Si rende necessario, per l’incalzare degli accadimenti e per le sollecitazioni che ci giungono dalla rete autorganizzata del Nordest, tentare di chiarirci e chiarire le idee, affrontando di petto le questioni piu’ urgenti, dal nostro punto di vista, che la fase politica ci pone. Quello che segue non vuole essere un documento politico compiuto e conclusivo, quanto piuttosto un intervento, una lettera aperta a noi stessi (ADL) e a tutti i nostri compagni/e vicini e lontani.
Quadro di riferimenti.
La cornice analitica che ci fa da sfondo
è stata delineata già da tempo con buona intuizione politica,
aggiustamenti nell’approccio e in corso d’opera sono sempre necessari e,
crediamo, indice di propulsiva tensione sociale e vivacità intellettuale.
Il punto di partenza non può non essere che la consapevolezza politica
dell’avvenuta messa in produzione di tutti gli aspetti della vita sociale,
individuale e collettiva, con al centro il “sapere” quale elemento
strategico e discriminante nel definire i passaggi e i nuovi dislocamenti
societari. Questo “salto” nel modo di produzione capitalistico ha, in un
brevissimo arco temporale, reso obsoleti confini e frontiere, facendo frantumare
interi comparti societari (tutto l’Esteuropa), scombinando vecchi equilibri
in Africa e mettendo il cappio finanziario al collo al Sudest asiatico,
mandando in soffitta il paradigma di stato-nazione così come lo
abbiamo conosciuto. Pensiamo solo alla lunghissima gestazione e alla repentina
applicazione degli accordi transnazionali quali il GATT e WTO, quelli sulle
biotecnologie e la eugenetica, e da ultimo il patto multilaterale sugli
investimenti (MAI), dove l’autorità (sovranità) degli stati
scompare definitivamente (anche giuridicamente) avanti ai movimenti del
capitale, comunque salvaguardati dalla funzione di “polizia internazionale”
degli USA e della NATO, come ci viene ricordato fattivamente in questi
giorni. Questo “passaggio” ha permesso la ridislocazione produttiva di
interi comparti merceologici, la globalizzazione delle imprese, la omogeneizzazione
del costrutto (conoscenze) necessario alla composizione tecnica della forza
lavoro su scala planetaria, così che nel Nord e nel Sud del mondo
convivono high-tech e schiavismo, imprese a rete e operai dalle mani callose,
just in time e le mondine. Con le differenti condizioni materiali e sostanziali
che tutti conosciamo, ma che non possono negare il sotterraneo legame produttivo
tra gli schiavi cinesi che lavorano nei laboratori tessili trevigiani e
quelli negli slums di Jakarta, tra le bambine “griffate” della Sicilia
e i bambini “football” del Pakistan. Lo “stato-nazione” ha perso di significato
mentre il “distretto produttivo” (Hong Kong o Nordest, poco importa) acquisisce
valenze metaproduttive, di identificazione sociale, quando non anche politica
(fenomeno Lega), tutti elementi che ci hanno costretto a ricordare quello
che troppo spesso tendiamo a dimenticare, e cioè la corrispondenza
funzionale tra struttura produttiva e impianto amministrativo/istituzionale.
In questa chiave ci riuscirà più facilmente comprensibile
sia il rovello bicamerale e presidenziale in materia di riforma costituzionale,
sia la marcia a tappe forzate nella trasformazione del rapporto di lavoro
nel pubblico impiego, la sua deregolamentazione e la sua assimilazione
a puro e semplice rapporto di lavoro, dagli uscieri ai dirigenti.
Noi e dintorni.
Dentro a questi mutamenti epocali, in
una sperduta landa del pianeta Terra (la bassa padovana) ci siamo trovati
noi, oltre 5 anni fa, con tutta l’intenzione di inceppare questo processo
e rilanciare un percorso con al centro “l’umanità” per dirla con
uno che se ne intende e con cui ci piace intendere. Era una sperimentazione
di aggregazione associativa che voleva tenere in conto il crollo della
conflittualità, il venir meno della dialettica tra parti in lotta,
che, letta e toccata con mano la cogestione e compromissione sindacale,
aveva per orizzonte le esperienze di autorganizzazione dentro e fuori i
posti del lavoro: l’Associazione Difesa Lavoratori. Poi siamo andati a
federarci allo SLAIcobas, quale struttura di lavoratori autorganizzati
percepita come più vicina al nostro vissuto politico-sindacale per
la sua essenza di democrazia diretta, aburocratica, e anticonfederale.
Ora, 1998, siamo cresciuti, siamo quasi 1000 associati, abbiamo conquistato
grossi riconoscimenti (e vittorie) nelle lotte, nelle rappresentanze sindacali,
nella ramificazione territoriale, ma anche qualche significativo ridimensionamento
come all’Italcementi e alla Peroni, dove non sono stati rieletti i nostri
rappresentanti nelle RSU, e ciò a vantaggio di leghisti e fascisti.
Ma, crediamo, non si tratti,qui, di tracciare un bilancio ragionieristico,
quanto di significare il senso del nostro agire e mettersi in comunicazione
collettivamente, nei nostri territori e a livello più generale.
E il nostro argometare parte dall’assunzione, come data, di una più
generale “crisi della militanza” e delle forme “classiche “ dell’azione
politica, quando la sua decisionalità si viene a formare in quell’accezione
denominata “lobbistica”, e questo ad ogni livello di espressione politica
nella nostra società, dove la comunicazione è diventata il
nesso principale nella creazione del consenso. Allora diviene preliminare
e fondante la condivisione di uno sfondo su cui andare ad innestare la
propria articolazione di un percorso, di un confronto, di una dinamica
politica. In questo contesto relazionale, se da un lato possiamo riscontrare
una crescita, pur in una imperfetta modalità di circolazione comunicativa,
delle affinità elettive con l’insieme delle esperienze dell’autorganizzazione
del Nordest, e ciò specialmente dal salto di qualità realizzato
a cavallo della primavera/estate del 97 in occasione delle marce su Amsterdam
e Venezia; dall’altro lato, quello che ci vede federati allo SLAIcobas,
la condivisione di scelte, passaggi, ed articolazioni è venuta progressivamente
meno, anche per l’impegno di molte figure di spicco dello Slai nell’ipotesi
della “Confederazione dei comunisti/e autorganizzata”, formazione politica
dai riferimenti pedantemente neo m-l, in cui si ripropone la netta separazione
tra l’azione del partito e del sindacato, elemento che fa a pugni con il
nostro concetto di autorganizzazione, così come lo faceva il libello
di L.Malabarba “dai cobas al sindacato” che poi ha dato vita al SINcobas.
Insomma riteniamo che per molte formazioni
di autorganizzati sia venuta meno la spinta trasformativa e che stiano
arrivando all’epilogo incartate, e col rifiuto di guardare oltre il proprio
particolare.
Alcuni paletti.
Vale forse ribadire che l’opzione “autorganizzazione”
da parte dei compagni dell’ADL è una scelta fondante e strategica,
che viene da lontano ed ha attraversato le più variegate sperimentazione
tattiche e funzionali, ora, ed è, il caso di sottolinearlo, di “forme
partito” ce ne può fregar di meno, se non in un ottica strumentale,
d’uso, per finalità trasversali e di accrescimento del portato politico
della “nostra” critica all’esistente. Questo non per snobismo ma perché
crediamo che una risposta diversa sia profondamente sbagliata, incapace
di rispondere alle esigenze poste dall’implosione pulviscolare della classe
e dei percorsi della sua soggettività. Contestualmente riteniamo
che l’aderenza al territorio delle forme di autorganizzazione sia ugualmente
un elemento costituente, e la decisione di federare l’ADL allo SLAIcobas
non corrisponde alla volontà di non contaminarci, ma anzi, e lo
abbiamo ribadito sempre, voleva essere uno stimolo per le altre esperienze
a mettersi in verifica a tutto campo e non solo nel proprio particolare
luogo di lavoro. I modelli organizzativi di tipo nazionale, quando di fatto
ci troviamo davanti una diversificazione e una frantumazione della struttura
materiale attorno e su cui si innestano i percorsi dell’autorganizzazione,
sono una contraddizione in termini, dovuta, lo pensiamo davvero, alla incapacità
di mettersi in discussione e in relazione a fronte delle modificazioni
che intervengono nella concreta realtà e in rapporto dialettico
con gli stimoli politici che ci vengono dagli accadimenti sociali locali
e internazionali, dalla Francia al Chiapas, dagli USA al Brasile, da Trieste
a Cosenza. Per questo riteniamo che, in sé, l’ADL ha una strutturazione
adeguata e aderente al “distretto produttivo del Nordest”, ma non semplicemente
funzionale bensì strategicamente motivata nel moderno dislocamento
societario.
Difficoltà nostre
e collettive.
Difficoltà insorgono allorquando
ci troviamo ad affrontare tematiche e interessi di natura contrattuale
e di rilevanza nazionale: la comunicazione diviene lenta e il dibattito
opaco, meno, paradossalmente, quando riprendiamo spunti transnazionali
(marce, lotte in Francia) dove si tratta di ripristinare canali di comunicazione,
caduti in disuso, per stimolare quella conflittualità dispiegata
che tanto ci manca. Attorno al primo tema la soluzione non si può
demandare ad alcuno, solo il radicamento, la nostra rappresentatività
dentro le RSU, la verifica attraverso lo strumento dell’inchiesta, e l’impatto
sociale che riusciamo ad esprimere, può permetterci di strappare
il risultato e di rafforzare il percorso di autorganizzazione, così
come un possibile percorso può essere individuato nel ricompattamento
di coordinamenti nazionali di settore e/o di comparto, superando la logica
di appartenenza alle svariate esperienze autorganizzate, ricostruendo una
modalità dell’agire politico per l’autorganizzazione nei luoghi
del lavoro e non di organizzazione (si sta provando nei trasporti, sanità,
poste, scuola). Non che qui, giocando in casa, tutto vada bene, le difficoltà
ci sono, grandi, comuni, collettive. Già abbiamo accennato al venir
meno di alcune significative rappresentanze, in specie nella bassa padovana,
dove sull’intreccio tra presenza in fabbrica e attività nel territorio,
attorno al tema inquinamento, molto è stato investito in termini
di impegno, trasversalità e prefigurazione. Non è bastato,
purtroppo la penetrazione diffusa degli umori leghisti, l’imbecillità
confederale e delle “sinistre”, hanno potuto più dell’incombenza
inquinamento e della produzione di morte. Questa problematicità,
le difficoltà di costruire persistenti mobilitazioni, un rugginoso
confronto con gli Enti locali, riguardano anche altri terreni di iniziativa
quali la viabilità e la refezione scolastica a Padova, e ci rimanda
al nodo della nostra soggettività, un po’ spuntata, un po’ stracca,
un po’ vecchia che avrebbe bisogno di rinnovarsi con l’acquisto di volti
nuovi che si assumano le responsabilità dell’associazione. Allargando
il ventaglio dei rompicapo, ancor più ci troviamo in una babele
di lingue morte. L’orario di lavoro, le 35 ore, poste all’attenzione politica
dalla salutare impuntatura di Bertinotti, sono state per anni uno slogan
comune, un orizzonte, ora non più eludibile per andare oltre questa
situazione di stallo in cui le dinamiche sociali e di classe si trovano,
ma che non saranno confortate da un comma piuttosto che da un altro. Il
grimaldello non può che stare nella proposta e nella verifica pratica
del liberare tempo di lavoro coatto, così come in questi giorni
si sta facendo all’Aprilia, dove gli operai sono scesi in lotta per un
allargamento delle pause per tutti (sic) i tipi di lavoratori: regolari,
temporanei, in affitto, così come si va proponendo in molte assemblee
sindacali di base. Solo una conflittualità nei posti del lavoro
(vale per l’infinita giornata lavorativa dei trasportatori o delle partite
iva) può riempire di valenza sociale una giusta iniziativa legislativa.
Insomma sul lavoro, come sul reddito, in questa fase, molto possiamo imparare
dall’esperienza francese, e quello che già a Trieste, a Roma, in
forma ancora ingessata a Napoli si sta muovendo, il percorso in gestazione
nel Nordest, sono dei segnali di cambiamento, se non di inversione di tendenza,
che possono incrinare la desertificazione dei rapporti collettivi nel mondo
dei lavori. Qui da noi, nel Nordest, ma anche più generalmente in
tutta l’Europa non esiste più da tempo la disoccupazione, così
come classicamente è stata conosciuta, oppure neghiamo il nostro
stesso presupposto, l’essere nell’epoca della sussunzione reale, giocoforza
ne discende che una soglia di reddito garantito è l’equivalente
della legge sulle 35 ore, un punto di applicazione da cui ripartire, non
il traguardo. Tutto questo in un ottica di prefigurare, stimolare, ossigenare
il conflitto. Un conflitto verso una società autorganizzata, solidale
e federativa, che certamente non si conquista partecipando a queste o quelle
elezioni, ma proponendo il possibile per destrutturare l’esistente, mettendo
da subito in “produzione” il nostro “modo di essere” attraverso associazioni,
cooperative, imprese, relazioni politiche ed istituzionali non sovrapposte
ma connesse, relazionate e relazionabili al vissuto sociale e politico
della nostra piccola moltitudine di autorganizzati.