Laboratorio su:

dopo-elezioni, lavoro, federalismo e Lega nel Nordest

6 maggio 1996.


Questa discussione è dedicata ad un valutazione sulle ultime elezioni politiche centrando l'attenzione sul Nordest - territorio in cui viviamo - e su alcuni fenomeni politici estremamente rilevanti e significativi che si sono manifestati.


Abbiamo parlato spesso, in questi ultimi anni, di alcuni processi epocali, del passaggio (per noi fondamentale) dal fordismo al postfordismo. Abbiamo parlato spesso del rapporto tra globalizzazione e localizzazione - all'interno di questo passaggio - e abbiamo rilevato come questi siano due aspetti complementari. Detto ciò credo sia necessario fare un'ulteriore riflessione sul passaggio dal fordismo al postfordismo. Sicuramente non si tratta di un modello produttivo che all'improvviso si afferma in tutto il mondo nell'identica maniera. Il postfordismo presenta delle varianti rispetto a differenti aree geografiche e territoriali. Questo è un discorso importante per capire come questo passaggio tra fordismo e postfordismo sia legato ad una determinata realtà produttiva che, poi, è quella dei territori che ci interessano maggiormente: i territori del Nordest, ma anche quelli della Lombardia e del Nord in generale. È importante per capire l'originalità e la diversità di questo modello postfordista rispetto a questi territori.

L'altro problema importante è il rapporto tra globalizzazione e localizzazione. Si tratta di due fenomeni strettamente intrecciati tra loro, ma per comodità cerchiamo di separarli.

Nella globalizzazione economica, sul terreno del mercato mondiale e dell'economia-mondo, una cosa balza alla luce: la crisi dello Stato-nazione, la crisi della forma dello Stato sociale-nazionale come l'abbiamo conosciuta finora. Questo significa che i luoghi delle decisioni economiche e politiche sul terreno della macroeconomia sono altrove, non sono più all'interno della sovranità e dei confini nazionali.

Così nella logica dello scontro tra i due schieramenti elettorali (Polo e Ulivo) in realtà non ci troviamo di fronte a due schieramenti alternativi dal punto di vista del modello sociale e della concezione del modo di produzione e di come regolare i problemi legati alla produzione sociale. Piuttosto ci troviamo di fronte ad una alternanza(non un'alternativa) tra élite che sono simili, tra oligarchie e ceti politici che hanno le stesse finalità. Perché le decisioni non matura all'interno dei vecchi schemi della sovranità nazionale, ma maturano altrove, dentro i grandi organismi del comando internazionale - il F.M.I., la Banca Mondiale, lo stesso Trattato di Maastricht. Su questa base si deve ridefinire il ruolo dello Stato; crisi dello Stato-nazione quindi, e ridefinizione del ruolo dello stato.

Io non sono tra quelli che pensano ci sia un'estinzione dello Stato: anzi, esso rimane uno strumento ancora indispensabile per la regolazione dei conflitti e la regolazioni dei sistemi, nell'articolazione complessiva della macchina del potere e del comando, però cambia ruolo. Da una parte deve essere più decisionista, deve cioé centralizzare il carattere esecutivo in modo da riuscire a applicare in tempo reale alcuni diktat rispetto al debito pubblico e alcuni questioni di carattere internazionale; allo stesso tempo deve essere più flessibile, nel senso che deve riarticolare questa macchina di comando in modo sempre più vicino a quelli che sono i territori/luoghi della produzione sociale, del mercato del lavoro e della distribuzione della ricchezza.

Per cui i due schieramenti in realtà (e lo si vede leggendo i programmi) sono, forse, dissimili su qualche sfumatura, sulle tattiche, sul modo per arrivare a definire alcune questioni inderogabili, ma la gabbia d'acciaio del nuovo ordine è un passaggio obbligatorio a cui tutti si devono attenere. Questo, naturalmente, fa saltare alcuni meccanismi di mediazione pre-esistenti.

È chiaro che un sistema di potere - per come si era definito in particolare in Italia - era legato a un terreno ben preciso di scambio, di mediazione politica attraverso la Democrazia Cristiana o a un patto sociale consociativo. Ricordiamo la versione dorotea della D.C., molto importante per il Veneto anche per capire come la disgregazione della D.C. porti a questo grosso consenso leghista; gestione dorotea, voto di scambio, rapporto tra centro e periferia in termini clientelari localistici, però sempre con una mediazione sociale molto forte, un patto sociale che ha resistito per molti anni nel governo di questa regione, e una ridistribuzione di un certo tipo della ricchezza e del reddito. Tutto ciò è saltato completamente.

Dire semplicemente che il Polo e l'Ulivo sono uguali sarebbe una estremizzazione, perché le sfumature contano. Un conto è trattare con un certo personale politico, un altro è trattare con altri personaggi.Ma qui non si parla di sfumature e di maggiori possibilità dialettiche: si parla di fenomeni strutturali. È chiaro che nella vittoria dell'Ulivo c'è un rischio molto grosso: ricordiamo, per esempio, come col governo Dini siano passate le misure sulle pensioni che nessun altro era riuscito a fare, col consenso, o meglio con una generalizzata passività che ha permesso passasse una riforma pesantissima sulle pensioni. Questo è il problema.

Oggi, gli apparati del PDS e del sindacato sono gli unici, anche dal punto di vista internazionale, a garantire in Italia la stabilità e la pace sociale, che sono elementi di fondo su cui si basano i progetti di ristrutturazione generale. Questo dal punto di vista della globalità, partendo dall'economia internazionale per arrivare al nocciolo delle questioni.

L'altra questione nella vittoria dell'Ulivo è questa: il maggioritario, proprio per come è strutturato, non fornisce una rappresentazione reale dei rapporti di forza in gioco sul terreno sociale. Col proporzionale, era abbastanza visibile, contando i voti, come si muovevano le forze in campo, trasfigurate sul piano del politico; qui invece diventa più difficile capire, anzi dal punto di vista proporzionale la Destra ha preso più voti. Per cui pensare che ci sia stata una vittoria della sinistra, anche nella sua versione socialdemocratica o riformista, è una grande illusione. Perché, oggettivamente, i rapporti politici e sociali in tutta Europa si sono spostati a destra. Lo vediamo anche nella vicenda della socialdemocrazia tedesca, che ha perso proprio nel voler cavalcare il populismo di destra in Germania. Quindi, vediamo che questa crisi anche della vecchia socialdemocrazia esiste. I rapporti sociali sono spostati a destra.

Soprattutto credo che nell'Ulivo sia poco rappresentata l'innovazione che il passaggio da un modello produttivo a un altro ha significato. Cioé il passaggio al postfordismo - con il definirsi dei nuovi soggetti del lavoro sociale postfordista - non è assolutamente rappresentato, perché ingessato dentro una vecchia concezione di patto sociale che è, a mio avviso, improponibile perché il fordismo si fondava su un determinato patto sociale tra lavoro e capitale che oggi, proprio per le modificazioni strutturali del lavoro sociale e diffuso, è improponibile.

L'altra questione riguarda la localizzazione: nel fenomeno della globalizzazione del mercato, in realtà vediamo una tendenza a de-territorializzarsi della ricchezza a livello mondiale: c'è una ricchezza senza nazioni e nazioni senza ricchezza. La circolazione del denaro non ha un luogo preciso, non ha nazione: c'è la "repubblica mondiale del denaro". Ma è ovvio che questo denaro circola e si localizza, in senso produttivo, laddove le condizioni sono più favorevoli.C'è un processo contemporaneo di de-localizzazione da una parte e di ri-localizzazione dall'altra, dove le condizioni per il mercato del lavoro, per il costo del lavoro, per i tassi di interesse, ecc., sono più favorevoli per il capitale.

Questo processo è complesso e molto profondo, perché significa anche una ridefinizione dei territori, delle aree geografiche, dei confini, con la creazione di nuove frontiere, significa una nuova segmentazione, la costruzione di nuovi spazi sociali, dentro a un meccanismo che non è più legato a un territorio nazionale, a un luogo fisico preciso, ma che è mobile, flessibile come è, oggi, l'organizzazione del lavoro a livello mondiale.

L'altra questione legata al problema delle frontiere - e che non è da poco - parte dal 1989 (assunto come data simbolica, perché i processi storici hanno un'origine più profonda) con il crollo del muro di Berlino, quindi la fine della grande frontiera fisica e ideale che ha attraversato (dalla Rivoluzione d'Ottobre in poi) il periodo fordista. Questa fine della grande frontiera Est-Ovest ha significato anche uno spostamento dell'asse della contraddizione su un altro terreno molto più verticale e strutturale: la contraddizione tra Nord e Sud. Ma Nord e Sud non è solo la contraddizione di una grande frontiera immaginaria; la contraddizione tra Nord-Sud - o meglio tra ricchezza e povertà, tra chi ha potere e chi non ce l'ha - si riproduce in ogni cellula dell'economia-mondo, all'interno stesso del Nord. È questa nuova segmentazione, questa nuova geopolitica, queste nuove frontiere interne quelle che oggi delineano lo spazio fisico sociale in cui ci troviamo inseriti.

Quindi, la localizzazione è sicuramente un prodotto del postfordismo, perché si passa dai grandi paradigmi delle pianificazioni, degli Stati nazionali, dell'economia pianificata, ad una altra fase che è quella della produzione diffusa; finisce la centralità della produzione basata sulla grande fabbrica, si articolano e diffondono reti territoriali diffuse della produzione sociale. Questo significa rideterminazione dei territori.

Questo discorso è fondamentale perché se notiamo un approccio, soprattutto della Lega di Bossi, su questo terreno, noi capiamo perfettamente come vi sia qui, letteralmente ma su basi materiali, l'invenzione di un territorio e di un popolo. Questa è la forza della Lega. Un territorio caratterizzato da alcune trasformazioni produttive profonde (e su questo ci sono analisi molto interessanti che ne ricostruiscono la genesi), il frantumarsi delle grandi concentrazioni operaie negli anni '70 (nella nostra regione, per esempio, Marghera) dovuto a due fattori concomitanti: 1) l'esigenza da parte del capitale di una ristrutturazione della grande fabbrica per spezzare quegli elementi di resistenza operaia e di organizzazione di classe che si erano sedimentati nel corso delle lotte operaie nel decennio precedente; ma anche 2) il rifiuto del lavoro, sostanzialmente la fuga dal lavoro di fabbrica.

Sono due fenomeni strettamente intrecciati e concomitanti tra loro, e importanti per rivedere la genesi di questo percorso. Altra cosa che ha assunto un peso rilevante è la cassa integrazione: solitamente non viene citata, ma è molto importante perché comunque frutto di un rapporto di forza di classe e garantiva per quattro o cinque anni un reddito al 90% del precedente salario a molti lavoratori. Teniamo presente, inoltre, anche la struttura sociale particolare del Veneto, in cui il rapporto con la campagna è sempre stato molto stretto, per cui dentro una famiglia entrano, per un certo periodo di tempo, più redditi, frutto da una parte di lavoro operaio e dall'altra della piccola proprietà contadina. Questi elementi combinati con l'apporto della cassa integrazione - che è sicuramente un reddito sganciato dal lavoro - in qualche modo danno origine ad una condizione materiale sulla cui base cominciano a svilupparsi tutta una serie di piccole e medie imprenditorialità, autoimprenditorialità, laboratori, produzioni diffuse che si dispiegano in tutto il territorio del Nordest.

Diciamo che la composizione sociale che oggi ha votato in maniera così massiccia la Lega è sicuramente rappresentata da questi nuovi soggetti produttivi, che sono sicuramente nuovi, ma sono anche il frutto di quel determinato percorso e processo: crisi della grande concentrazione industriale, crisi della fabbrica, crisi del grande polo operaio, produzione diffusa e reti territoriali della produzione. Anche la lettura della composizione sociale del voto sta a dimostrarlo: piccola e media impresa, soprattutto nella zona cardine della Lega che va da Treviso, Vicenza, Belluno, come asse tradizionale, ma che si estende poi a Padova e Verona. Piccola e media impresa, quindi, ma io direi di più: il piccolo artigianato, la piccola imprenditoria, sostanzialmente, ma anche tantissimi operai dipendenti del privato, "ceti medi" del lavoro autonomo... tutta quella composizione della forza lavoro sociale postfordista che sta al centro della nostra attenzione.

Penso che, in realtà, i consensi che ha ottenuto Bossi si inseriscano nel processo citato prima - suddivisione Nord/Sud come nuovo asse della contraddizione, le forme del lavoro postfordista nella loro diffusione e massima espansione e potenza territoriale, la crisi dello Stato-nazione e quindi la crisi del centralismo statale. La forma politica più adatta a dare rappresentanza e potere a questi strati del lavoro sociale produttivo diffuso socialmente e territorialmente, è sicuramente la forma federalista, nel senso di una rottura con lo Stato centrale, nel senso dello sviluppo di un'autonomia decisionale sul come utilizzare le risorse e la ricchezza prodotta. Tutte questioni legate alla tematica federalista, con una novità. Questa volta, la Lega - data per spacciata dopo l'esperienza governativa e altri passaggi - ha preso moltissimi consensi su un discorso che non è federalista nel senso stretto del termine, ma su un discorso separatista, cioé sulla parola d'ordine dell'"indipendenza del Nord", sull'invenzione di una nuova terra per un nuovo popolo, la Padania del popolo dei produttori. Questo tanto per farci capire quanto sia potente in politica la costruzione di un immaginario e la capacità di diffondere senso comune e identità, e di suscitare su questo passione politica. Credo sia importante anche per noi, ovviamente da tutt'altro punto di vista. Può anche essere uno strumento tattico di Bossi per forzare sul terreno del federalismo a livello generale, però non sottovalutarei questo aspetto perché comunque i consensi sono stati presi su questa parola d'ordine, cioé sulla radicalizzazione... non su un discorso moderato, su un discorso più o meno centrista, ma sulla radicalizzazione dei concetti, sul riferimento ad alcuni principi fondamentali delle costituzioni moderne, sul diritto alla resistenza e alla secessione, che non sono invenzioni di Bossi ma stanno inscritti nell'origine delle costituzioni moderne, della rivoluzione francese e americana, e ci riportano alle correnti più radicali del calvinismo, all'origine stessa del capitalismo.

Praticamente noi abbiamo il recupero di un pensiero politico che crea immaginario, che crea identità, che crea senso comune, che crea un popolo e una terra... forse poi questo non si tradurrà in nulla, ma credo sia importante valutarne la radicalità, perché la radicalità ci riporta a un altro concetto individuante il passaggio dal fordismo al postfordismo: la rottura della dialettica, la rottura della mediazione, la rottura della possibilità che gli opposti possano coesistere all'interno di uno stesso spazio. La rottura della dialettica significa questo. Nella dialettica gli opposti sono mediati tra loro. Qui, invece, gli opposti si separano e ognuno va per conto proprio. Quindi c'è una polarizzazione. E non è solo la polarizzazione della Padania rispetto al Sud, ma è più in generale la contraddizione Nord/Sud, o meglio ancora la contraddizione tra ricchezza e povertà, cioé l'impossibilità, oggi, che si possa rimettere in moto un nuovo patto per lo sviluppo com'era nell'immaginario utopistico del capitalismo nel fordismo, cioé lo sviluppo illimitato alle forze produttive, un nuovo patto per lo sviluppo che progressivamente avrebbe conquistato anche aree del Terzo Mondo, portando il progresso anche ai popoli di quelle aree.

Qui salta completamente tutto il discorso dialettico, si tratta di una polarizzazione. Questa polarizzazione significa anche altre cose. Significa segmentazione, gabbie salariali e sociali, nuove suddivisioni e gerarchie, nuovi rapporti di signoria e servitù all'interno del mercato della forza-lavoro. Questo, a grandi linee, è un disegno molto frastagliato... potremmo dire quasi frattale... ridefinisce i territori rispetto alla loro base materiale e anche rispetto ad una nuova geopolitica, alla costruzione di nuove frontiere visibili ma anche invisibili che passano attraverso discriminazioni sociali di sesso, di razza, di classe.

Mi fa paura il discorso sul "popolo dei produttori", perché puzza di ideologia organica e organicistica, perché è un discorso la cui matrice ideologica è il nazionalismo. Il nazionalismo non è stata solamente un'ideologia legata allo Stato-nazione, ma ha una sua interna struttura: il fatto di eliminare e annientare le differenze dentro all'indistinzione del concetto di popolo. Quando si parla di "popolo di produttori" si aggiunge alla mistificazione ideologica - in cui si annullano le differenze sociali e di classe dentro a un concetto indistinto - il carattere produttivistico della definizione. Questo ricorda una vecchia ideologia lavorista - che è stata patrimonio, tra l'altro, anche della Terza Internazionale, della vecchia sinistra, compreso il PCI -, cioé l'ideologia del lavoro, l'etica del lavoro. Questo "popolo dei produttori" è un pò spaventoso perché unisce l'organicismo all'etica del lavoro.

Detto questo, però, è chiaro che la Lega è un riflesso di fenomeni reali, di tensioni e pulsioni che esistono e con cui bisogna confrontarsi. Ma, dal nostro punto di vista, come aggredire questo fenomeno, dal momento che la base materiale di questa nuova composizione sociale non ha nulla a che spartire con l'egualitarismo del vecchio operaio-massa, quando l'egualitarismo viene spezzato in una serie di individualismi egoistici e possessivi - perché, da sempre, la logica del padroncino, del piccolo imprenditore, del piccolo proprietario, è l'individualismo possessivo, l'egoismo -, quando in questa soggettività vengono rotte tutte le caratteristiche di tipo universalistico, cioé di lotta sul terreno dei diritti universali?

D'altra parte, è anche vero vero che oggi, dal nostro punto di vista, riproporre un egualitarismo come appiattimento, alla vecchia maniera, tipo socialismo reale, è sicuramente impossibile. Per cui è ovvio che questo ci costringe a riflettere su come rideterminare, oggi, nuovi terreni di ugualianza, su come conquistare un nuovo concetto di ugualianza all'interno di condizioni sociali e produttive completamente modificate.

L'universalismo è stato sicuramente una conquista anche delle lotte del movimento operaio, ma oggi, rispetto alla frantumazione e all'ipocrisia dei "diritti dell'uomo e del cittadino" che vengono sbandierati e proclamati da sempre dalla tradizione illuministica o dal movimento operaio ufficiale, su quali basi possiamo riconquistare un nuovo universalismo dei diritti? Cosa sono oggi i diritti? È sufficiente scrivere una carta dei diritti formali oppure i diritti sono qualcosa che respira concretamente all'interno di situazioni anche differenti e che però hanno bisogno di mettersi in rapporto tra loro per costruire una nuova universalità sul concreto, non più proclamata astrattamente? Sono una serie di punti di domanda,che ci pongono più in generale il problema di reinterpretare il concetto di differenze.

Altra questione che mi fa paura in questa comunità organica di interessi che viene prospettata nella nuova nazione "Padania" - si tratta di invenzioni, ma non dobbiamo sottovalutare il concetto di simbolico in politica, perché è fondamentale e strutturante - è questa: prima parlavamo di come i modelli produttivi postfordisti si articolino diversamente a seconda di aree e condizioni sociali diverse, ma qui nel Nordest noi abbiamo il cosiddetto "autosfruttamento": all'interno della piccola e media impresa non c'è più distinzione tra lo sfruttato e lo sfruttatore. C'è un riconoscimento organico nel lavoro: vita e lavoro coincidono completamente. È un modello "toyotista" di qualità totale - cioé di identificazione e di autoattivazione totale delle qualità del lavoro vivo - rapportato ad una situazione diversa da quella di fabbrica, che è questo reticolo di produzione sociale diffusa delle reti territoriali.

Quindi, bisognerebbe innanzittutto riuscire a destrutturare e disarticolare questa omologazione unanimistica attorno al "popolo dei produttori". Non so in che modo, ma credo che questo sia fondamentale, perché l'organicismo è sempre stata il segno di un'ideologia profondamente repressiva e reazionaria.

L'altra questione, che poi è la cartina tornasole che rileva dove sta il cuore della contraddizione, è il rapporto con l'immigrazione e, quindi, con il razzismo e la xenofobia.

Non c'è dubbio che, nella base popolare della Lega, la xenofobia sia un sentimento molto forte; questo dà, ancora una volta, la dimensione della portata strutturale della contraddizione. Cosa significa, per esempio, federalismo da questo punto di vista - lasciamo perdere il discorso della secessione -, che cosa significa un insieme di gabbie salariali, di nuove gerarchizzazioni dal punto di vista dei livelli della ricchezza, se non l'annullamento di qualsiasi forma di cooperazione, l'annullamento di qualsiasi forma di solidarietà? Cosa significa autogoverno o democrazia diretta o autodeterminazione - che rimangono comunque elementi di fondo della Lega e anche elementi nostri - se poi la realtà dei rapporti sociali è ferocemente discriminatoria? Immaginiamo il "popolo degli imprenditori" che si autogoverna, immaginiamo la Lega che si autogoverna che cosa può significare questo... ma allora questo significa che l'autogoverno dipende dai contenuti e da chi lo fa. Non è un contenitore che va bene per ogni cosa: lo stesso vale per il discorso sulla "cittadinanza", che è un discorso astratto se non viene verificato nelle sue componenti e contraddizioni e negli antagonismi che lo attraversano. Quindi anche autodeterminazione e autogoverno, se affrontati con questo tipo di logica dominante servono solo a ridisegnare un terreno in cui i ricchi stanno coi ricchi e i poveri vanno per conto loro.

Termino abbozzando un ragionamento sul fisco, uno dei terreni fondamentali di questa composizione sociale del lavoro. Qui nessuno rivendica più un salario, qui si parla delle tasse; soprattutto per la Lega il problema è la rivolta fiscale. Potrebbe anche essere giusto un discorso in cui la ricchezza sociale prodotta in un determinato territorio debba servire per migliorare la qualità della vita ed essere distribuita in quel territorio, ma questo cosa significa nella logica del mercato, oggi, e in quella contraddizione strutturale citata prima tra Nord e Sud? Significa due, tre, quattro velocità, nel senso che rompe qualsiasi meccanismo di cooperazione. Ma allora, è possibile immaginare, al contrario, un processo che parli di un federalismo libertario, dal basso, sociale, che in qualche modo coniughi il discorso della ricchezza sociale con il discorso della cooperazione e della solidarietà? Questi sono interrogativi che ci poniamo, perché questo terreno va affrontato per sviluppare un nostro punto di vista. Per cui penso che il problema sia quello di centrare la riflessione e l'intervento politico su questo territorio, Lombardia e Nordest, a cui siamo più vicini. Il problema è la forza che la Lega ha avuto nell'inventare un territorio, costruendo un immaginario politico.

Rovesciamo la questione: saremo anche noi in grado di reinventare un territorio, facendolo però attraversare da un altro punto di vista che è quello dell'antagonismo?


È per noi fondamentale riflettere sul post-elezioni, su Lega, federalismo, Nord Est. È importante fralo nel quadro tracciato prima - economia-mondo, gabbie di compatibilità transnazionali che sono insuperabili da chiunque si sia candidato a governare le vecchie forme degli Stati-nazione, e che sono estremamente rigide -, in un quadro che emerge dal dopo elezioni come una situazione dove, per la prima volta dal 1992, per la prima volta negli ultimi quattro anni, il dato è quello della stabilizzazione: stabilità politico istituzionale che si afferma per la prima volta in uno scenario che fino a questo momento è stato uno scenario di transizione, uno scenario tutto in movimento. Penso che anche l'inserimento di Di Pietro all'interno del nuovo governo Prodi sia proprio un segnale in questa direzione. Molto probabilmente il ceto politico che è emerso, che è stato eletto nel nuovo Parlamento, è il ceto politico che governerà, dal punto di vista istituzionale, i prossimi anni perdendo quelle caratteristiche di profonda instabilità, diventando il nuovo ceto politico di professionisti della cosiddetta Seconda Repubblica.

Quindi, c'è questo quadro che va verso la stabilizzazione, la fissazione di alcuni punti fermi, e non a caso la reazione dei mercati finanziari internazionali è stata estremamente positiva di fronte all'esito delle elezioni italiane. L'unico elemento che può rimettere in movimento tutta la questione, lo ritroviamo proprio nei nostri territori e siamo chiamati a confrontarci con questo vettore di instabilità - di messa in movimento dell'intero quadro politico istituzionale - che è rappresentato dal forte consenso alla Lega e dal dibattito che apre: questo consenso non mette all'ordine del giorno la secessione del Nord, ma una trasformazione, da attuarsi in tempi brevi, della forma-Stato in senso federalista.

In questo quadro, la Lega si propone come la forza politica di rappresentanza non più di settori di classe, non più di precise figure sociali ben definite dai propri interessi di classe - carattere, questo, che il voto alla sinistra aveva sempre mantenuto.

Toennies, un sociologo tedesco del secolo scorso, aveva definito il passaggio dalle forme politiche precapitalistiche alle forme politiche della modernità come il passaggio dalla Gemeinschaft o comunitàalla Gesellschaft o società, cioé il passaggio da una visione del modo di produrre e del modo di organizzare politicamente anche le istituzioni di governo della produzione sociale, che erano caratteristico di forme comunitarie e quindi organiche - a forme in cui interessi e soggetti sociali diversi si confrontavano sulla base dei propri interessi, spesso mediati, altre volte confliggenti, qualche volta antagonistici, qualche altra componibili, ecc.

La Lega, oggi, sembra riproporre il ritorno della Gemeinschaft. Una comunità, però, che non è una comunità - come si è visto nella storia di tutti i nazionalism - fondata sulla comune appartenenza etnica ovvero sulla comune appartenenza a un territorio definito in termini naturalistici e geografici, a un contenitore caratterizzato da un'identità nazionale e quindi da un'identità linguistica, culturale ed etnica, intesa come legame di sangue che coinvolge gli appartenenti a questa comunità: Blut und Boden, sangue e suolo. No! Qui si sta parlando di tutt'altra comunità, quella che la relazione introduttiva ha definito la "comunità dei produttori".

Mi sembra che il fenomeno del razzismo - inteso nel senso comune di xenofobia e odio nei confronti degli immigrati, come fenomeno di intolleranza e discriminazione nei confronti degli immigrati, insomma il razzismo che viene denunciato dai media ufficiali e che suscita indignazione - sia un fenomeno che nei nostri territori conosciamo come un fenomeno essenzialmente urbano. Un razzismo in questi termini non si verifica nelle aree dove l'immigrazione, in percentuale sulla popolazione, è ben più rilevante di quello che si registra a Padova, a Marghera, a Venezia. Non c'è "razzismo" nel senso appena indicato in quelle aree dove gli immigrati sono inseriti come forza-lavoro in maniera rilevante nella produzione - penso a tutte le vallate del vicentino, a tutto il ciclo conciario dove interi paesi della fascia prealpina sono stati addirittura svuotati dall'emigrazione degli annì50 e, quasi per nemesi storica, sono stati ripopolati da migliaia di immigrati nord e centroafricani. Allora, è chiaro che per noi il fenomeno sostanziale del razzismo, cioé di discriminazione sul piano dei diritti, cioé il razzismo come elemento di regolazione del mercato del lavoro, di disciplinamento della forza lavoro, è invece molto più evidente nei confronti di quel tipo di composizione di immigrati che nei confronti di una composizione marginale, inserita nei circuiti dell'economia "extralegale" che conosciamo per esempio qui a Padova. Questo ragionamento è per dire che a pieno titolo gli immigrati che lavorano nelle concerie di Arzignano potrebbero essere inseriti nella "comunità di produttori" di cui parla la Lega. Cioé l'elemento discrimine di appartenenza alla comunità del "popolo della Padania", che costituisce il referente politico della Lega, è l'inserimento dentro il tessuto produttivo di questi territori e non l'appartenenza etnica. Quello che la Lega ha fatto è stato inventare o reinventare una tradizione (direbbe Hobsbawm)che non c'è mai stata e che non esiste. Questo differenzia la Lega come fenomeno da qualsiasi altro fenomeno nazionalista o localista con caratteristiche etniche che troviamo in Europa.

Questo elemento, però, ci deve far riflettere su un altro aspetto. Il modello produttivo postfordista è un modello che, al di là delle apparenze, è fortemente gerarchizzato. Qui, questa natura comunitaria dei rapporti tra produttori è in realtà solamente virtuale. Il postfordismo è intessuto di feroci gerarchizzazioni. Le gerarchizzazioni che una volta si registravano sul livello dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e che erano quelle della divisione fra mansioni esecutive e mansioni tecnico-progettuali, che erano quelle verticali dell'organizzazione fordista-tayolorista del lavoro, oggi le troviamo riprodotte orizzontalmente nei territori. Le ritroviamo distribuite, diffuse nei territori e nel sociale.

Il modello produttivo postfordista è vettore di una profonda gerarchizzazione che passa a livello territoriale e sociale. Credo che anche noi, quando talvolta parliamo di piccola o media impresa, pensiamo a un tutto indifferenziato. Molto spesso siamo talmente abituati ad avere a che fare con questa categoria - che poi costituisce il bacino di riferimento elettorale della Lega, quel tipo di soggetti al plurale che richiedono fortemente queste modifiche in senso federalista - che pensiamo a un tutto organico e indifferenziato. In realtà anche il lavoro autonomo - come gli studi di Sergio Bologna hanno dimostrato chiaramente - è una galassia dai mille volti, in cui esiste intanto tutta la componente dell'esternalizzazione, cioé tutti quei settori produttivi della grande fabbrica fordista che sono stati semplicemente presi e collocati all'esterno della grande concentrazione industriale. E questo sia sul piano direttamente produttivo sia sul piano dei servizi materiali e immateriali, dalla manutenzione a tutto quello che è l'aspetto di conoscenza, di ricerca e sviluppo ecc. Esiste, poi, tutta una fascia di lavoro autonomo che è legato a uno dei collanti forti del tessuto produttivo postfordista, che è quello della mobilità e dei trasporti, ossia il settore chiave che sposta le merci dalle piccole unità produttive decentrate in rete, da un posto all'altro; è un settore che è quasi tutto composto di lavoratori autonomi, i cosiddetti "padroncini" che in realtà soltanto formalmente sono lavoratori autonomi, cioé solo dal punto di vista giuridico, fiscale ed amministrativo del rapporto di lavoro. In realtà - e lo stesso Bologna l'ha spiegato - la gran parte dei lavoratori autonomi è "monocliente", ha cioé un unico cliente, e lo stesso discorso si potrebbe fare per gran parte del settore commerciale, distributivo, di promozione dei prodotti.

Nel momento in cui il lavoratore autonomo ha un unico cliente, oppure al massimo ha un grande cliente e pochi piccoli clienti - il discorso vale per chi fa trasporti così come per chi fa servizi alle imprese che tanta parte hanno nel tenere assieme, nel funzionare come elemento connettivo, comunicativo, relazionale della piccola-media impresa postfordista -, in gran parte di questi casi, quando si ha un unico padrone o pochi padroni, non si è nella condizione di potere decidere e disporre liberamente dei propri tempi di lavoro o delle proprie tariffe. Si creano così condizioni di forte dipendenza: è il caso dei "contoterzisti" trevigiani che lavorano quasi esclusivamente per Benetton, il quale decide addirittura quale tipo di macchinario questi " liberi imprenditori" debbano acquistare. Poi c'è anche il piccolo imprenditore particolarmente più furbo o più intelligente degli altri, oppure più abile nel gestirsi il terreno della comunicazione, tanto da riuscire a mantenere un ampio margine di autonomia reale sul mercato. Nei confronti di queste figure si rivelano però altrettanto dispotici i meccanismi del credito, i "leasing", le tratte bancarie da pagare ogni mese. Sono questi strumenti che hanno preso il posto dei regolamenti di fabbrica di taylorista memoria, che hanno sostituito il controllo dei tempi e ritmi di lavoro, di cui si incaricavano i capetti.

È il segreto di chi ha saputo governare in termini dispotici il tessuto della piccola impresa, il tessuto dei laboratori, il tessuto del lavoro diffuso e dell'autoimprenditorialità. E lo stesso discorso si può fare anche rispetto ai rapporti tra alcune grandi imprese e la piccola impresa... perché esiste anche nel voto leghista una grossa componente di rifiuto di quella alleanza che poi è la grande saldatura tra debolezze che ha costituito la forza elettorale dello schieramento di centro-sinistra, cioé la grande alleanza tra gli spezzoni superstiti delle vecchie corporazioni operaie e dei vecchi segmenti di classe con la grande impresa, con le grandi amministrazioni dello Stato, questi "poteri forti" in transizione, rappresentati in maniera che neanche Grosz, il caricaturista comunista tedesco degli anni '20/'30, avrebbe potuto raffigurarli in maniera più schematica e grottesca: l'Ulivo... Dini, il banchiere a livello internazionale, l'uomo vampiresco del Fondo Monetario; Maccanico, l'uomo della Prima Repubblica, l'uomo del centrismo repubblicano, che ha fatto il presidente di Mediobanca - perché quando parliamo di grande impresa in Italia, dobbiamo parlare di Mediobanca, tutti la chiamano la cassaforte del capitale italiano, governa i flussi di credito alla grande impresa e quindi ha permesso, insieme al sostegno statale, alla cassa integrazione, alle spese a fondo perduto a sostegno dei processi ristrutturativi, Mediobanca, assieme allo Stato, ha permesso alla grande impresa italiana fordista di superare le lotte operaie e la grande ristrutturazione degli anni '80. E Maccanico è l'uomo della Prima Repubblica, dell'amministrazione dello Stato, del Tesoro e di Mediobanca; poi Prodi, che incarna i boiardi dell'industria di Stato; con Agnelli, il consenso della grande impresa è evidente, il consenso dei mercati internazionali e, allo stesso tempo, di quello che rimane della forza delle corporazioni sindacali, tutti a sostegno del carrozzone dell'Ulivo. Una somma, appunto, di debolezze, di poteri in difficoltà che in questo caso, o almeno sul piano elettorale, ha pagato dal punto di vista degli interessi che si sono trovati a convergere.

Nel voto alla Lega c'è anche la rappresentazione evidente del fatto che il rapporto tra questa grande impresa, tra i grandi centri finanziari di questo paese e la piccola impresa, è un rapporto gerarchico e dispotico. È un rapporto che è vissuto, dalla stessa piccola-media impresa, anche in questi termini: il nemico è sì "Roma ladrona", il fisco, l'imposizione fiscale pesantissima, ma è anche il fatto che sono le banche a decidere se strangolare oppure no una piccola impresa. Chi controlla i flussi finanziari, chi controlla i flussi di credito sul piano macroeconomico a livello internazionale fa le politiche economiche dei paesi, ma chi li controlla sul piano territoriale fa le politiche delle imprese e indirizza lo sviluppo di interi territori, di interi distretti industriali, di intere aree produttive. Il modello postfordista è dunque fortemente gerarchizzato su tutti e due i piani, sia sul piano dell'organizzazione tecnica e sociale del lavoro, sia sul piano più generale dei flussi finanziari e del governo di questi processi.

In questo senso tutta la questione delle amministrazioni locali e, quindi, introdurre, come centralità, il tema delle amministrazioni locali dentro i ragionamenti che facciamo, la crescente rilevanza che hanno avuto, in quest'ultimo anno, i sindaci proprio qui nel Nordest si lega a questo. Amministrare un territorio, ormai, non vuol dire com'era un tempo gestire alcuni servizi, che potevano essere alcune questioni minime infrastrutturali. Oggi organizzare la vita di una città, la vita di un territorio dal punto di vista amministrativo, significa anche governarla dal punto di vista produttivo, nel momento in cui l'assetto produttivo è dato da questa organizzazione di piccole-medie imprese diffuse e decentrate in rete. Ecco perché l'amministrazione acquista una centralità ed ecco perché i sindaci sono stati finora l'unico concorrente serio della Lega sul piano della rappresentanza e della possibilità di dare degli sbocchi in termini di trasformazione istituzionale alle tensioni di cui parlavamo. Bossi, nel comizio dell'altro ieri a PadovaLand, ha attaccato Cacciari, non attacca gli idioti di Rifondazione Comunista che hanno chiesto l'intervento dei carabinieri o della magistratura per perseguirlo per il reato di lesa costituzione. Attacca chi gli è direttamente concorrente sul piano della possibilità di raccogliere consenso elettorale e sociale, di svolgere quel ruolo di rappresentanza politica effettiva che manca a questo tessuto produttivo.

Allora, questo è il quadro che abbiamo di fronte. Ho insistito sull'elemento della gerarchizzazione del lavoro postfordista e sul fatto che anche noi dobbiamo smettere di considerarlo un tutto indifferenziato, ma dobbiamo iniziare a metterci il naso, a capire quali sono le gerarchie che funzionano dentro alla piccola impresa, dentro al lavoro autonomo, dentro questa organizzazione sociale e territoriale del lavoro. Perché, poi, sta lì la nostra possibilità di intervenire in maniera diretta, di iniziare a sperimentare e a lanciare alcune proposte politiche sia progettuali sia organizzative.

Detto questo, tutto è aperto. Proprio sul terreno del lavoro autonomo, penso che su alcune sperimentazioni si potrebbe cominciare a ragionare. E anche sul terreno della fiscalità, perché No taxation without representation, "nessuna tassazione senza rappresentanza politica" è stato il grido di guerra delle rivoluzioni seicentesche, delle prime grandi rivoluzioni della modernità, da quella inglese in poi, e oggi torna con una forte attualità. Le tasse sono le risorse per governare e amministrare questa produzione in rete nei territori. Chi governa e decide sull'impiego di queste risorse, governa questo modello produttivo. Quindi non è in discussione solo l'elemento della vessazione, dell'assurdità, della farraginosità burocratica che il modello politico amministrativo centralizzato impone. È anche il fatto che chi governa le risorse decide, e questo modello produttivo è composto di molteplici soggetti. Su questo tema è difficile dire che vi siano interessi diversi. Prendiamo una figura delle metalmeccaniche vicentine con il contratto della piccola impresa: un operaio 3° livello con il contratto della piccola impresa, facendo due conti, vede benissimo che il suo salario è più basso di quello di una simile figura tedesca perché il 45-50% di quel salario se ne va in tasse. E il suo padrone gli dice "Io ti aumenterei anche il salario, ma ogni aumento salariale che ti dò ti viene dimezzato dal meccanismo fiscale!" È evidente che poi su questo terreno, che non ha paragone negli altri contesti europei, si sviluppa anche un facile consenso a questa ipotesi organicistica, a questo riconoscimento in una comunità di interessi tra produttori che poi ha, per migliaia di altre ragioni, una natura soltanto virtuale. È da qui che dobbiamo ripartire.


Nel 1978, quando la Lega ancora non c'era, un compagno operaio di Porto Marghera diceva che era inutile continuare a fare un ragionamento soltanto sul salario rispetto agli aumenti, ma bisognava entrare nel merito sull'articolazione della busta paga, per cui questo concetto sulla fiscalità doveva essere ripreso dal movimento come terreno di parola d'ordine. Nel 1973 con la dinamica della crisi della forma-stato; nel 1974 con le nuove forme della soggettività produttiva; nel 1988 con le modificazioni, dal fordismo al postfordismo (Toni Negri lo diceva allora e adesso tutti lo dicono): voglio dire che c'è una disgrazia che noi ci portiamo dietro, cioé non è vero che elementi di innovazione non siano stati letti da un certo filone di pensiero. Perché, poi, queste cose hanno avuto un esito diverso?

È che in realtà ci portiamo dietro una storia, una tradizione, un'utopia, ci portiamo dietro alcuni paradigmi ed elementi di ragionamento che non sono aggredibili soltanto da un punto di vista. Non possiamo solamente dire "Adesso passiamo a fare una battaglia sulle tasse degli operai...", in realtà c'era tutto un tipo di ragionamento sul reddito, sul salario, sul rifiuto del lavoro, che aldilà delle buone intenzioni non riusciva ad aggredire la materia della soggettività. Questo è il nodo della questione, nel senso che noi possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo, ma poi ci scontriamo con i soggetti e come si organizzano veramente.

Allora, il problema è che noi siamo dentro - e siamo stati dentro - non soltanto a un passaggio dal fordismo al postfordismo, ma ad una crisi di valori, d'identità del comunismo, fosse più o meno critico, di carattere catastrofico. Noi partivamo con alcuni elementi di ragionamento di utopia, un certo tipo di percorso di antagonismo, con alcune dinamiche di valutazione generale ben precise.

Abbiamo cominciato a mettere in discussione il determinismo con la teoria del caos. Poi abbiamo detto non c'è più la classe operaia come centralità ma ci sono soggetti sociali del lavoro diffuso e sociale. La forma-stato è in crisi, ma in realtà c'è una crescita dei nazionalismi locali che sono peggio della forma Stato-nazione dal punto di vista dell'immaginario.

Noi siamo dentro a questo dramma: dico questo per reinquadrare a tutti i compagni il tipo di profonda sensazione di impotenza che ci attraversa. Nel senso che tutto era previsto, tutto era all'interno di percorsi reali dell'antagonismo prima, ma anche della composizione sociale.

Prima si diceva si è passati dal fordismo al postfordismo, stiamo vivendo una crisi dello stato-nazione e c'è una ridefinizione del globale e del locale. Le elezioni, in Italia, sono all'interno di questo percorso, ma a me interessa parlare del dopo elezioni. Mi sembra che la riunione di stasera era per dire basta con i soliti "è meglio questo, è peggio quell'altro, ma se vincono gli altri..."; nel senso che, in realtà, la cosa è finita e adesso si tratta di riprendere a discutere dei veri problemi. Tutto il resto sono chiacchere. Il fatto che l'Ulivo sia una variabile dell'economia-mondo in una forma maggiormente mediata rispetto a una dinamica liberista più classica, lo si vedrà nel prossimo varo della Finanziaria. Il fatto che Rifondazione Comunista entrerà in crisi nel momento in cui tenterà di giocare il ruolo che il Pci aveva - dentro ad una forma che non era postfordista - di essere un "partito di lotta e di governo", lo vedremo fra qualche mese ed è inutile discuterne ora, perché comunque sarà così... le contraddizioni verrano fuori tutte. Così come il fatto che, sul terreno della globalizzazione, i processi andranno ancora più avanti sul piano della ristrutturazione e dei suoi meccanismi. Chiaramente questi sono tutti processi inevitabili, purtroppo, che parlano un linguaggio liberista, nonostante molti lo vogliano ancora ignorare; si tratta ancora di questo, l'unico modello economico sociale è quello liberista con tutte le sue variabili. Non c'è nessun altro modello come c'è stato dal 1929 in poi - lo Stato keynesiano, l'affermazione dello Stato sociale come terreno di pianificazione -, non c'è modello alternativo che si contrappone: l'unico modello è quello liberista, con le sue variabili di gestione locale e percorsi differenti, ma questo è il modello su cui tutti vanno a determinarsi.

Questo momento liberista produrrà un'estensione della contraddizione Nord/Sud - non solo come aree geografiche ma anche come elemento verticale che attraverserà tutta la società - accelererà i meccanismi di globalizzazione e, inoltre, aumenterà i processi di localizzazione.

Il problema ora è questo: mentre sul terreno della globalizzazione le cose sono abbastanza lineari, col fatto che abbiamo un sistema capitalista - cioé, chi comanda? gli Agnelli, il F.M.I., ecc. - sul terreno della localizzazione avvengono, invece, fenomeni di riorganizzazione sociale che sono particolari. Non c'è solo la Lega nel Veneto, c'è Cito a Taranto! E Cito non va affrontato come elemento folkloristico... È la forma costitutiva della localizzazione di un territorio con alcune caratteristiche e particolarità. Il problema è che questo tipo di localizzazione pone il problema della crisi di identità. Cioé se la globalizzazione distrugge e accelera il terreno della distruzione delle identità conosciute, se la sussunzione reale globalizza e rende omogeneo tutto nel sistema capitalista e nella sua massima estenzione, chiaramente triturando e distruggendo ogni forma di legame sociale - prima i contadini, poi la classe operaia, tutte forme che noi chiamiamo classe dentro al concetto marxista ma che erano forme identitarie, ponevano il problema di identità nella lotta, sui propri bisogni, sui propri interessi di classe. Questo discorso dell'identità rimane tutt'ora aperto, sia dal punto di vista del governo del mondo sia da quello dell'autogoverno; ma oggi si esprime in forme per noi "non-sconosciute" come elemento di analisi, quanto difficili dal punto di vista della rappresentazione e dell'internità.

Perché sono difficili da affrontare? La localizzazione, dentro il processo della sussunzione formale, era un elemento abbastanza comprensibile. Nell'imperialismo, il rapporto di dominio coloniale produceva una forma di indentità locale che si rivolgeva contro il processo capitalistico che la sottometteva in funzione del mercato mondiale, per cui abbiamo avuto forme di autodeterminazione dei popoli contro questo processo. Ecco, allora, i movimenti di liberazione.

Rispetto ad un processo di transizione,i movimenti di liberazione erano il nostro "pane quotidiano", si inserivano dentro un meccanismo globale che era ancora legato alla sussunzione formale e dentro ad un inizio di passaggio alla sussunzione reale - nel senso che era un periodo storico in cui il sistema capitalistico doveva ancora sussumere tutto il pianeta, tutte le forme sociali e tutte le dinamiche societarie presenti nel pianeta. Chiaramente, le identità che si formavano sul terreno locale contro la forma produttiva e la forma statale imposta dall'imperialismo o dal colonialismo si inserivano dentro a un processo di liberazione e dentro a un terreno ricompositivo con quello che l'operaio faceva con le lotte nel centro delle metropoli. Oggi, tutto ciò non esiste più, perché non c'è più questo scenario generale. Non è sparito, però, il processo di localizzazione dentro il postfordismo e la globalizzazione, che producono, invece, questo tipo di localizzazione, questa dinamica del locale e di rifiuto - in termini moderni - di questo tipo di meccanismo.

Noi possiamo leggere il reale e la tendenza di questi processi. Fenomeni politici come l'Ulivo e Berlusconi (o il Polo) li inseriamo dentro i processi di globalizzazione. La Lega e Cito li leggiamo all'interno della dinamica di localizzazione. Ma come possiamo riuscire a orientarci e a tentare di determinare un percorso dentro a questa confusione?

Per prima cosa, dobbiamo essere tranquilli e sereni, convincerci che in tempi brevi non si modificherà nulla, nel senso che le trasformazioni noi possiamo viverle soltanto dentro dinamiche di lungo periodo e dentro trasformazioni che devono innescare processi sociali con segni diversi e che, sicuramente, non possiamo essere solo noi a determinare - questo non per un discorso attendista, ma per un discorso realista. Noi possiamo organizzare un tipo di funzionamento - che abbiamo già adottato - che ragiona e si rapporta alle dinamiche possibili di autorganizzazione... centrali o periferiche, ma che comunque parlino sul terreno dell'autorganizzazione con un segno reale e di tendenza di un certo tipo. Parliamo di Cobas e di pubblico impiego: parliamo di Cobas in termini di resistenza nei posti di lavoro, facciamo la nostra battaglia dentro a questi sul problema del reddito e della giornata lavorativa, cercando di spostare la problematica da un terreno "sindacale", anche su un terreno di qualità della vita. Sul terreno del pubblico impiego cerchiamo di fare un discorso sul concetto di pubblico non statale - chiaramente è abbastanza aleatorio ma è più semplice di altre questioni... Sugli immigrati organizziamo quello che riusciamo a fare contro il decreto e per la regolarizzazione di questi. E poi i centri sociali... Insomma, per prima cosa, continuiamo a dare senso alle cose che abbiamo possibilità di fare. Questo è fondamentale: dare, cioé, un senso alle cose che facciamo nel momento in cui riusciamo a farle dentro alle possibilità reali che le varie dinamiche sociali permettono oggi.

Poi, è necessario avere un metodo che eviti tre errori di fondo. Innanzittutto non bisogna essere mai oggettivisti, sia nella versione catastrofista sia nella versione del "tanto peggio tanto meglio". Il ragionamento dal punto di vista oggettivista-catastrofista - quello per cui si afferma che, arrivati a questo punto, non c'è più nulla da fare perché sono tutti fascisti o egoisti e perché questo tipo di organizzazione del lavoro e questo tipo di dinamica portano alle situazione che abbiamo di fronte - ha sempre prodotto una condizione di impotenza che non si sforza di comprendere la realtà dei soggetti che vivono questa oggettività. Quindi, dobbiamo essere contro una logica catastrofista, lo siamo sempre stati ma in questo caso bisogna riaffermarlo con forza e rifiutare queste logiche di appiattimento alla realtà come azzeramento di ogni possibilità di comprendere e di agire nei tempi e nei modi che si potranno fare. Analizziamo ora il concetto del "tanto peggio tanto meglio": sperare in un andamento peggiore delle cose secondo la logica che più aumenteranno le contraddizioni e più la gente capirà... questo è stato sempre sbagliato. In realtà più la gente è nella merda, più viene a mancare la capacità della soggettività di determinare processi di liberazione e sempre di più la gente andrà nella merda. Cioé la dinamica del bisogno di per sé non produce niente. Questo è un altro elemento centrale che ci ha sempre guidato e che credo sia fondamentale. Comunque, anche per quanto riguarda la lettura delle elezioni, il concetto del "tanto peggio tanto meglio" (nel senso è meglio che vinca Berlusconi e poi si vedrà, ecc.) sono tutte stronzate e non ci appartengono. In secondo luogo va evitato un discorso di trasformismo. Credere che questa realtà si può aggredire trasformandosi opportunisticamente... nel senso, prima c'erano gli operai adesso ci sono i piccoli produttori... il meccanismo è lo stesso, prima bastava parlare del salario, adesso si parla delle tasse e abbiamo risolto il problema... Non è così che si risolve il problema. Non c'è alcuna linearità su questo terreno. A forza di cercare continuamente di inseguire la modernizzazione, si arriva alla logica opposta del catastrofismo ma ad esso speculare, nel senso che si dice che si può fare sempre qualcosa e però per fare sempre qualcosa bisogna cambiare. Cambiando continuamente, però, arriviamo a qualcosa che non sappiamo bene cos'è. Per cui il concetto di trasformismo, che in Italia è sempre stato presente, è un elemento che non ci deve appartenere e, comunque, non ci deve appartenere come terreno metodologico. Alcune cose non si possono fare: bisogna affermare il fatto che fino a un certo punto si può fare e oltre a quel punto non si può. Perché ne va della nostra identità e della nostra utopia. L'identità e l'utopia sono altri elementi che, se riguardano il sociale e i popoli, riguardano anche noi. Un ragionamento del perché si determinano alcune cose rimane un elemento dinamico ed elastico, però non alterabile e non trasformabile in forma totale, nel senso che alcuni passaggi ci sono impediti dalla nostra identità - identità certo rinnovata, ma pur sempre identità di valori e di principi - e dalla nostra utopia di un concetto di società e di relazioni umane diverse. Per cui, comunque, alcune cose in termini di internità a percorsi e a meccanismi sociali anche significativi, ci sono impedite a volte anche da questo. Il che non rappresenta un elemento dogmatico o da prendere come elemento di ortodossia ideologica, nel senso che in realtà tutti gli elementi di possibile rinnovamento e messa in discussione si possono e si devono fare, ma convinti che ci sono alcuni limiti posti da principi e valori che determinano il nostro stare insieme, cioè la nostra identità e la nostra utopia. Per cui contro il trasformismo a tutti i costi.

Infine è importante mettere in discussione un concetto di linearità dei percorsi sociali, che vengono visti sempre in forma di potenza e di tendenza, saltando gli elementi di contraddizione. In realtà, dentro al terreno della linearità e della tendenza, c'è tutto il percorso della materialità, della vita e degli uomini, che è il senso stesso della contraddizione come metodo, che deve essere assunto da parte nostra come principio fondamentale. Si pensa di poter fare le cose in un certo modo però poi, quando cominciamo a farle, ci scontriamo contro una dinamica del reale che è fatta di dinamiche sociali, di persone e di interessi che complicano la visione generale della questione.

Il dibattito che abbiamo fatto sinora ci deve portare a riflettere su due problematiche: 1) il discorso sulle nuove forme del lavoro - volenti o nolenti si ritorna di nuovo sul successo della Lega e il Nordest... nonostante non ci piaccia dobbiamo affrontare nuovamente questo discorso; 2) il discorso sulla nuova forma-stato.

Nuova forma-stato che si chiama globalizzazione e localizzazione, che si chiama economia-mondo e federalismo: per alcuni l'economia-mondo significa presidenzialismo (esecutivo forte con il presidente) e federalismo in una certa maniera, per altri una forma alla tedesca... In ogni caso, la globalizzazione implica una dinamica verticale di imposizione del comando sul piano generale. Non c'è nulla da fare: non c'è democrazia dentro l'economia-mondo e non ci sarà. Dentro la globalizzazione non c'è possibilità di democrazia: comanda la finanza, comandano le reti produttive, comanda il grande capitale e non c'è dialogo con le nuove dinamiche sociali.

Sul piano locale c'è il tentativo di adeguare a questo scenario le nuove forme del cosiddetto autogoverno. Qui c'è una dinamica più complessa che parla di qualcosa che ci è impedito dalla nostra identità e dalla nostra utopia: a volte, siamo frenati a percorrere fino in fondo, fino alle loro estreme conseguenze, alcuni ragionamenti che sul piano della rappresentazione generale possono apparire, a tavolino, lineari... cioè, anche noi siamo sempre stati contro questo Stato-nazione e siamo per l'esaltazione di una dinamica dell'autogoverno locale come possibilità. Perchè, allora, non buttarsi anche noi a capofitto dentro a questo tipo di cose e determinarle? Chiaramente questo è contraddittorio per le cose che ho detto prima, però è un terreno aperto che abbiamo di fronte per i prossimi anni.

Torniamo alle nuove forme di lavoro. Se da una parte è chiaro che dobbiamo continuare a organizzare i Cobas nei posti di lavoro, nel pubblico impiego, e i centri sociali, ecc. - tutte cose che sono "più chiare" dentro un ragionamento di una possibile identità e utopia nostra con tutte le contraddizioni che conosciamo -, dall'altra notiamo che qui nel Veneto c'è un problema: il 50-60% della forza-lavoro (secondo dati CGIL) ha un tipo di occupazione che non c'entra più nulla con il lavoro classico del lavoratore salariato della grande fabbrica. Tra i piccoli artigiani, tra i lavoratori autonomi, nella piccola impresa, il rapporto padrone-operaio è quello di cui parlavamo prima: nel senso che si rappresenta come un tutt'uno. Esistono posti di lavoro dove ci sono 4 persone che lavorano, di cui uno, il padrone, lavora 12 ore... cioè lavora più dei suoi operai... voglio dire, la dinamica del rapporto padrone-operaio sfuma... sfumava già nei laboratori decentrati della grande fabbrica quando li cercavamo di organizzare... perchè i numeri si riducono... perchè un conto è parlare ai centomila della FIAT del rapporto operaio-padrone, poi, nel lavoro decentrato, il rapporto padrone-operaio si è ridotto ed è sceso a 1 a 100, adesso siamo a 1 a 3... e questo fatto disarticola ogni dinamica classica di identificazione e di percorso di lotta per riuscire a rompere questo tipo di connubio.

C'è, insomma, il discorso del lavoro autonomo e del lavoro nelle ditte individuali che hanno ormai un'estensione enorme. Noi eravamo abituati a ragionare sullo sfruttamento... c'è chi produce, chi subisce l'estrazione di plusvalore da parte coloro che detengono i mezzi di produzione... adesso si parla di "autosfruttamento". Qual'è il significato di questo termine? È una dinamica nuova che possiamo inserire solamente dentro a un ragionamento sulla cooperazione sociale, nel senso che questo tipo di dinamica è la forma sussunta del lavoro nella forma più alta, che presenta anche il livello più maturo di possibile cooperazione.

Detto questo, però, il problema è vedere cosa che si puo fare. Non possiamo parlare più di padroni e padroncini... perchè se parliamo del 50-60% di forza lavoro impiegati in questi termini, se tutti questi sono padroni... gli altri sarebbero solo il 30%... questo vorrebbe dire che la dinamica di liberazione non funziona più, perchè vorrebbe dire che la minoranza deve distruggere la maggioranza! Voglio dire, noi abbiamo sempre fatto un ragionamento di maggioranza e minoranza politica, però ragionavamo su un riscatto sociale in cui la maggioranza era dentro alcuni assetti precisi... per cui era la maggioranza della classe operaia rispetto alla minoranza di chi deteneva i mezzi di produzione.

Ora il problema si è fatto più articolato: noi - ed è fondamentale - dobbiamo cercare di rompere tutte quelle impostazioni, tipo M-L, in cui si afferma che questi sono solo padroncini e non hanno coscienza... perchè un operaio di Porto Marghera o dell'Utita aveva la coscienza sociale sulle donne, sul sessismo, sull'ambiente, sulla qualità della vita? Questo non c'entra niente, dobbiamo sgomberare il campo definitivamente da queste cose: noi non siamo a questo livello, siamo già andati oltre! Abbiamo sempre parlato di interessi materiali di classe... una volta si parlava della "rude razza pagana" rispetto alla classe operaia, solo che nel pensare ai propri bisogni doveva anche liberare l'umanità, dentro a un'analisi che Marx aveva fatto in cui era centrale la produzione: liberando se stessa la classe operaia avrebbe liberato l'intera umanità, ma sempre in termini di interesse di egoismo... solo nella tradizione M-L romantica si individuava un concetto di coscienza di classe: "l'operaio, il proletariato, il popolo hanno la coscienza di classe"... queste cose non sono vere e non ci sono mai appartenute.

Per cui, se queste idee non ci sono mai appartenute, ora non possiamo sostenere che questi padroncini sono tutti magnamerda e così via. In realtà, sono sicuramente centrali rispetto a una problematica di organizzazione del lavoro dal punto di vista della liberazione e quindi anche dal nostro punto di vista, però il problema è vedere su cosa e come si può determinare questo tipo di percorso.

Come si diceva prima, credo che l'unica cosa sia cominciare a distinguere: non possiamo continuare a dire che tutto il lavoro sociale autonomo e tutti i padroncini sono uguali. Cominciamo a vedere se possiamo aprire un terreno di lavoro con chi lavora in proprio, anche partendo dai compagni che sono direttamente interessati. Le ditte individuali, sulle statistiche, sono molte: ci sono ditte individuali e cooperative sociali. Queste possono rappresentare un terreno iniziale, sono inserite dentro a un meccanismo del nuovo e però sono già selezionate rispetto a un ragionamento compatibile con la nostra progettualità. Di questo, chiaramente, si dovrà discutere.

Quale potrà essere la forma d'intervento? Io credo che la forma non può essere quella di un'organizzazione che fa lavoro esterno... Un lavoro esterno classico era messo in discussione già dalla dinamica dell'autonomia operaia, immaginiamoci ora in una dinamica di organizzazione sociale a questo livello! Credo che, semplicemente, si tratta di far viaggiare certi ragionamenti e verificare se, partendo anche dai giri di persone che possono essere d'accordo (compagni o non compagni), si possano costruire dei momenti di discussione tra chi lavora effettivamente in questa situazioni: cioè tutti quelli che lavorano in maniera autonoma, tutti quelli che sono inseriti in questo tipo di cose dovrebbero trovarsi, per produrre ragionamenti comuni, per vedere come può crescere un ragionamento in proprio.

Il problema è che qualsiasi forma di analisi, si ferma sempre a questo punto: fa piazza pulita di una serie di ragionamenti classici e assume questa centralità. Il problema è vedere come riuscire, su lungo periodo, a innescare un meccanismo. Bisognerebbe riuscire a far viaggiare - utilizzando non solo i nostri mezzi di comunicazione ma anche le persone che possono entrare in contatto con chi ci interessa - le idee su come, poi, si possono articolare gli obiettivi di questi soggetti... perchè non si può parlare di rifiuto di lavoro a gente che lavora in proprio 12 o più ore al giorno, non si può parlare di salario. Sono dinamiche nuove e queste dinamiche nuove non possono che autodeterminarsi. Abbiamo capito nel 1978 che bisogna intervenire sul fisco dei lavoratori, ma i Cobas su questo non riescono a dire nulla.

Tornando al federalismo: è vero che le sue idee sono di destra ma, oggi, chi ha messo in discussione la forma-stato sul piano locale parla con questo tipo di linguaggio. Parla di identità di tipo etnico, con il "popolo dei produttori", però in realtà è l'unica cosa che smuove la questione! C'è anche il movimento dei sindaci che parla della gestione della città in funzione della localizzazione legata alla globalizzazione: quindi non assume la contraddizione e per noi è meno interessante perchè intende pianificare e appiattire le contraddizioni - meno interessante per noi se non per capire come questo meccanismo dell'economia-mondo sul piano locale si può ridisegnare dal punto di vista del consenso e sul piano della pace sociale. Insomma, Cacciari vuole la pace sociale, Bossi vuol fare casino! Poi certo quest'ultimo vuole fare casino per una serie di motivazioni che noi conosciamo, però la contraddizione rimane questa: noi da che parte stiamo? Possiamo stare da qualche parte? Possiamo stare con Cacciari o con Bossi? Diciamo da nessuna parte! Ma la cosiddetta terza via sul passaggio al federalismo, che cosa è?

Noi, rispetto alle precedenti elezioni amministrative (con l'esperimento a S.Donà), abbiamo tentato di spostare il concetto di federalismo sul concetto di municipalità, cioè sul concetto del governo della città e, se vi ricordare è stato un fiasco. Tutti i tentativi che cercavano di cogliere questo aspetto, per tentare di vedere cosa voleva dire agire su questa problematica dal nostro punto di vista sono falliti: i risultati li abbiamo di fronte. Nell'ultimo seminario siamo tornati a parlare di rapporti federativi nella rete, cercando di rilanciare e di riappropriarci dei termini federalismo e autogoverno dentro la gestione della rete autonoma che non può essere che federalista, nel senso che non può essere l'organizzazione di un partito. Le nostre forme della rete non possono avere altro che dinamiche di autogoverno, cioè la rete deve autogovernarsi se non vuole essere un partitino... tutte cose che stiamo sperimentando, abbiamo riportato questi terreni dentro una dinamica nostra. Mentre rimane aperta la problematica della dinamica del sociale ed esterna.

Dobbiamo ricominciare a parlare su questo tipo di cose, consapevoli delle difficoltà e, a volte, delle impossibilità, ma con il coraggio di sperimentare. Quello che non può funzionare è una dinamica di ottusità mentale, verificata molte volte su altre questioni, che poi, però, passa. Per esempio, qui a Padova abbiamo provato (in tre) a fare questo percorso della "Comune": parlando ai soggetti sociali, vedendo se a Padova esisteva la possibilità di riappropriarsi del tema dell'autogoverno come dinamica dal basso dentro la crisi di rappresentanza prodottasi nel passaggio dal fordismo al postfordismo, però è andata male.

Ma questo tipo di cose rimangono aperte, anche nell'incapacità nostra di individuare le forme in cui agire. Un'incapacità che dobbiamo attrezzarci a superare.



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