Gli anni più recenti del dibattito politico nella sinistra antagonista italiana sono stati caratterizzati dall'intervento via via più articolato di una serie di intellettuali e gruppi di ricerca che hanno posto al centro del dibattito varie tesi sulla natura del cosiddetto postfordismo: centralità del lavoratore autonomo e carattere immateriale della sua prestazione, impresa a rete e sviluppo parassitario del capitale finanziario, residualità della forma-salario, potenzialità liberatorie della nuova cooperazione sociale, ecc.
Attorno alle riviste "Futur Anterieur", "Luogo Comune", "Riff Raff", "Derive-Approdi" (solo per citare le più importanti), tale dibattito è cresciuto fino a coinvolgere alcuni spezzoni importanti del movimento antagonista.
Precisando che vorremmo portare una critica ai presupposti analitici
di questa tendenza politica, cerchiamo inizialmente di riassumere
la sostanza di tali idee, che si articolano, secondo noi, intorno
al rapporto tra lavoro autonomo e impresa a rete.
1) Le tesi postfordiste
Secondo questi teorici l'innovazione tecnologica e la sconfitta operaia degli ultimi decenni hanno prodotto la marginalizzazione della grande fabbrica fordista e della forma di sfruttamento salariale (definita in sostanza come residuale) e con essa la fine del progetto socialista-statalista.
Alla base ci sarebbe da una parte l'innovazione tecnologica che ha permesso un balzo nella produttività tale da ridurre notevolmente la quantità di lavoro salariato necessario alla produzione diretta di merci (e da qui discende il ridimensionamento dell'occupazione di tutte le grandi imprese negli ultimi decenni), dall'altra le stesse tecnologie informatiche che consentono lo sviluppo di una cooperazione produttiva tra imprese di piccole dimensioni per la realizzazione del prodotto finito.
A questo si assomma una modificazione della domanda di mercato che si orienta sempre di più verso beni individualizzati e particolari e non standardizzati come nell'epoca fordista, domanda che può essere meglio interpretata da produttori flessibili e di ridotte dimensioni.
Infine fattore ultimo, ma certo non meno importante nelle analisi di cui sopra, l'evoluzione delle tecniche produttive verso un modello che si fonderebbe prioritariamente sulle abilità scientifiche, cooperative e linguistiche del lavoratore [1] e quindi sulla capacità della organizzazione complessiva del lavoro di estrarre e di mettere in valore tali abilità. Rispetto a tale peculiare caratteristica, il sistema capitalistico avrebbe subito una trasformazione genetica completa dai "vecchi tempi" nei quali l'operaio massa era costretto a subire la tayloristica subordinazione alla catena di montaggio e la conseguente estraneazione.
Il risultato di questi processi concomitanti sarebbe infine lo sviluppo di un sistema produttivo postfordista sempre più caratterizzato dalla cooperazione tra piccole e piccolissime imprese (rete), sopra le quali, in veste di committente e di vincolo, c'è la grande e media impresa che ha perso la sua funzione produttiva divenendo centro di organizzazione logistica e finanziaria dell'altrui lavoro.
Staremmo andando dunque verso un capitalismo dei piccoli proprietari parziali del lavoro ai quali si contrappone il grande capitale astratto- finanziario che succhia ricchezza in forma non più dialettica, ma "taglieggiando" i flussi di merci e di comunicazione: a tale proposito, in un suo noto articolo del 1993, Antonio Negri scriveva: <<...la borghesia internazionale ha ormai perduto le sue funzioni produttive , diviene sempre più parassitaria - una specie di chiesa romana del capitale: essa si esprime ormai solamente attraverso il comando finanziario, e cioè un comando completamente liberato dalle esigenze della produzione (...)>>. [2]
La ricchezza sostanzialmente verrebbe estorta dai macrocapitalisti sempre meno mediante la valorizzazione diretta della forza di lavoro sotto un singolo capitale, e sempre di più attraverso la partecipazione alla rendita che il meccanismo di sfruttamento globale genera: tale meccanismo globale opera attraverso 1) la leva fiscale 2) finanziaria 3) dei prezzi delle commesse 4) dei prezzi di mercato .
Per dirla marxianamente, il piccolo produttore parzialmente proprietario dei mezzi di produzione, pur cooperante, non sarebbe più un modo di esistenza del Capitale, il quale non compra più il suo lavoro, ma bensì il suo prodotto. Cadrebbe così l'assunto marxiano per il quale i produttori, <<come cooperanti, come membri di un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale>>. [3]
Soggetto centrale produttore diventa, in tal modo, il lavoratore autonomo, l'artigiano, il piccolo imprenditore che utilizza in modo limitato lavoro salariato, ovverosia un soggetto dotato in parte di capitali produttivi propri e che al tempo stesso possiede un sapere produttivo e organizzativo a volte coniugato a qualche forma di studio tecnico-scientifico.
Ciò che caratterizza in primo luogo questo soggetto sociale non è l'estraneità al lavoro (che connotava il cd operaio massa), ma al contrario è l'identificazione col lavoro che riconosce come parzialmente proprio e che sogna come interamente proprio: <<Il lavoratore autonomo ha l'identificazione col proprio prodotto>>, diceva uno dei rappresentanti più noti delle posizioni che stiamo analizzando, il sociologo Aldo Bonomi, al seminario su "No profit e centri sociali" svoltosi al C.S. Askatasuna di Torino nel gennaio del 1997.
La tensione fondamentale del piccolo produttore cooperante è quella della difesa del proprio spazio produttivo contro l'ingerenza del macrocapitalista committente, nel tentativo di conquistarsi l'indipendenza: per tale motivo la sua collocazione è anticapitalista, nella misura in cui egli difende se stesso dal rischio di essere risucchiato nella concentrazione capitalistica dei mezzi di produzione, è non-capitalista in quanto il suo reddito deriva in misura importante dal proprio lavoro e solo in parte, eventualmente, dallo sfruttamento del lavoro altrui, ma non può sicuramente essere comunista, poiché, a differenza dell'operaio salariato, egli non vive né l'espropriazione totale del proprio lavoro e dei propri mezzi di lavoro e nemmeno quindi la tensione alla riappropriazione collettiva degli stessi.
Mentre la dialettica fondamentale del conflitto sociale diverrebbe sempre più quella tra piccolo produttore cooperante e macrocapitalista finanziario, si assisterebbe ad un declino e ad un forte ridimensionamento del peso produttivo e "politico" della tradizionale figura del lavoratore salariato: innanzitutto per la sua diminuzione quantitativa, in secondo luogo perché la prestazione salariale andrebbe a connotare settori e rapporti di produzione "poveri", marginali, semiservili, e dunque politicamente non interessanti [4].
In terzo luogo il peso produttivo e sociale del lavoro salariato sarebbe fortemente limitato dalle microdimensioni cui tenderebbero le imprese nella rete produttiva: è infatti evidente che la contraddizione di classe salariato-capitalista diviene quasi irrilevante nelle piccole e piccolissime unità produttive (5, 10, 15 dipendenti) per ovvii motivi (comunanza di lavoro tra imprenditore e dipendente, controllo continuo, licenziabilità, adesione del dipendente all'etica aziendale, ecc.); verrebbe così a mancare una delle caratteristiche peculiari del modo di produzione capitalistico, poiché, secondo Marx, <<...la produzione capitalistica comincia realmente solo quando il medesimo capitale individuale impiega allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai, e quindi il processo lavorativo s'estende e si ingrandisce e fornisce prodotti su scala quantitativa piuttosto considerevole>>. [5]
Definito in tal modo lo scenario di quella che tempo fa si sarebbe chiamata la composizione di classe, i teorici di cui sopra riescono ad intravedere in questo lavoratore autonomo, che più correttamente ci piace definire come "piccolo produttore cooperante", un soggetto conflittuale e ricompositivo in vista di un progetto di alternativa societaria certamente molto diverso da quello della tradizione comunista rivoluzionaria: identificato il ceto capitalistico come ormai esterno e parassitario rispetto alla organizzazione della produzione sociale, occorre far si che la transizione al postcapitalismo abbia inizio già da subito attraverso la costituzione di sfere di economia sociale non mercantile che attraggano a sé il maggior numero possibile di produttori cooperanti.
In tal senso è evidente quanto interesse susciti nelle
teorie che stiamo analizzando, l'iniziativa capitalistica centrata
sul terzo settore, del quale vengono lette le finalità
di integrazione e controllo sociale, che si pensa però
possano essere rovesciate e cambiate di segno attraverso l'iniziativa
politica e "produttiva": per usare le parole di
Arsenale Sherwood <<...allo Stato centralizzato non vediamo
altra alternativa se non la creazione di 'autonomie sociali' reali
e diffuse fondate sui principi della cooperazione e dell'autogestione.
Una rete di contropoteri territoriali, in cui il conflitto si
coniuga con la capacità progettuale di costruire nuove
dimensioni societarie. In questo senso anche il concetto
di no-profit, una volta sganciato dalle illusioni utopistiche
e legalitarie che lo rendono compatibile e funzionale allo stato
di cose presenti, legato ad un processo di contropotere reale
e di autogoverno, nel senso precedentemente delineato, può
avere un ruolo importante>>. [6] [grassetto nostro]
2) Una diversa interpretazione delle trasformazioni avvenute
Diversamente dal racconto che ci fanno questi teorici sulla ormai avvenuta disgregazione del modello fordista (con annessa l'idea che la forma-salario sia di fatto residuale) e sulle "potenzialità liberatorie" del cosiddetto lavoro autonomo postfordista [da cui discende l'impegno di tutta un'area politica sulla tematica fiscale, federalista, antiLega e antirazzista], bene, diversamente da tutto questo si vorrebbe sostenere l'idea che la tendenza verso ciò che questi teorici chiamano postfordismo sia molto meno veloce e soprattutto ben più contraddittoria di quanto normalmente si pensi.
In sostanza quel movimento della struttura produttiva che di volta in volta viene chiamato "esternalizzazione", "decentramento", "autoimprenditoria", "desalarizzazione" a seconda del punto di osservazione, che allude alla crescita delle imprese sotto forma di rete di piccole e piccolissime unità produttive, è molto meno univoco e unidirezionale nella realtà rispetto alle rappresentazioni dei teorici di cui sopra.
In effetti ciò che decide del grado di esternalizzazione scelto da una grande/media impresa è la struttura dei costi presenti e futuri rapportata alla lettura del proprio mercato e non certo la tendenza "oggettiva e ineluttabile" verso la produzione in rete. E' sufficiente consultare un dizionario di economia per apprendere che <<...l'impresa (...) sosterrà il costo d'uso del mercato [ovvero esternalizzerà parti o fasi del ciclo produttivo] solo le volte che questo costo è inferiore a quello derivante dalla maggiore complessità organizzativa che il produrre all'interno comporta>> (Enciclopedia Garzanti dell'economia, voce Integrazione verticale, pag, 596).
Ciò che nelle prossime pagine vorremmo sostenere deriva sostanzialmente da quanto qui sopra ricordato: il forte sviluppo della piccola impresa (artigiana) tra la fine degli anni '70 e durante tutti gli anni '80 è stato dovuto in buona parte alla ricerca da parte della media-grande impresa di quei margini di flessibilità operativa e di costo irraggiungibili mediante la produzione interna, nello stabilimento.
Tale ricerca si è cioè tradotta in un forte aumento dei rapporti di subfornitura tra piccola e grande impresa e quindi in un processo parallelo di espansione delle piccole imprese e di ridimensionamento delle grandi.
In questa "operazione" lo Stato ha svolto un importante ruolo di sostegno a livello fiscale: vedi oltre al paragrafo 2.1 un breve approfondimento in materia.
Naturalmente, al centro di questa trasformazione stava il problema (per i padroni) della forte conflittualità operaia e del sistema di tutele giuridiche alla rigidità della forza lavoro (dallo Statuto dei lavoratori alla scala mobile, dal collocamento pubblico con chiamata numerica al sostegno che le correnti classiste della magistratura esprimevano alle lotte dei lavoratori); è probabilmente utile ricordare a tale proposito i livelli di insubordinazione e conflittualità più o meno organizzata che attraversavano allora la grande e media impresa [7].
Anni fà, prima di iniziare a sostenere le sue attuali e poco condivisibili tesi, Marco Revelli insieme a M.Messori aveva descritto lucidamente questa transizione iniziata nella seconda metà degli anni '70 : <<...il processo di valorizzazione bloccato dalla forza operaia nel suo svolgimento materiale di produzioni di merci incorporanti pluslavoro, viene temporaneamente sostituito con profitti puramente finanziari e contabili. Contemporaneamente, l'altra iniziativa [capitalistica] incentrata sul decentramento dell'attività produttiva , da l'avvio ad un processo di aggiramento capace di scavare il terreno sotto i piedi della forza operaia, esaltando la separazione tra frazioni centrali e frazioni marginali della forza lavoro>>. [8]
Il ricorso al decentramento dell'attività produttiva, ovvero la spinta che il grande capitale fornisce in quegli anni alla costituzione di piccole e piccolissime imprese con le quali il singolo capitalista intrattiene poi rapporti di subfornitura, è conseguenza diretta della forza della classe operaia nella grande fabbrica: da una parte mediante il decentramento è stato possibile per i padroni ridurre drasticamente la quantità di lavoratori che sono direttamente a loro subordinati (espellendo così grosse quote di dipendenti, e primi tra questi i compagni ivi presenti); dall'altra nelle piccole e piccolissime imprese si ottengono saggi di sfruttamento più alti che nelle grandi , in virtù della minore forza operaia e del diverso statuto giuridico del dipendente (licenziamento, diritti sindacali, ecc.). All'inizio del paragrafo 3 affronteremo brevemente le caratteristiche normative che definiscono l'impresa artigiana e che le consentono una gestione molto flessibile della forza lavoro.
La situazione attuale è molto cambiata: dopo gli accordi del 92-93 sul costo del lavoro, dopo l'introduzione di figure contrattuali assai flessibili, dopo l'abolizione della chiamata numerica all'ufficio di collocamento, dopo il ricambio generazionale che ha eliminato dalle fabbriche una grossa fetta della vecchia generazione operaia più sindacalizzata [9] (e si potrebbe continuare in questo elenco), la media e grande impresa ha meno necessità di esternalizzare, perché molte risorse di flessibilità (di sfruttamento) ce le ha al suo interno: da qui un fattore di crisi per le aziende piccole-artigiane che hanno visto diminuire i margini di profitto a loro concessi dalle grandi nel rapporto di subfornitura.
A questo fattore, per noi essenziale, legato alla dinamica del costo del lavoro, dobbiamo sommare altre concause che oggi definiscono un quadro di maggiori difficoltà per le piccole imprese subfornitrici: il livello fiscale e l'introduzione degli standards di qualità (vedi qui i paragrafi 2.1 e 3), cosi come il sopravvenire di forme di economie dinamiche di scala che premiano le grandi-medie imprese contro le piccole (vedi il problema del costo delle tecnologie nelle interviste al par.5).
Questo movimento della struttura produttiva si concretizza da un lato nella parziale reinternalizzazione di segmenti del ciclo produttivo che l'impresa madre collocava precedentemente nel proprio indotto di piccole e piccolissime aziende e dall'altro in un processo di razionalizzazione e selezione di tali piccole imprese: a tale proposito rimandiamo alle considerazioni svolte più avanti sul caso di Benetton e della Fiat e alle interviste del paragrafo 5, attraverso le quali si evidenzia una tendenza delle grandi imprese sia a ridurre il numero dei subfornitori e al tempo stesso a favorirne la crescita dimensionale, al punto che queste ultime sono costrette a fuoriuscire dalla categoria dell'artigianato per entrare in quella dell'industria.
A scanso di equivoci, ci preme qui di sottolineare che non stiamo con queste note prefigurando una sorta di tardiva resurrezione di una struttura produttiva incentrata essenzialmente sulla grande fabbrica meccanizzata e di un soggetto sociale altrettanto egemone quale il cosiddetto operaio massa: per ciò che riguarda l'occidente capitalistico quel modello produttivo è superato. Vogliamo però, attraverso i riscontri empirici e le osservazioni di alcuni autori, mostrare la parzialità delle tesi che di fatto sostengono la centralità del lavoro autonomo e la residualità della forma di sfruttamento salariale.
A tale proposito, non sono pochi gli economisti che cominciano oggi ad osservare in modo più critico e attento quelli che fino a poco tempo fà sembravano assiomi indiscutibili sullo sviluppo della piccola impresa e sulla fine delle grandi concentrazioni operaie: tra altri A. Fumagalli, studioso del 'sistema' delle piccole imprese, il quale a più riprese in una serie di recenti interventi ha notato come <<...la difficile congiuntura economica evidenzi una situazione di crisi nel mondo della piccola impresa, in seguito all'affacciarsi di nuove forme di economie di scala e all'aumento del processo di concentrazione tecnologica, produttiva e finanziaria>>. Ma, spiega Fumagalli, ciò non è effetto unicamente della crisi verificatasi nel biennio 93/94; infatti già <<...a cavallo tra gli anni '80 e '90 le grandi imprese tendono a ridurre il numero dei subfornitori e a reintegrare certe fasi precedentemente scorporate>>. [10] [grassetto nostro]. Vedi in nota qualche dato in merito. [11]
Ad esempio, per quanto riguarda il settore tessile, che all'inizio degli anni '80 era stato all'avanguardia nello sviluppo della struttura a rete delle imprese, oggi le tendenze paiono essere opposte, nel senso dello <<...sviluppo della integrazione dell'esternalizzazione produttiva, che porta ad una maggior concentrazione della produzione...>> e della <<...rilocalizzazione delle piccole imprese subfornitrici più prossima alla sede dell'impresa leader>>. [12]
Questa inversione di tendenza, scrive Fumagalli, trova un riscontro davvero significativo <<nel caso della Benetton, [ove] il processo è a tal punto avanzato che questo tipo di rapporto di subfornitura sta per essere totalmente internalizzato grazie alla costruzione di un nuovo stabilimento per più di 3000 addetti...>>. [13] [grassetto nostro]. E' evidente che la grossa rete di subfornitori di cui disponeva Benetton (oltre 600 laboratori artigiani ) verrà fortemente ridimensionata dal nuovo stabilimento che si trova a Castrette, località poco distante da Treviso ed è entrato in funzione sul finire del 1995.
E' interessante a questo punto richiamare un importante articolo di M.Paci del 1975, [14] nel quale il sociologo identifica con precisione il tipo di piccola impresa che proprio in quegli anni comincia ad aumentare il proprio peso in conseguenza dei processi di ristrutturazione e decentramento che si verificano nella grande impresa (piccola azienda da lui definita "ingranaggio") e ipotizza che nel medio lungo periodo si abbia poi un ritorno ad una struttura industriale caratterizzata dalla prevalenza della grande-media impresa e dal ridimensionamento del settore delle piccole imprese: <<...il decentramento all'impresa "ingranaggio" è il sintomo di un processo vero e proprio di destrutturazione di certe produzioni centrali. In tal caso al decentramento definitivo di certe produzione verso il settore periferico si accompagna l'innovazione e la diversificazione della produzione nel settore centrale. (...) Il settore centrale si gioverebbe delle piccole imprese decentrando quelle produzioni che non trova più conveniente mantenere al suo interno nel momento stesso in cui innova e diversifica le produzioni che conserva>>. Ma, sostiene Paci, dietro l'oggettività di queste trasformazioni tecnologiche, si può rintracciare una sorta di <<"...ciclo politico" del Capitale, le cui grandi fasi sono determinate soprattutto dal livello dello scontro di classe e dal grado di maturazione raggiunto dalle avanguardie operaie dei settori centrali: in tal caso la destrutturazione di tali settori centrali e la diversificazione delle basi dell'accumulazione rispondono in prima istanza ad un disegno di repressione e di isolamento delle avanguardie di massa>>.
Soprattutto Paci avanza l'ipotesi che <<...la piccola impresa -esaurita la sua funzione di ingranaggio della ristrutturazione- finisca necessariamente per perdere l'attuale rilevanza rispetto ai settori centrali dell'accumulazione...>>, ipotesi che a distanza di 22 anni dall'articolo in questione ci pare essersi nella sostanza verificata.
Prima di concludere questo paragrafo ci é sembrato interessante fare alcuni accenni al discorso marxiano in tema di concentrazione industriale: come é noto infatti, una delle principali linee di sviluppo del modo di produzione capitalistico individuate da Marx e da lui considerate immanenti a tale sviluppo é quella verso la progressiva concentrazione dei mezzi di produzione e della forza di lavoro ad essi applicata.
Indubbiamente oggi a più di cento anni di distanza dall'epoca in cui Marx formulò tali ipotesi, ci troviamo di fronte ad una realtà produttiva che sembra smentire la teoria marxiana, dovendo osservare come nell'Occidente imperialista si sia assistito ad una massiccio ridimensionamento delle dimensioni delle grandi imprese e ad un processo di sostituzione di manodopera con macchine.
Occorre però far notare innanzitutto come questa idea della
progressiva concentrazione industriale sia rimasta valida perlomeno
fino all'inizio degli anni '70, come si può facilmente
desumere da questa tabella sull'occupazione alla Fiat (sono riportati
i dipendenti del gruppo in Italia). [15]
| 1900 | 50 | 1921 | 16.500 | 1961 | 110.000 | 1970 | 185.000 |
| 1904 | 500 | 1935 | 38.000 | 1966 | 137.000 | 1971 | 182.000 |
| 1906 | 2.500 | 1951 | 71.000 | 1968 | 158.000 | 1972 | 189.000 |
| 1918 | 10.000 | 1960 | 95.000 | 1969 | 171.000 | 1973 | 200.000 |
(A completamento di questa tabella si può osservare che fino all'ottobre 1980, ovvero prima del grande scontro tra padronato e classe operaia Fiat che si risolse nella sconfitta dei 35 giorni, il numero dei dipendenti era ancora attorno alle 170.000 unità). [16]
In secondo luogo occorre soprattutto considerare che, seguendo la nostra ipotesi iniziale, il decentramento e lo sviluppo della piccola impresa nel rapporto di subfornitura con la grande impresa non é solo un fenomeno oggettivo e tecnologicamente "neutrale", ma risponde in buona parte ad una logica politica del Capitale di aggiramento e distruzione delle rigidità operaie.
E' necessario quindi entrare maggiormente nel merito di quelle forze che Marx individuava alla base della tendenza storica verso la concentrazione industriale, al fine di poter dare un giudizio sulla utilità e attualità del suo pensiero in materia.
Marx osserva sostanzialmente tre modalità fenomeniche attraverso le quali la volontà di profitto dell'imprenditore spinge l'organizzazione tecnica della produzione verso la concentrazione dei mezzi di produzione e della forza di lavoro: la prima modalità é legata all'economia nell'impiego di capitale costante (Il Capitale, libro III, cap. 5), la seconda é legata all'incremento della produttività mediante l'aumento della cooperazione lavorativa (Il Capitale, libro I, cap. 11), la terza é connessa alla necessità per il capitalista di aumentare la forza lavoro impiegata, al fine di incrementare la massa del plusvalore estorto, piuttosto che il saggio.
Nella prima modalità funziona il principio delle economie di scala per il quale, in proporzione, l'aumento del capitale costante investito in macchinari é minore rispetto all'incremento della capacità produttiva che ne deriva: <<In una grande fabbrica con uno o due motori centrali le spese relative a questi ultimi non crescono nella stessa proporzione della rispettiva potenza e quindi della rispettiva sfera d'azione; le spese per i congegni di trasmissione non aumentano nella stessa proporzione della massa delle macchine di lavoro che mettono in moto; il corpo stesso della macchina da lavoro non cresce di prezzo nella proporzione in cui aumenta il numero degli strumenti che rappresentano i suoi organi e con i quali essa funziona. La concentrazione dei mezzi di produzione apporta inoltre un risparmio di costruzione d'ogni genere, non soltanto quanto ai veri e propri stabilimenti, ma anche per i locali di deposito, ecc.>>. [17]
Inoltre tale economia non si presenta solo nel rapporto tra valore e capacità produttiva dei macchinari, ma pure nell'altra componente dei mezzi di produzione, ovverosia nelle materie prime, grazie al riutilizzo degli scarti. Dunque il capitalista aumentando il capitale investito in macchinari, aumenta in modo più che proporzionale la capacità e ottiene cosi una diminuzione del costo medio, per unità di prodotto, e al tempo stesso una crescita del saggio di profitto.
Non vi é dubbio che le attuali macchine industriali altamente automatizzate, dotate di tecnologie informatiche, comportano una modificazione anche se non un annullamento di questa tendenza, da Marx individuata, verso la concentrazione: da una parte infatti, mentre attraverso il loro impiego cresce la quantità di capitale costante utilizzato nel ciclo produttivo, non altrettanto cresce l'utilizzo di forza lavoro, che anzi in proporzione decresce. Dunque in primo luogo cresce la concentrazione di capitale costante, ma decresce quella di forza lavoro.
Inoltre l'elevata produttività delle macchine altamente automatizzate può consentire una produzione competitiva anche ad aziende di piccole dimensioni, favorendo lo sviluppo di rapporti di subfornitura e quindi in complesso una tendenza verso il decentramento.
Nella seconda modalità, la concentrazione di mezzi di produzione e di lavoro è il presupposto indispensabile per un aumento del carattere cooperativo del lavoro e quindi per un aumento della sua produttività: Marx qui parla, in una rassegna dei vari aspetti della cooperazione, anche della <<...restrizione dell'ambito spaziale del lavoro, accompagnata dalla dilatazione della sua sfera d'azione, per la quale si risparmiano una gran quantità di false spese (faux frais), che deriva dalla conglomerazione degli operai, dalla riunione di diversi processi di lavoro e dalla concentrazione dei mezzi di produzione>>. [18]
Se ora guardiamo agli esempi concreti di come sono stati strutturati i recenti stabilimenti di Melfi-Fiat e di Castrette-Benetton, vediamo che questa tendenza alla concentrazione descritta da Marx é tuttora operante: infatti in tali grandi fabbriche il capitalista ha costretto i subfornitori, scelti dopo dura selezione, a collocarsi fisicamente in prossimità dello stabilimento-madre, facendone in pratica dei reparti distaccati.
Dunque non appare sbagliato pensare che una tendenza di questo tipo sia ancora operante nella logica di funzionamento del capitale.
Infine la terza e ultima modalità agisce attraverso la volontà del capitalista produttivo di ridurre ed eliminare la "spartizione" di plusvalore che egli compie rispetto ad altre categorie di capitalisti (capitale finanziario, capitale commerciale ecc.): <<Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae direttamente dagli operai lavoro non retribuito e lo fissa in merci, é si il primo ad appropriarsi questo plusvalore, ma non è affatto l'ultimo suo proprietario. Deve in un secondo tempo spartirlo con capitalisti che compiono altre funzioni nel complesso generale della produzione sociale, con i proprietari terrieri, ecc. Quindi il plusvalore si scinde in parti differenti. I suoi frammenti toccano a differenti categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome tra loro come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc.>>. [19]
In effetti è proprio per evitare o ridurre al minimo questa suddivisione del plusvalore e del profitto che quasi tutti i grandi gruppi capitalistici di solito tentano di assorbire istituti finanziari (banche, assicurazioni) e commerciali (catene di distribuzione).
Questa "forza" agisce anche nel caso del rapporto tra macrocapitalista e piccola impresa subfornitrice: cosi come il capitalista può accettare di spartire il plusvalore da lui estorto con altri capitalisti che lo finanziano o che si occupano di commercializzare il 'suo' prodotto, altrettanto egli può accettare, date certe condizioni, di dividere il plusvalore, che potenzialmente potrebbe estrarre dagli operai addetti alla fabbricazione completa di un certo prodotto, con imprenditori assai più piccoli di lui ai quali esternalizza quote più o meno rilevanti di tale prodotto completo.
La "rinuncia" del capitalista a quote di plusvalore si giustifica per 1) un saggio di sfruttamento più alto che la piccola impresa riesce ad ottenere rispetto ad alcune lavorazioni (di solito piuttosto semplici) e dunque un prezzo concorrenziale col quale essa si rapporta al proprio committente, prezzo comprendente una quota di profitto per sè; 2) l'esistenza di nicchie tecnologiche, per via delle quali il grande capitalista trova più conveniente esternalizzare la produzione di un componente del prodotto complessivo, piuttosto che acquistare mezzi di produzione e forza di lavoro per produrre direttamente; 3) l'improvvisa necessità di produrre beni in tempi ristretti a causa di fluttuazioni della domanda.
Venendo però meno certe condizioni (che sono poi quelle che abbiamo cercato di descrivere all'inizio di questo paragrafo), il macrocapitalista trova più conveniente produrre "internamente" ciò che produceva in modo decentrato, aumentando così la quota di lavoro sfruttato direttamente e il profitto ad essa collegato.
2.1) Breve parentesi sulla questione fiscale e previdenziale
L'evoluzione dalla metà degli anni '70 ad oggi delle politiche fiscali e contributive pare, a grandi linee, confermare le ipotesi che facevamo sopra, pur nella discontinuità tra i vari governi succedutisi e nella confusione che ha sempre regnato in materia: ovvero dopo un periodo (all'incirca fino ai primi anni '80) di sostanziale tolleranza dello Stato nei confronti della piccola impresa, la quale come e più della grande può attraversare indenne le maglie della rete fiscale-previdenziale (ed è questo il periodo di forte sviluppo del decentramento e dei rapporti di subfornitura) , dall'inizio e soprattutto dalla metà circa degli anni '80 in poi la piccola impresa subisce il martellamento via via più assiduo del fisco e della previdenza sociale.
Vediamo più nei dettagli: sul versante fiscale, nel periodo 1982-1987 vengono introdotti gli strumenti di controllo delle bolle d'accompagnamento, delle ricevute fiscali e degli scontrini e in particolare nel 1983 essi vengono estesi ai servizi artigiani ; nel 1982 la legge n.816 rende penalmente perseguibile l'evasione fiscale; nel 1985 la legge Visentini ter introduce il regime forfettario per le imprese minori; a partire dal 1989 vengono introdotti i coefficenti presuntivi per l'accertamento induttivo del reddito a carico delle imprese minori (in pratica le tasse vengono pagate sulla base di un reddito che si presume l'azienda dovrebbe avere, sulla base di un certo numero di parametri stabiliti dal Ministero delle Finanze); nel 1992 è la volta della Minimum Tax , un contributo diretto lavorativo del piccolo imprenditore che doveva corrispondere allo stipendio del dipendente (da ricordare che tale provvedimento fu molto contestato dal settore dell'artigianato); infine ricordiamo come tutte le piccole imprese abbiano dovuto durante tutti gli anni '80 fino ad oggi sopportare il peso di crediti IVA che lo Stato non rimborsa.
Sul versante previdenziale va ricordato il regime di straordinario favore che fino al 1980 l'INPS accordava agli artigiani: questi ultimi, con un versamento annuale di 100.000 lire (!), si garantivano una prestazione pensionistica annuale di oltre 2 milioni. Oggi la situazione è molto cambiata e gli artigiani devono pagare contributi previdenziali a partire da 3 fino a 30 milioni e passa annuali .
3) Uno sguardo alla evoluzione della struttura industriale in Emilia Romagna
Vivendo e lavorando in Emilia Romagna ci è sembrato indispensabile andare a studiare l'evoluzione del rapporto tra piccola e grande impresa nella nostra regione; a causa dei nostri limiti di tempo e di conoscenze non siamo stati poi in grado di portare l'analisi su un piano nazionale. Ciononostante crediamo che, essendo l'Emilia una tra le regioni italiane maggiormente interessate dal fenomeno dello sviluppo della microimprenditoria e dell'impresa a rete, sia possibile estendere la validità dell'analisi che facciamo (se essa ha una validità ) all'intero territorio nazionale.
Due tipi di dati sulla struttura industriale nella nostra regione confermano la lettura che abbiamo sopra tentato di delineare: la tabella che segue indica il numero di aziende iscritte all'Albo delle Imprese artigiane . Si tratta di un dato abbastanza importante per capire l'andamento dei rapporti di subfornitura nei vari settori manifatturieri, poiché, come è noto, le piccole imprese che costituiscono la controparte di tali rapporti, sono in massima parte aziende artigiane.
Occorre però, prima di procedere all'analisi dei dati soffermarsi ad osservare le caratteristiche della impresa artigiana che ne fanno la controparte ideale dei rapporti di subfornitura: la legge 443/1985 definisce artigiana l'impresa in cui l'imprenditore, <<...in misura prevalente>>, esercita il proprio lavoro produttivo, con un numero limitato di dipendenti (22 per le lavorazioni non in serie e 12 per le lavorazioni in serie); la forma societaria esclude le società di capitali, anche se recentemente una legge del governo Prodi ha ammesso la forma di società a responsabilità limitata, tra quelle adottabili dall'artigianato.
Inoltre le imprese artigiane possono usufruire di finanziamenti a tassi agevolati erogati dall'Artigiancassa.
Infine, ultima caratteristica, la più importante, è il regime giuridico del rapporto di lavoro dei dipendenti, regolato dalla legge 604/1966: nelle imprese artigiane fino a 15 dipendenti non vige lo Statuto dei lavoratori e non esiste quindi la possibilità della reintegrazione per via giudiziaria del lavoratore licenziato. Cosicché il padrone può in ogni caso, con una indennità che varia dalle 2,5 alle 6 mensilità, disfarsi del lavoratore non gradito: è evidente cosa significa, in aggiunta ad altri fattori negativi, questo fatto in termini di rapporti di forza tra padroni e lavoratori.
| 1975 | 130745 | 1983 | 144631 | 1991 | 134407 |
| 1976 | 130028 | 1984 | 142417 | 1992 | 132280 |
| 1977 | 134115 | 1985 | 138484 | 1993 | 126639 |
| 1978 | 137073 | 1986 | 139386 | 1994 | 125786 |
| 1979 | 141204 | 1987 | 138350 | 1995 | 127292 |
| 1980 | 146075 | 1988 | 137664 | ||
| 1981 | 148457 | 1989 | 136855 | ||
| 1982 | 147573 | 1990 | 135174 |
fonte: Statistiche Regionali, periodico dell'Unione delle Camere di commercio dell'Emilia Romagna, n. 60-1988, n. 81- 1995
| industria manifatturiera | costruzioni | trasporti | attività varie riparazioni
| |
| 1985 | 53421 | 30816 | 17121 | 16650 |
| 1986 | 54332 | 30533 | 17350 | 16789 |
| 1987 | 53744 | 30094 | 17624 | 16873 |
| 1988 | 53325 | 30018 | 17772 | 17006 |
| 1989 | 52975 | 29727 | 17882 | 17032 |
| 1990 | 51792 | 29746 | 18017 | 16848 |
| 1991 | 50584 | 30436 | 18220 | 16882 |
| 1992 | 48711 | 31009 | 18043 | 16739 |
| 1993 | 45567 | 29861 | 17527 | 16271 |
| 1994 | 44774 | 29721 | 17409 | 16118 |
| 1995 | 43804 | 33568 | - | 13399 |
fonte: Statistiche Regionali, n. 81-1995
E' sicuramente curioso l'andamento di queste tabelle, specie per chi affronti la realtà della struttura produttiva con una visuale postfordista: in effetti ciò che si vede è un incremento assai sostenuto nel periodo 1978-1982, seguito da alcuni anni di stabilità, per poi iniziare una lenta discesa verso la fine degli anni '80. La discesa si fa rovinosa infine nel periodo di crisi economica 1992-1994; ironia del destino, nel 1995 in Emilia c'è un numero di imprese artigiane inferiore a quello di 20 anni prima.
Grazie poi alla seconda tabella siamo in grado di osservare come il ridimensionamento del settore artigiano tocchi essenzialmente le aziende manifatturiere e non, come qualcuno potrebbe pensare, i settori dell'artigianato più tradizionale (meccanici, parrucchieri, ecc.). Da notare che l'unico settore in crescita è quello delle costruzioni, a causa delle chiusure delle grandi imprese nel periodo post-Tangentopoli; la polverizzazione della struttura produttiva è qui strettamente connessa alla possibilità di effettuare lavoro nero.
La tabella seguente mostra inoltre, fatto assai importante, che
dalla metà degli anni '80 in poi il peso percentuale delle
imprese artigiane sul totale delle imprese è andato diminuendo:
saremmo di fronte ad un rimpicciolimento di tale settore e
ad un ingrandimento del settore delle imprese maggiori, ovvero
ad una inedita tendenza verso la riconcentrazione industriale.
| 1986 | 43,5% | 1989 | 42,6% | 1992 | 42,1% |
| 1987 | 43,1% | 1990 | 42,5% | 1993 | 41,9% |
| 1988 | 42,8% | 1991 | 42,3% | 1994 | 41,4% |
(dati relativi al giugno di ogni anno; fonte: Statistiche regionali, n. 64-1989, n. 68-1990, n.80-1994)
.
La tabella seguente invece mostra i dati sulle imprese artigiane di Parma scomposti per categoria produttiva dal febbraio 93 al giugno 97: essi riguardano la nostra città e li abbiamo utilizzati, a titolo indicativo della tendenza su un piano regionale, in quanto giungono fino alla data molto recente del giugno di quest'anno.
| Settori | 93 | 94 | 95 | 97 |
| metalmeccanico | 2429 | 2340 | 2167 | 2097 |
| tessile, cuoio,
abbigliamento | 757 | 723 | 634 | 596 |
| legno, mobili | 758 | 744 | 390+455* | 363+419* |
| alimentari | 963 | 900 | 923 | 914 |
| totale del settore
manifatturiero | 5840 | 5268 | 4884 | 4668 |
| costruzioni | 2947 | 2989 | 3542 | 3789 |
| trasporti | 1422 | 1362 | 1306 | - |
| riparazioni auto-moto | 1155 | 1129 | 1126 | - |
(fonte: Camera di Commercio di Parma)
* a causa delle modifiche nella classificazione ISTAT i dati del
95-97 non sono del tutto paragonabili a quelli dei precedenti
anni.
E' chiaro che questi sono dati grezzi e soprattutto riferiti solo all'Emilia Romagna e che quindi si dovrà arrivare ad un maggiore approfondimento, così come è chiaro che la crisi o perlomeno la situazione statica in cui versano le piccole imprese artigiane è dovuta ad almeno altri due fattori, oltre che alla restrizione dei margini di profitto nel rapporto di subfornitura con la grande media impresa: in particolare l'aumento della pressione fiscale e dei controlli correlati e l'introduzione degli standards di qualità europei. Per ciò che riguarda l'aumento della pressione fiscale ribadiamo quanto già detto sopra: mentre durante tutti gli anni 80 le piccole imprese di fatto sono state esentate dal pagamento delle tasse e ciò al fine di favorirne lo sviluppo che serviva alla grande impresa per aggirare le rigidità dentro alla fabbrica, verso la fine del decennio la crisi fiscale dello stato ha imposto la fine di questo regime di favori
Anche l'introduzione degli standards di qualità europei
(ISO 9000/9001/9002/9003/9004) ha comportato per il subfornitore
un aggravamento delle condizioni di rapporto con la grande impresa
committente. Questi standards nascono da due serie di motivazioni:
in primis l'esigenza del grandi-medi capitalisti europei
di sbarrare la strada alla penetrazione selvaggia dei concorrenti
asiatici sui mercati "interni" attraverso procedure
che standardizzano la qualita' finale del prodotto ad un livello
difficile per questi ultimi da raggiungere; inoltre proprio
l'esigenza del capitalista committente di verificare la qualità
dei prodotti che egli acquista dagli anelli precedenti della propria
filiera produttiva [20]. In sintesi gli standards di qualità
impongono l'adozione di procedure documentate ad ogni passaggio
produttivo ed in secondo luogo l'individuazione di responsabili
tecnici, con la dovuta formazione, per ogni momento produttivo.
E' chiaro che per il piccolo produttore queste innovazioni significano
una introduzione di complessità organizzativa assai più
costosa in proporzione rispetto alla grande media azienda.
4) L'occupazione dipendente e le assunzioni
E' evidente che i dati sopra riportati non sono sufficienti a dimostrare l'ipotesi iniziale di un ridimensionamento dei rapporti di subfornitura e di un parallelo incremento della concentrazione industriale: occorre a tale proposito andare a vedere i dati sull'occupazione dipendente, scomposta anche in questo caso per imprese artigiane e per imprese di maggiori dimensioni.
Questi sono i dati sull'occupazione dipendente dell'archivio Inps,
consultati dall'Osservatorio Regionale sul mercato del lavoro,
riguardanti i settori manifatturieri (escluso dunque le costruzioni,
il commercio, i trasporti e i servizi).
| 1988 | 1989 | 1990 | 1991 | 1992 | 1993 | variazione 88-93% | |
| RAMO 2
industrie estrattive, chimiche lavorazione minerali | 55114 | 54227 | 54552 | 56832 | 56802 | 59097 | + 7,2 % |
| RAMO 3
industrie metalmeccaniche | 190315 | 197526 | 201520 | 194136 | 186381 | 183719 | - 3,5 % |
| RAMO 4
industrie alimentari, tessili, cuoio, legno, gomma | 165219 | 164848 | 166599 | 164144 | 158187 | 152406 | - 7,7 % |
(fonte: Rapporto annuale sul mercato del lavoro in Emilia Romagna,
giugno 1995, pag. 165)
Nella tabella seguente lo stesso tipo di dati vengono esposti
con riferimento ai dipendenti delle sole imprese artigiane
| 1988 | 1989 | 1990 | 1991 | 1992 | 1993 | variazione 88-93 | |
| RAMO 2 | 4528 | 4628 | 4751 | 4696 | 4633 | 4592 | + 1,0 % |
| RAMO 3 | 41386 | 43611 | 43285 | 41354 | 39276 | 38493 | - 7,0 % |
| RAMO 4 | 57832 | 58213 | 57260 | 55257 | 51515 | 48485 | - 16,1% |
(fonte: Rapporto annuale sul mercato del lavoro in E.R. giugno
1995, pag.197)
Dal confronto tra le due tavole emerge che le imprese artigiane nel settore metalmeccanico e nei settori alimentare, tessile, cuoio, legno, gomma hanno subito un calo dell'occupazione superiore al calo medio dell'occupazione (nel metalmeccanico la diminuzione è stata del 7,0% contro il 3,5% di tutto il settore, mentre nei settori alimentare, tessile, cuoio, legno e gomma la variazione negativa degli artigiani è stata del 16,1% contro un calo del 7,0% dell'insieme dei settori considerati).
Non disponiamo dello stesso tipo di dati per ciò che rigurda gli anni più recenti. Di certo resta il fatto che le assunzioni n generale non sono in crisi e che dunque sia le grosse che le piccole imprese utilizzano sempre di più lavoro salariato: per ciò che riguarda la nostra città (ci mancano ancora i dati regionali), questa è la situazione:
| anno | totale | part-time | a termine | CFL | a tempo indeterminato |
| 1991 | 28506 | 1251 | 9657 | 3249 | 14349 |
| 1992 | 32476 | 1027 | 9312 | 2960 | 19177 |
| 1993 | 26687 | 1115 | 9051 | 2168 | 14353 |
| 1994 | 30225 | 1312 | 12448 | 2983 | 13182 |
| 1995 | 35445 | 1901 | 13110 | 3498 | 16936 |
| 1996* | 17841 | 798 | 8129 | 2315 | 6599 |
(fonte: Osservatorio provinciale mercato del lavoro)
* i dati sono relativi solamente al primo semestre dell'anno
In sostanza le imprese dopo la crisi del 92-93 sono tornate ad assumere come e più di prima anche se è evidente che la tendenza è quella all'aumento dei contratti a termine sul totale delle assunzioni (precarizzazione).
Anche questo dato va però preso con attenzione : è vero che le aziende utilizzano sempre più lavoratori precari, ma dalle informazioni che possediamo sul settore metalmeccanico, sembrerebbe che una buona parte dei contratti a termine ( 6 mesi, 1 anno, 2 anni) vengano poi alla fine trasformati in contratti a tempo indeterminato : l'ipotesi è quella che in pratica, più che per i cosiddetti "picchi produttivi", l'assunzione di lavoratori a termine sia effettuata con scopi di selezione e soprattutto di "formazione" del personale, tramite il ricatto, la pressione costante, la paura della perdita del posto di lavoro.
Ad avvalorare questa analisi, portiamo l'esempio di una azienda dove alcuni compagni hanno aperto un intervento politico basato sull'autorganizzazione: le Trancerie Emiliane, che sono un'azienda metalmeccanica (lamierini magnetici) con circa 220 dipendenti nell'unità produttiva di Parma e un centinaio nell'unità di Respiccio (PR). Riportiamo i dati della memoria difensiva che le Trancerie Emiliane hanno presentato ad una causa per il licenziamento di un lavoratore con contratto a termine:
<<Presso l'unità produttiva di Parma, dal 1993 ad oggi, sono stati assunti con contratto a termine, 196 dipendenti:
- per 52 lavoratori, al rapporto a termine ha fatto seguito il rapporto a tempo indeterminato:
- 66 di essi si sono dimessi;
- 6 non hanno superato il periodo di prova;
- 4 sono stati licenziati;
- solo per uno, al rapporto a termine non ha potuto seguire un rapporto a tempo indeterminato;
- per 67 il rapporto il rapporto a termine è tuttora in corso, e se la situazione congiunturale lo consentirà, essi potranno rimanere a tempo indeterminato.
Mentre nello stabilimento di Respiccio (PR), nello stesso periodo di cui sopra, a termine 66 dipendenti:
- 30 di essi sono tuttora alle dipendenze della convenuta, con rapporto a tempo indeterminato;
- 20 si sono dimessi;
per 13 è ancora in corso il rapporto a termine:
per 3 dipendenti vi è stata la risoluzione del rapporto.>>
Secondo questa idea, l'interesse del padrone non è tanto quello di avere lavoratori precari, ma al contrario stabili e però legati alla sua azienda, ideologicamente assoggettati, attraverso lunghi periodi di precarietà, alla disciplina e all'etica produttivistica; in sostanza il capitalista ha bisogno di forza lavoro affidabile ed è disposto a concedere al lavoratore la stabilità del posto di lavoro in cambio di tale affidabilità. Ciò non si deve a motivi estemporanei , ma ad una delle conseguenze fondamentali della crescita esponenziale della composizione organica del capitale ( ovvero del rapporto tra capitale investito in macchinari e capitale investito in salari): ogni operaio si trova a maneggiare macchinari, cioè quote di capitale fisso, sempre maggiori e quindi ogni suo errore, ogni imperfezione che egli in vari modi provoca nell'uso della macchina si ritorce in danni sempre maggiori per la sua azienda. Da questo punto di vista sono ancora valide le osservazioni di R.Panzieri sulle trasformazioni della fabbrica e della classe operaia negli anni '60: <<Il capitale ha sempre più bisogno di questa assoluta subordinazione, di questa assoluta riduzione degli esseri viventi, che sono i lavoratori, a puro capitale plasmato dal capitale costante, appunto perché quanto più cresce il valore del capitale costante, tanto più qualsiasi interruzione, qualsiasi modifica, qualsiasi difetto nel suo funzionamento, nel funzionamento delle macchine, mette in pericolo un valore tanto maggiore.>> [21]
5) Interviste
Abbiamo realizzato interviste ad alcuni artigiani inseriti nel ciclo della subfornitura e ad un ingegnere di una grande impresa per approfondire il nostro livello di conoscenza e cercare riscontri positivi o negativi alle ipotesi sopra delineate. Abbiamo riportato e commentato alcuni brani, evidenziando in grassetto i passaggi più significativi.
A livello generale tutti gli artigiani manifestano un certo pessimismo e una certa sfiducia sull'avvenire dei piccoli produttori: <<Il discorso è che a certi livelli non val più la pena fare l'artigiano>> dice B., artigiano costruttore di modelli per gli stampi (0 dipendenti); oppure, come sostiene D., artigiano del settore della plastica (3 dipendenti): <<Io penso che l'artigianato diminuisca in generale, sia in calo, questo però lo dico non come documentazione di fatto con i dati in mano, ma come impressione, proprio perché se si vedono le nascite dei supermercati, delle grossissime aziende che all'interno creano tecnologia, anche che prima non avevano (...) però la stragrande maggioranza degli artigiani piccoli rimarranno artigiani, hanno poco spazio, secondo me>>. L'artigiano C., impiantista (6 dipendenti), entra più nei dettagli e afferma: <<E' questa la grossa diatriba, perché comunque chi vive di subappalto ci può vivere, ma vive e non si espande, perché la ricchezza reale va alla grossa impresa, non viene a noi>>.
Il dato del rapporto con la grande impresa è molto presente in tutte le riflessioni degli artigiani-piccoli produttori cooperanti; sentiamo quindi prima cosa dice l'ingegnere E., tecnico dell'ufficio produzione di una grossa impresa del settore metalmeccanico (800 dipendenti), la quale utilizza tuttora in modo massiccio il lavoro decentrato delle piccole imprese (circa il 60% del suo fatturato proviene da lavorazioni eseguite dai contoterzisti): <<Quindi si è cercato anche noi e si sta cercando tuttora di concentrare i nostri fornitori in un numero sempre più limitato, in modo tale che loro acquistino anche un tipo di legame con la nostra azienda che è poi quello che permette di mettere in atto politiche anche di just in time, se vogliamo, o qualcosa del genere, che altrimenti non è possibile realizzare>>.
Vi è dunque una tendenza innanzitutto alla riduzione del numero dei fornitori; chiaro che questo fa il paio con l'ingrandimento dei piccoli subfornitori: <<E' già successo con tanti fornitori, son passati magari da 100 milioni all'anno per il nostro gruppo, a 200, a 800, fino a un miliardo, due miliardi... Ci sono stati fornitori che sono partiti con un'officina di un certo livello, poi pian piano li abbiamo aiutati a crescere, a crearsi un'organizzazione e adesso sono dei fiori di officina che hanno il nostro gruppo come cliente di riferimento...>>.
Ne risulta che <<...ne abbiamo molto poche di aziende artigiane fino a 15 dipendenti, la maggior parte si porra nella fascia che va dai 15 ai 50 dipendenti; l'artigianato è per noi un riferimento per quelle lavorazioni tipo la torneria tradizionale che in parte teniamo in casa., torni, frese, trapani. Già se andiamo sulle macchine a controllo numerico è difficile trovare l'artigiano che ha 3 o 4 dipendenti, sono aziende abbastanza consistenti: quella dove sono stato l'altro giorno, un'azienda che fa subfornitura per noi, fa conto lavoro, fa 50 dipendenti, e fatturerà 10 o 12 miliardi>>.
Proprio la questione del macchinario e della tecnologia, come accennava l'ingegnere, sembra essere centrale in questa fase del rapporto tra piccola e grande impresa: dice B.: <<Il problema più grosso è di avere la possibilità di comprare le macchine, le macchine ti....chi non ha la possibilità di produrre delle cose particolari, deve fare la quantità e sono la grande maggioranza. Sono il nuovo tipo di proletariato e non è che l'artigiano sia privilegiato rispetto al dipendente, neanche per sogno; il fatto è che 15 o 20 anni fa c'era la possibilità di fare certe cose, cioè comprare delle macchine, comprare delle cose, adesso non c'è più questa possibilità. Chi parte adesso a fare l'artigiano è un pazzo. (...) Perché se uno deve a fare i lavori che fanno tutti gli altri, o hai delle macchine grosse, le macchine all'altezza che hanno gli altri, altrimenti sei morto...>>.
Il problema è che la grande industria fa richieste molto precise in materia di macchine e di tecnologia al proprio piccolo subfornitore. Dice A. fonditore artigiano (7 dipendenti): <<Questa è una verità, loro t'aiutano... però il discorso è questo: ci sono due maniere sempre di mettere le cose; secondo l'ottica di questo ingegnere è giusto, è la verità, non ci sono storie; secondo l'ottica di uno di quegli artigiani che lavorano per quella grande impresa e se ti dicesse la verità, ti direbbe anche che lui è obbligato a comprare un certo tipo di macchine, perciò deve cercare di correre come un pazzo per pagarle poi queste macchine, se vuol mantenere questo lavoro, se vuol farlo, e sperare sempre tutti i giorni, pregare tutte le mattine quando si alza, che questo ingegnere della grande industria non gli venga in mente di cambiare fornitore. (...) Oppure potrebbe succedere che un artigiano ad un certo si trova a non avere lavoro e l'ingegnere della grande industria ti dice, senti vuoi fare della tornitura ? Devi comprare un tornio, non so, della Sacma che faccia questa lavorazione qui in trenta secondi, in un minuto. Questo tornio costa 300 milioni, allora ti attivi, la banca, non la banca, il rivenditore e ti ritrovi col tornio e cominci a fare queste lavorazioni, sempre con la spada di Damocle di quello là che magari ti dice: Bah, non mi servono più !>>.
In materia di richieste tecnologiche, D. racconta una lunga e istruttiva storia del suo rapporto con la Fiat: <<Mi vuoi parlare un po' di questo rapporto con la Fiat ?
- Io non so che dire la verità, son nato così e non vorrei che complicasse alcune cose parlare così.......
Io sono nettamente scontento del rapporto me non solamente il rapporto umano, il rapporto di lavoro commerciale. A noi è successo un fatto alcuni anni fà, noi lavoriamo con la Carrozzeria Suzzarese che è della Fiat ed è a Suzzara. Il rapporto è tra noi e la C.S. ma in realtà è tra noi e la Fiat.
Spero che non complichi davvero le cose parlare così... io spiego le cose e questo delinea tutta la linea che loro portano avanti con gli artigiani.
Due o tre anni fà loro ci hanno fatto una richiesta specifica di un particolare lavoro per dei pullman, ci hanno condizionato con i pagamenti a 120 giorni e noi facevamo 30-35 milioni di lavoro al mese ( era lì che abbiamo superato quel limite che ti dicevo prima con un solo cliente, perché noi fatturiamo circa 70 milioni di lavoro al mese). Quest'ultimo fatto non andava molto bene, però c'era la tranquillità massima dal punto di vista dei pagamenti e c'è ancora. E' successo che fatti alcuni mesi di lavoro ci hanno obbligato ad acquistare uno strumento particolare per il materiale in vetroresina. Fatta una del certa tecnologia, scritto tutto su contratto, dalla mattina alla sera hanno invalidato il contratto perché li costruivano in Cina, noi non abbiamo utilizzato il forno, l'investimento.
Siamo rimasti senza quel lavoro lì, non abbiamo potuto dire niente perché i pagamenti c'erano 120 milioni fermi lì che loro, se noi dicevamo qualcosa, zac, bloccavano i pagamenti delle fatture, per 2, 3, 6 mesi, un anno, non che non li dessero..... Con gli avvocati forti bloccano i pagamenti anche per due anni non solo tre o sei mesi. Abbiamo dovuto stare zitti, ecco l'esempio della pressione e dei ricatti continui che fanno; fanno così con tutti, loro tentano di far fare molto lavoro all'artigiano: ecco perché non vogliamo fare una produzione di lavoro troppo grande, perché sono degli......... Il rapporto umano esiste neanche a parlarne personalmente, neanche a parlarne in sogno. Loro guardano cosa viene fuori dalla produzione, non gli interessa niente dei conticini nostri che sono così, se voi fate questo, noi andiamo incontro a delle problematiche non indifferenti. No, no, basta !!!!
Questo è l'esempio classico del loro comportamento, non solo con noi l'hanno fatto.... tra l'oggi e il domani, se ci lavori anche, non importa. C'era della gente che gli faceva 100 milioni di lavoro al mese, anzi io so bene di gente che ha fatto degli investimenti di 150-200 milioni e poi non li hanno utilizzati, come noi non abbiamo utilizzato lo strumento che costava 20-25 milioni>>.
Dall'altra parte vige anche la costrizione ad aumentare il numero dei dipendenti, come dice C.: <<La costrizioni di avere dei dipendenti è il fatto che tu hai fatto una scelta, che poi non è che la fai, la subisci più che farla perchè nel momento in cui c'è molto lavoro cerchi di avere dei dipendenti..... se ti chiedono di fare certi tipi di lavoro tu cerchi di strutturarti per farli. Potresti dire: No, a me non interessa, sto così, però è difficile anche dire questo>> .
Interessante notare che questa imposizione di tecnologia, di cui parlavamo, che pone di fatto l'artigiano di fronte al dilemma "Ingrandirsi o chiudere", non è solo opera della grande impresa, ma degli stessi rapporti di mercato, modificatisi in conseguenza delle trasformazioni tecnologiche, come dice B.: <<Ci sono dei miei clienti che fanno degli stampi per stampare lamiera, sono tutti e tre a Guastalla, acerrimi nemici, gente che è da trenta anni che fa quel lavoro lì, tutta genta che ha venticinque-trenta dipendenti, non di più, perciò ditte artigiane....
Tempo fa chi faceva lo stesso lavoro non poteva andare d'accordo, perciò nemici, lì nella stessa zona ci sono tre o quattro ditte che danno lavoro a tutti, c'è la Germania che fa cucine e via dicendo..... Ad un certo punto si sono resi conto che c'era una ditta di Bologna che aveva una macchina molto grossa, una delle ultime macchine, quella a controllo numerico con il computer che fa tutto da sola, una macchina che costa un miliardo e mezzo; allora .......esporsi una persona sola di loro per 1,5 miliardi era troppo, una follia giustamente.... si sono messi d'accordo, si sono esposti tutti e tre insieme e si sono comprati la macchina, l'hanno posizionata nel capannone di uno di questi miei clienti, però loro sapevano benissimo quando l'hanno presa che doveva lavorare giorno e notte>>.
L'artigiano fortemente indebitato, per via delle spese in tecnologia, è facile preda delle crisi delle imprese più grosse, (come spiega C.: <<Guardiamo ad esempio in un altro comparto, la Ceci costruzioni di Parma, quando è fallita ha fatto fallire dietro di sè tutta una serie di piccole aziende artigiane, pavimentisti, imbianchini, muratori, perchè lui erano anni che non li pagava, pagava poco, si è trovato con un sacco di soldi da dare, non li aveva nessuno, gente che ci ha rimesso la casa, ci ha rimesso di tutto. Quando succede questo, il fallimento, noi artigiani siamo gli ultimi che prendono i soldi, per cui non li prendi mica più.>>) , ma soprattutto è debolissimo sul mercato e lavora a condizioni di estremo sfavore con la grande impresa, anche per ciò che riguarda i tempi di pagamento delle fatture che ha emesso; come dice F., artigiano metalmeccanico (2 dipendenti): <<Il discorso poi è sempre il solito: se sei ricattabile i pagamenti sono molto lunghi, perciò se tu lavori per pochi clienti oppure fai dei lavori, diciamo, che possono fare tutti, è chiaro che ti impongono...E' chiaro che il gruppo Sasib ti impone come minimo il pagamento a 120 giorni>>.
Ma l'allungamento dei tempi di pagamento tra gli anni '80 e '90 è una forma fenomenica dell'attacco generale che il grande capitale ha portato al piccolo produttore cooperante e tutti ne risentono, come dicono B. e C: come dice B.: <<Indubbiamente c'è un peggioramento negli anni: il discorso è che 20 anni fà il pagamento a 60 giorni era già un pagamento che la gente non voleva.
- E dieci anni fa ??
- Dieci anni fa è cambiata la storia sui termini temporali, alla fine degli anni 80 sono nati gli uffici acquisti delle grandi imprese, perchè prima era una cosa che solo... Per farti un esempio Bormioli Luigi l'ufficio acquisti l'ha fatto 4 o 5 anni fa, aveva l'ufficio vendite, ma non l'ufficio acquisti. In quegli anni lì '88, '89, '90 hanno cominciato a pressare...>>. Sentiamo C.: <<Erano sui 60 giorni, delle volte si faceva 30-60, adesso i 30 sono spariti, andiamo ai 60-90-120-180; la Parmalat pare che paghi anche dopo un anno, tempi di pagamento che vanno sempre più avanti. Mentre nel settore pubblico, almeno per me i tempi si sono ridotti>>.
Anche l'introduzione degli standards di qualità accentua le difficoltà dell'artigiano, come dice B.: <<A questo mio cliente sono andati due volte a controllarlo e due volte non glielo hanno dato e sono spese grosse che tu affronti per avere questi marchi. Questa cosa incide moltissimo perchè obbliga gli artigiani che vogliono lavorare espressamente per una grande industria, che ha il controllo ISO 9000, ad avere delle macchine sofisticate che abbiano anche loro un marchio di qualità>>.
Le condizioni del rapporto con la grande impresa sono tali che chi può cerca di sopravvivere, facendo a meno dei rapporti di subfornitura, come la ditta di C. : <<Se guardiamo al fatturato di quest'anno, sarà 80% clienti nostri e 20% subfornitura, se invece andiamo indietro di 2 o 3 anni il rapporto era inverso, era un 70% per la Frigomeccanica e altri e il resto per clienti nostri>>. Lui stesso è consapevole che si tratta di una pia illusione e di un controsenso per la quasi totalità dei piccoli produttori cooperanti: <<Noi lavoreremo ancora per la Frigomeccanica [una media impresa del settore refrigerazione], però ...la logica specialmente nostra, ma di tutti gli artigiani, anche di quelli della produzione (anche se per loro è più difficile, non potranno farlo), però l'ideale nostro è quello che i clienti siano tutti nostri>>.
A dimostrazione ulteriore delle difficoltà molto grosse degli artigiani c'è tutta la vicenda dell'ultimo contratto dei metalmeccanici, che il padronato industriale ha firmato con CGIL CISL UIL nel febbraio '97, mentre le associazioni degli imprenditori artigiani ancora non firmano. C. ci spiega: <<Perchè durante il rinnovo del contratto dei metalmeccanici artigiani , gli imprenditori prima di dare dieci lire di aumento all'operaio che è lì che la mena? No.... perchè effettivamente [l'impresa artigiana] è compressa.
- Potresti spiegarti meglio ? Infatti ho visto all'inizio dell'anno che le industrie hanno firmato il contratto e gli artigiani no...
- Di fatto, tutti noi siamo metalmeccanici, sia quelli della produzione che gli impiantisti, che gli elettrici: chi frena nei contratti come aumento salariale è la produzione, più che noi, perchè noi comunque, non è che abbiamo più reddito, però abbiamo un lavoro diverso, ci servono delle persone brave, che vadano, che siano contente.
Invece per la produzione è diverso, loro prima di dare un piccolo aumento salariale ci pensano diecimila volte, ma perchè non hanno spazio>>.
In tutti gli artigiani è molto netta la percezione che il problema fiscale è molto grosso e che durante gli anni '80 invece le tasse non le si pagava; dice A. che: <<Una volta era diverso: io ero nella commissione provinciale dell'artigianato e avevo il compito di visionare le denunce dei redditi degli artigiani, lo facevo qui a S. Ilario, ero nel comitato direttivo della Confederazione Nazionale dell'Artigianato (CNA), da cui sono uscito dopo alla svelta anche per ragioni personali...prendevo visione delle denunce, ma diverse denunce ed erano bassissime, da ogni punto di vista, senza giustificazioni, e io avevo vergogna a leggerle e allora io ho scritto subito che non potevo far parte delle commissione perchè non mi sentivo di avvallare...Un artigiano che guadagna oggi 5 milioni non è possibile, in rapporto ai soldi di oggi la cosa era così, non è possibile, oppure la giustificazione è che uno ha perso dei soldi o ha acquistato dei beni talmente costosi da.....Erano bassissime, io avevo vergogna veramente....>> . Mentre oggi <<... ci sono artigiani che prendono meno dei dipendenti, questo è sicuro, meno, meno, meno. Guarda c'è quasi una costrizione all'evasione>>.
L'unica possibilità di sopravvivenza per il piccolo produttore cooperante, come ceto sociale quantitativamente significativo, sarebbe quello di resistere allo Stato e al grande capitale attraverso forme di coalizione che impongano cartelli di prezzo e redistribuzione del carico fiscale. Ma questa possibilità è impedita proprio dalla sua collocazione sociale, artigiano o lavoratore autonomo che sia, il quale oltre alla grande impresa sopra di sé che lo sfrutta , ritrova sempre il proprio simile come nemico e concorrente, come ci spiega D.: <<I piccoli vengono condizionati anche con i prezzi, io ho fatto dei tentativi anche a livello provinciale, di fare qualche riunione [con gli artigiani miei concorrenti] per vedere se riuscivamo a mantenere certi prezzi di mercato proprio concorrenziali, ma abbastanza buoni per garantire un utile discreto alle aziende...
Non son mai riuscito, ecco, perchè le condizioni soggettive di quelli del mio settori li portavano a non essere veritieri e realmente a mettere le carte in tavola come dovevano....Insomma, dal mio punto di vista io non ho niente da nascondere per quanto riguarda il manufatto, io ho tanto di manodopera, tanto di materiale, tanto di utile....Non siamo mai riusciti ad essere... per la paura che uno dopo quando sa i prezzi precisi....proprio per questioni soggettive, personali di sfiducia, insomma e allora ho tentato due o tre volte, ma ho sempre fallito.
- Chi avevi chiamato ?
- Tre, quattro, cinque artigiani del mio settore proprio, allora
io li ho interpellati, si siamo incontrati una sera o due o tre...io
ho tentato anche ultimamente, anzi gli ho scritto una lettera
per fare un incontro di categoria: Cerchiamo di tenere i prezzi
simili ....>>.
6) Conclusioni
La tendenza sul breve medio periodo pare essere quella della diminuzione relativa dei rapporti di subfornitura e al tempo stesso di un assestamento delle dimensioni aziendali delle imprese più grandi, nonché di una crescita di quelle di media dimensione, quindi un seppur lento e quasi impercettibile processo di riconcentrazione industriale
D'altro lato il sistema della piccola impresa (che a rigor di termini "sistema" in realtà non è, poiché si tratta nella grandissima parte di aziende strettamente subordinate al sistema - questo sì - della grande impresa) pare in situazione di stasi, se non di difficoltà: da questo punto di vista sarebbe interessante provare ad osservare le oscillazioni della Lega in quanto canale di rappresentanza privilegiata [22] di questi strati sociali che si attivano politicamente non perché stiano diventando progressivamente sempre più forti e potenti, come spesso si tende a pensare, ma al contrario perché subiscono l'attacco congiunto da parte del grande-medio capitale (sul piano dei rapporti di subfornitura) e dello Stato (sul piano fiscale). Si tratta di una tesi che ci sentiamo di avanzare col massimo della ipoteticità, essendo una deduzione che operiamo a partire dall'analisi svolta sopra: essa permette di leggere la radicalizzazione dell'ultimo periodo del movimento leghista (campagna ultrarazzista contro gli immigrati, passaggio netto dalla tematica federalista a quella secessionista, tentativo di "sfondare" elettoralmente all'interno dei lavoratori salariati -vedi l'attacco frontale alla triplice sindacale-, chiusura ad alleanze con altri partiti) come una reazione attivistica ad una crisi sociale che sta attraversando il soggetto referente della Lega, ovvero il piccolo produttore cooperante. Dunque, dal particolare punto di vista delle radici materiali del fenomeno, la Lega sarebbe destinata ad un ridimensionamento più o meno rapido.
Fuoriuscendo da questo terreno un po' infido delle previsioni politiche e tornando all'oggetto privilegiato delle nostre riflessioni, una conclusione breve e sintetica ci sentiamo di trarla e di sottoporla a chi legge: il Capitale salarizza ancora eccome, e lo sviluppo dell'impresa a rete-lavoro autonomo è un processo che avanza in modo molto più lento e contradditorio di quanto spesso ci viene raccontato.
Da questo deriva la necessità per i compagni di un intervento di tipo politico-sindacale sulla sezione di classe dei salariati che è a tutt'oggi assolutamente non residuale.
Tutto ciò anche se alla oggettiva non-residualità
non fa ancora riscontro un clima conflittuale che parta dai luoghi
di lavoro: ciò è in buona parte dovuto a cause
soggettive, ovvero al tipo di composizione di classe cui ci troviamo
di fronte, la cui analisi però esula dagli intenti del
presente articolo.
Per concludere, un invito: è assolutamente necessario ricostruire un metodo di analisi e studio della società e dei rapporti di produzione capitalistici che si basi su criteri scientifici, per quello che è nelle nostre possibilità. Occorre dotarsi di strumenti e capacità per la ricognizione sociologica ed economica dei fenomeni inerenti la produzione sociale, senza nulla delegare a cosiddetti esperti e pensatori, il più delle volte dichiaratamente collocati su posizioni borghesi e che però spesso vengono utilizzati nel movimento antagonista senza un necessario vaglio critico. E' anche per questo motivo che ci sentiamo di invitare i compagni e le compagne che lo desiderano a costruire momenti di ricerca che possano completare il nostro lavoro per ciò che riguarda le altre regioni italiane.
Qualche indicazione: i dati sulle imprese e sugli artigiani a livello regionale si trovano presso le Camere di Commercio che sono dotate normalmente di bollettini statistici distribuiti gratuitamente (a Parma pubblicano il Bollettino di statistica della Provincia di Parma); ancora più importanti sono le pubblicazioni dell'Unione regionale delle Camere di Commercio (in Emilia si chiama Statistiche Regionali ed è reperibile nella Emeroteca Comunale e nella Biblioteca della facoltà di Economia); il numero di telefono dell'UnionCamere Emilia per informazioni è 051/ 223030.
Per quanto riguarda la occupazione e il mercato del lavoro, la nostra fonte di informazioni sono stati l'Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Parma che pubblica un omonimo bollettino gratuito e l'Osservatorio sul mercato del lavoro della Regione Emilia Romagna che pubblica una serie di testi e rapporti (Rapporto annuale sul mercato del lavoro in E.R.) rintracciabili nelle Emeroteche e nelle biblioteche delle facoltà di Economia. Per informazioni, l'Osservatorio regionale dipende dall'Assessorato formazione professionale, lavoro, scuola della Regione Emilia Romagna.
Importanti e utili, per idee e documentazione in materia di rapporto
tra piccole e grandi imprese, sono le riviste "AltreRagioni"
e "Economia e politica industriale".