I NOSTRI NUOVI DIRITTI


Una proposta di seminario da aprirsi sulla base di una ipotesi che riesca a coniugare, in una riapertura progettuale, il terreno dei contropoteri diffusi e quello di una costituzione "altra"

BEPPE CACCIA -

I N MEZZO a tanta "infelicità" della sinistra risulta difficile nascondere un briciolo di soddisfazione. Il dibattito avviatosi nell'ultima settimana sulle pagine del manifesto segna, crediamo, un significativo passo in avanti, per tutti. Di più, si configura come punto di non-ritorno, segnale di un decisivo riorientamento in corso. Per la prima volta, individualità significative di una intellettualità diffusa, orientate verso la critica e la trasformazione dell'esistente - pur provenendo da culture ed esperienze profondamente diverse, e senza tradirle - si pongono al di là della babele dei linguaggi e delle pratiche del "giorno per giorno", muovendo da una comune lettura, per lo meno nei suoi tratti fondamentali, della transizione epocale che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.

Questo dibattito è un'occasione che non vogliamo lasciarci sfuggire: lo diciamo con l'umiltà venata da un forte pessimismo storico, proprio di chi - negli ultimi tre anni - ha cercato di "traghettare" gli spezzoni resistenziali del movimento autonomo anni '80 verso la fondazione di un agire politico sovversivo, all'altezza del paradigma postfordista. Le considerazioni, tutt'altro che risolutive, quanto invece problematiche e problematizzanti, che ci sentiamo di introdurre in questo dibattito sono, con tutti i loro limiti, frutto della nostra esperienza militante di attraversamento dei percorsi reali di autorganizzazione sociale (cobas, studenti, centri sociali, immigrati ecc.), con lo spirito e nella prospettiva della verifica sul campo, in progress, di nuove ipotesi progettuali e organizzative.

N ON VALE QUI LA PENA di soffermarsi tanto su quella soglia comune, quegli elementi che fanno del dibattito in corso un ambiente maturo, stimolo favorevole a proseguire sulla strada della ricerca teorica e della sperimentazione pratica. Per punti, assumiamo come base di partenza la netta percezione collettiva di una profonda discontinuità, il salto di paradigma, la trasformazione epocale del modello produttivo; tutto ciò che, magari impropriamente, chiamiamo postfordismo e a cui può forse alludere la profetica figura marxiana della "sussunzione reale" della società al capitale. La perdita di centralità produttiva della fabbrica fordista-taylorista che diventa segmento, sempre meno rilevante, della "fabbrica diffusa", dell'impresa in rete organizzata dalla comunicazione e dai servizi, corrisponde alla fine della centralità politica del soggetto operaio di fabbrica, protagonista del precedente ciclo di lotte.

La dimensione sociale dispiegata della produzione presenta qui aspetti contraddittori: da un lato, come molti tra gli intervenuti hanno sottolineato, ogni ambito della vita e della riproduzione sociale è piegato alle logiche e alle esigenze del mercato e della valorizzazione capitalistica. Dall'altro il "mettere l'anima - oltre che le braccia - al lavoro", che ci appare giustamente in tutta la sua mostruosità, rivela qui la nuova, potente centralità del lavoro vivo: il capitale insegue, deve appropriarsi di una cooperazione sociale in tendenza sempre più matura, intessuta dei saperi, dell'intelligenza, delle qualità del lavoro vivo. In tendenza, dicevamo: ciò che oggi intanto verifichiamo, è il compiersi della globalizzazione economica con l'intreccio sempre più fitto delle reti produttive, comunicative e finanziarie a livello di un unico mercato mondiale.

La dimensione sovranazionale dei "luoghi" della decisione e del comando, insieme al nuovo rapporto che si stabilisce tra la scala globale dei mercati e la "localizzazione" del produrre, codetermina la crisi dello Stato-nazione e l'impellente ridefinizione della forma-Stato. E' anche la fine del vecchio patto "fordista" tra capitale e movimento operaio (e bene ha fatto Rossanda a ricordare di quale particolare rapporto di forze e di quante lotte tutt'altro che pacifiche fosse il frutto), l'esaurimento del modello post-bellico di Welfare state come mediazione capitalistica del conflitto di classe, con la crisi degli istituti della rappresentanza operaia e della contrattazione collettiva. Se questo è il quadro generale perché stupirsi en passant dell'inglorioso epilogo della Costituzione del '48?

Revelli ama insistere sulla fine del "circolo virtuoso" tra crescita illimitata delle forze produttive, sviluppo del consumo di massa, aumento dei salari ed ampliamento della spesa sociale. Non corrisponde forse ciò anche a una rottura della dialettica tra capitale e lavoro, come logica della mediazione, del superamento della contraddizione di classe e dei conflitti sociali in una sintesi superiore, così caratteristica del compromesso keynesiano? Allo stesso tempo non è possibile parlare di "fine della dialettica" tout court , ciò significherebbe che alla logica della mediazione si è sostituita la pura e semplice logica della guerra, della negazione e dell'annientamento dell'altro.

I L CONCETTO va invece ricalibrato: ad essersi esaurita è quella particolare dialettica riassunta nella formula lotte operaie-crisi-sviluppo capitalistico, motore di un'epoca che si è chiusa definitivamente con la grande ristrutturazione e la controrivoluzione neoliberista degli anni '80. In questa direzione, è prezioso il riferimento che Revelli fa alla garanzia dell'"ordine sociale". Come le recenti lotte del "Dicembre francese" hanno dimostrato, con il momentaneo ritiro dei progetti neoliberisti di riforma previdenziale da parte del governo Juppé, dopo un mese di blocco della macchina sociale produttiva, il "sistema" non è invincibile: esistono terreni e spazi di mediazione che vengono in evidenza ogniqualvolta un conflitto radicale nelle forme e nei contenuti metta in discussione proprio quest'"ordine sociale".

Che cos'è dunque l'"ordine sociale"? In ultima analisi null'altro che la forma in cui si struttura il comando capitalistico nei confronti di una cooperazione produttiva i cui confini coincidono con quelli dell'intera società. Se il lavoro vivo è dunque interamente sociale, diffuso, organizzato reticolarmente nella comunicazione, mobile e flessibile, uno dei nodi teorico-pratici fondamentali diventa come rovesciare in termini offensivi questa nuova qualità. Di fronte a questo nuovo contesto, non c'è "ora X" che tenga, né alcuna nostalgia per i "due tempi" della presa del potere politico e della successiva modifica dei rapporti di produzione; ma altrettanto irrealistiche ci sembrano le ipotesi di un "nuovo compromesso" prospettato da Pietro Barcellona - il riformismo è impossibile, non per opzione ideologica ma perché, come abbiamo visto, ne mancano le basi materiali -; così come l'ipotesi delle "zattere dei naufraghi" di Latouche che abbandonano il mercato, e alla cui seduzione talvolta Revelli sembra cedere... Utopie, quest'ultime, senza dubbio più attrattive, per il loro carattere intrinsecamente positivo, per la loro allusione ad un "principio speranza". Di utopie comunque, ce n'è un gran bisogno soprattutto come immaginario delle nuove generazioni, ma tali restano: non c'è un fuori possibile che non sia quello che si costituisce dentro e contro, nel conflitto.

P ARTIAMO DALL'OPZIONE strategica per l'autorganizzazione sociale, come alternativa societaria, terreno fertile su cui possa svilupparsi una rete di contropoteri reali. E, se di questi stiamo iniziando a parlare un po' tutti, ciò significa confrontarsi da subito con il problema della rottura della legalità, dell'ordine costituito come regolazione capitalistica della produzione sociale. Senza sviluppo di contropoteri, senza una loro articolazione materiale in termini di riappropriazione della ricchezza socialmente prodotta, non c'è possibile separatezza, costituzione altra e separata come prefigurazione qui ed ora di una socialità liberata. E' forse possibile - lo chiediamo a noi stessi come a tutti gli intervenuti - tracciare una strada che riesca a coniugare, come continua riapertura creativa e progettuale, in permanente tensione, il terreno dei contropoteri diffusi e quello della costituzione altra? Se la risposta fosse affermativa, sarebbe necessario mettersi subito al lavoro, in due direzioni interrelate: quella relativa ai soggetti e alla loro organizzazione, e quella dei terreni su cui fondare un progetto di trasformazione radicale dell'esistente.

Anche qui nessuna certezza, soltanto ipotesi tutte da verificare in una pratica sociale conseguente: si tratterebbe di individuare, come terreno di scontro e di ricomposizione per i soggetti del lavoro sociale, la conquista dei nuovi diritti universali. Tra questi, prioritariamente, la definizione di un nuovo concetto di "pubblico", non più identificato con lo Stato, ma che rappresenti invece terreno di riappropriazione e gestione collettiva dell'amministrazione e dei servizi; il reddito sociale garantito come nuovo diritto di cittadinanza per tutti, a prescindere dalla collocazione in un mercato del lavoro deregolato in cui le tradizionali distinzioni occupati/disoccupati, garantiti/non garantiti, rapporto di lavoro dipendente/autonomo sono saltate. Un reddito sociale inteso dunque non come "assegno di sussistenza" ma come riconoscimento della qualità sociale della produzione e del lavoro, terreno di un conflitto storico per la riappropriazione di significative quote di ricchezza collettiva, all'interno di una ponderosa riduzione della giornata lavorativa sociale.

Se nel recente dibattito abbiamo individuato la possibilità di muovere da un comune sentire, è possibile costruire su queste tematiche lo spazio di una riflessione seminariale? Noi saremmo disposti da subito a lavorarvi.


ECN Padova