondazione di un nuovo Stato.
Autogoverno non significa dunque un'altra forma di governo, opposta e speculare a quella esistente, bensì contropotere, anti-Stato, come riappropriazione del territorio attraverso lo sviluppo di reti antagoniste. La capacità dunque di creare nel conflitto, nuove forme di organizzazione sociale e collettiva.

Per quanto riguarda il nostro territorio, il Nord-Est, la lotta contro il centralismo statale e burocratico deve porre al centro la questione fiscale.
La "macchina tributaria" è infatti il cuore della macchina statale: mettere in discussione la legittimità dell'imposizione fiscale significa scardinare uno dei pilastri dello Stato centrale, toccare un nodo fondamentale nella redistribuzione del reddito e nella definizione del rapporto tra le classi, insomma il concreto esercizio del potere, del comando statuale sui gangli della riproduzione sociale.
La domanda non è più "chi paga e chi non paga le tasse", bensì molto più radicale: "perché pagare le tasse?" L'imposizione fiscale, nel vecchio Stato sociale ormai in crisi irreversibile, trovava una sua fonte di legittimità, pur nel quadro del dominio di classe, nell'impiego della spesa pubblica per la costruzione di una rete di protezione e "sicurezza" per i soggetti più deboli. Nel momento in cui esso viene smantellato, in cui non sussistono più le condizioni fondanti il vecchio patto sociale tra capitale e lavoro, che senso ha ancora pagare tasse ed imposte?
Prendiamo ad esempio i lavoratori dipendenti: la ritenuta alla fonte è un sopruso ed un'ingiustizia macroscopica - non vi è qui neppure la libertà, sia pur teorica, di poter scegliere se evadere o meno! L'imposizione si abbatte su tutto il salario, concepito come reddito, in maniera assolutamente certificata, senza alcuno sconto o agevolazione. Le detrazioni fiscali riducono la busta paga ad un puro salario di sussistenza: una moderna versione della "legge bronzea dei salari" o del "minimo vitale" di malthusiana memoria. Le imposte sono trattenute ogni mese in maniera anticipata, senza interessi, facendo incamerare allo Stato migliaia di miliardi. Molte voci su cui vengono pagati i contributi non hanno più alcun riscontro reale, tipo i "fondi Gescal". Una truffa odiosa ed indecente si abbatte sul lavoro dipendente. Ma così un'imposizione fiscale altrettanto feroce colpisce lavoratori autonomi, artigiani, piccoli produttori... senza contare la miriade di tasse locali e comunali, un continuo drenaggio di ricchezza e risorse di cui non riusciamo a sapere nulla per quanto riguarda trasparenza nella gestione, finalità e destinazioni d'uso.
Così lo Stato si comporta, come nell'Ancien Regime delle monarchie assolute, come il Sovrano rispetto ai suoi sudditi, taglieggiati da un'infinità di tasse e gabelle. Mutano le forme dello Stato, si riadeguano, si modificano, si ristrutturano: centraliste o federaliste, parlamentari o presidenziali... ma due principi rimangono immutati ed inviolabili: il monopolio dell'uso legittimo della forza ed il potere di imposizione fiscale. Dei veri e propri tabù!
Per quale motivo la forza-lavoro sociale non può avere il potere di decidere liberamente su come e perché, in quali forme e con quali obiettivi, utilizzare la ricchezza prodotta, il reddito, le risorse collettive? La crisi dello Stato sociale, del suo apparato centralizzato, burocratico-amministrativo, la sua totale inadeguatezza a far fronte ai bisogni sociali in termini di strutture, servizi, eccetera, impongono una prospettiva politica forte, radicale, di ampio respiro:

  1. lotta contro l'imposizione fiscale, come obiettivo unificante o ricompositivo tra diversi strati del lavoro sociale e non come becero strumento di divisione tra lavoratori dipendenti o autonomi;
  2. riappropriazione di quote di reddito;
  3. ricostruzione dal basso di una nuova solidarietà e "sicurezza" sociale, libera da ogni centralizzazione di comando, radicata nel territorio senza essere "localistica", basata su forme di cooperazione ed autogestione. Una completa trasparenza e possibilità collettiva di decidere come vadano costituiti ed impiegati i fondi comuni attraverso la creazione di casse solidali, di mutuo soccorso, reti di servizi adeguati qualitativamente e quantitativamente alla grande varietà dei bisogni sociali.
Allo Stato centralizzato non vediamo alternativa se non la creazione di "autonomie sociali" reali e diffuse fondate sui principi della cooperazione e dell'autogestione. Una rete di contropoteri territoriali, in cui il conflitto si coniuga con la capacità progettuale di costruire nuove dimensioni societarie. In questo senso anche il concetto do "no profit", una volta sganciato dalle sue illusioni utopistiche e legalitarie che lo rendono compatibile e funzionale allo stato di cose presente, legato ad un processo di contropotere reale e di autogoverno nel senso precedentemente delineato, può avere un ruolo importante.

Questi spunti di riflessione alludono in definitiva alla straordinaria possibilità di ricostruire, oggi, una sfera pubblica non statale. L'identificazione di pubblico e statale sta all'origine di tutte le mistificazioni, più o meno consapevoli, della sinistra, il suo inguaribile statalismo.
Ci basti, per ora, individuare a titolo d'esempio alcuni concreti campi di intervento e di lotta contro lo statalismo e l'apparato centrale burocratico-amministrativo: i Prefetti, per esempio! oppure, per quanto riguarda la scuola, la figura di Provveditori e Presidi: perché non rovesciare la falsa "autonomia scolastica" così come viene prospettata, in autonomia reale, in cui il Preside venga eletto direttamente dall'assemblea dei lavoratori e degli utenti/studenti, con mandato revocabile, in stretto rapporto tra formazione, territorio, produzione, lavoro? E così in molti altri campi si potrebbero costruire esperienze concrete, seppur specifiche e parziali, di democrazia diretta ed autogoverno, di autodeterminazione non tanto dei "popoli" o di comunità chiuse, bensì dei soggetti sociali nelle molteplici articolazioni della loro vita materiale. Da questo punto di vista, la prospettiva dell'autorganizzazione, per noi strategica, si riempie di contenuti, cessa di essere pura e semplice rottura con partiti e sindacati, per trasformarsi in una nuova forma di vita sociale, ridisegnando ex novo lo spazio politico pubblico e collettivo.


ECN Padova