Documento sulla bozza Martinotti prodotto dal Coordinamento degli studenti di sinistra di Firenze e dal Collettivo Politico di Scienze Politiche
Regnat avaritia,
regnant et avari;
mente quivis anxia
nititur ditari,
cum sit summa gloria
censu gloriari

Carmina Burana

C'era un tempo in cui spostarsi da un'Università all'altra era il solo modo per fare carriera. Vi era una gerarchia accademica ben definita e si misurava il successo dalla propria posizione su quella scala. Il presupposto era che tutta la gente più valida fosse concentrata in pochi istituti come Harward, Yale, Princeton e per mettersi in evidenza bisognava essere in uno di quei posti...

Il professore va al congresso - David Lodge.

L'ignoranza è forza.

1984 - George Orwell.

La legge 127/97, all'articolo 17 comma 95 delega al MURST la facoltà di emanare decreti per definire l'ordinamento degli studi dei corsi di diploma universitario, di Laurea e di specializzazione.... Questa delega innanzi tutto risulta giuridicamente illegittima, in quanto in contrasto con gli articoli 76 e 33 della Costituzione. Il primo infatti stabilisce che la funzione legislativa non può essere delegata al Governo, e quindi al Ministro, senza la determinazione di tempi, modi e oggetti definiti, mentre questa è una vera e propria delega in bianco. Il secondo, invece, riserva solo alla legge o all'autonomia universitaria la facoltà di disciplinare l'ordinamento degli studi non contemplando la figura del Ministro. Comunque, al di là delle questioni giuridiche, è inaccettabile che una riforma complessiva del sistema dell'istruzione sia attuata attraverso le forme del decreto delegato e non sia il nodo centrale della politica parlamentare! Del resto non è la prima volta che si presentano tali situazioni: il termine ultimo per far pervenire critiche e consigli al Ministero è il 31 marzo, l'approvazione della riforma dell'Università avverrà tra luglio e settembre (cosa consueta in Italia). Una prima richiesta è quella di allargare ora e subito la questione della riforma dell'istruzione in toto ad un dibattito parlamentare che sia il più possibile ampio e che coinvolga in modo più massiccio tutti i soggetti interessati. Di fronte ad un silenzio e a metodi così poco democratici ci chiediamo quale sia il significato di espressioni come controllo dal basso, che gli estensori della bozza Martinotti usano con riferimento all'autonomia, rispetto al controllo dall'alto dei passati interventi sull'Università. Forse la democrazia che invece si intende, è quella "funzionalistica" che vede in questo caso il coinvolgimento esclusivo di soggetti istituzionali decentrati che riferiscono al ministro circa la bontà o meno dei provvedimenti, tagliando fuori la componente studentesca se non quella (anche essa funzionale) di area governativa che sembra quasi creata ad hoc …(UDU). Il documento Martinotti ci presenta un complesso quadro d'intervento, ma ammette del resto di non aver adottato una prospettiva di riforma organica od ordinamentale dell'intero sistema universitario bensì prevede una strategia a mosaico: si va sostanzialmente verso un'autonomia totale in cui il sistema universitario italiano avrà solo dei requisiti minimi comuni. Ammettendo candidamente che il sistema ha trovato i suoi equilibri interni che corrispondono ad interessi costituiti celati dietro principi obsoleti e che non si può proporre un ridisegno complessivo, si preferisce la strada di una pluralità di interventi parziali che lasciano irrisolti i problemi sostanziali che affliggono l'Università italiana. Nell'analisi che segue, il nostro discorso si struttura in due piani complementari. Il primo dei due investe il progetto Martinotti nel suo complesso: è una critica politica fondata sulla percezione che il modello universitario proposto istituzionalizza e legittima una volta di più disvalori come la competizione assoluta, la quantificazione di ogni qualità, la pervasività di un mercato che brucia ogni socialità. Ma se la nostra critica si fermasse qui rischieremmo di cadere in un enorme equivoco; qualcuno potrebbe infatti credere che volessimo legittimare la situazione attuale e sarebbe quasi facile accusarci di rifiutare le riforme nell'attesa di una utopica perfezione. Riteniamo al contrario che ci sia molto da lavorare sull'argomento e che, se non altro, il documento Martinotti abbia il merito di individuare tematiche degne di rilievo. Dall'esigenza di chiarire tutti i motivi di un'opposizione così netta, scaturisce il secondo piano dell'analisi: ci proponiamo infatti di portare alla luce le numerose contraddizioni intrinseche al progetto, che si presenta come efficientista e che fa di un efficientismo economicistico il suo principale motivo di vanto. Pensiamo - nel seguito - di riuscire a dimostrare come questo efficientismo sia eccellente solo in teoria e sottoposto ad ogni sorta di smentita nella pratica: un sistema inefficiente guidato da disvalori produce a nostro avviso effetti perversi il cui controllo rischia di sfuggire dalle mani degli stessi apprendisti stregoni che lo hanno progettato. La contrattualità è il primo punto che il documento affronta e costituisce il principio cardine, il fondamento su cui si basa tutto il progetto di riforma. Secondo il gruppo di lavoro questo principio costituirebbe lo strumento per sostituire il rapporto quasi - fiscale della passiva iscrizione con un meccanismo che, fondandosi su un accordo bilaterale a prestazioni corrispettive tra il singolo studente e l'Ateneo, avrebbe il compito di obbligare entrambe le parti alle condizioni previste dal contratto. Prima di affrontare le conseguenze di carattere pratico, bisogna fare una considerazione di carattere generale: quella del continuo e progressivo disimpegno dello Stato dall'Università. Affermare la contrattualità significa innanzi tutto negare il principio dell'Università come servizio pubblico; l'interesse dello Stato alla nostra istruzione (per altro anche oggi sempre più flebile) lascerà il posto all'investimento del singolo sul proprio futuro. La contrattualità presuppone un rapporto a due, di conseguenza lo Stato, che a questo sodalizio non è stato invitato, avrà sempre meno obblighi e responsabilità. A tale riguardo esiste innanzitutto una contraddizione "esterna": l'istituzione della contrattualità si fa risalire alla necessità di responsabilizzare lo studente ed evitare che i costi di una sua permanenza troppo prolungata nell'Università siano sostenuti dal complesso dei contribuenti, molti dei quali non possono nemmeno usufruire direttamente del servizio, vista l'attuale composizione sociale della popolazione studentesca. Riconosciamo la gravità dell'attuale situazione, ma riteniamo che il principio contrattuale non sia adeguato a risolverla e che potenzialmente rischi di aggravarla: se responsabilizzazione dello studente deve essere, essa deve essere nei confronti della società. Ci sfugge la logica secondo la quale un ateneo, ente autonomo per definizione, in regime di competizione nel mercato accademico e quindi portato a massimizzare i propri profitti, possa essere preso a rappresentare la società. Il contratto di cui si parla, si configura come un accordo tra due soggetti (ateneo - studente) al quale si vorrebbe affidare la responsabilità di provocare benefici in capo a un terzo (la società). Tutto ciò ci sembra quantomeno paradossale. Il discorso si fa anche più complicato quando dal principio scendiamo su un piano più concreto, laddove siamo costretti ad immaginare quali possibili risvolti pratici possa comportare questo contratto. Riguardo a questo aspetto il gruppo di lavoro è rimasto volontariamente vago, limitandosi ad affermare che questo strumento rivaluta il ruolo [...] degli studenti quali soggetti attivi adulti. Si apre invece la strada ad una serie di contraddizioni intrinseche alla logica stessa che guida il progetto. La prima è una contraddizione tra parole e fatti: se lo studente viene visto come "contraente", qualora la facoltà non gli garantisse dei servizi consoni alle sue aspettative, egli dovrebbe essere messo in grado di pretendere che l'offerta per cui ha firmato e pagato sia effettiva. Ciò che possiamo fare è porci due domande: - Potremo pattuire le singole condizioni del contratto o la nostra sarà una mera adesione ad uno schema contrattuale le cui condizioni saranno stabilite unilateralmente dall'Ateneo come una compagnia di assicurazioni? - Quali strumenti avremo per pretendere dall'Ateneo le prestazioni alle quali si era obbligato? Esiste poi una contraddizione tra fini dichiarati ed effetti: dal documento Martinotti non risulta chiaro né quali siano i parametri né cosa possa fare lo studente per esigerne il rispetto (a parte recedere dal contratto!); ma una cosa si evince con estrema chiarezza: l'inserimento del principio di contrattualità comporterà sforzi ancora maggiori per gli studenti. Al momento dell'iscrizione essi saranno messi di fronte ad una scelta sul percorso che seguiranno. Da questo momento potranno, o meglio dovranno, correre lungo la strada prescelta senza voltarsi, senza guardarsi intorno, senza criticare, come dei perfetti "automi". In sostanza se a parole lo studente diventa soggetto attivo, nei fatti si accentua la sua passività. Altre domande: - Quali sono effettivamente le condizioni e le materie contrattabili? Si tratta solo di decidere se fare gli studenti full-time o part-time o "contrattualità" è un mezzo per accordarsi anche su tasse, percorsi di studio etc....? - Se "contrattualità" significa un accordo bilaterale con prestazioni corrispettive da entrambe le parti e se è ammissibile immaginare che non potrà esistere un diverso contratto per ciascuno studente, chi saranno effettivamente le due parti che decideranno la tipologia dell'accordo? - Ci saranno anche le rappresentanze studentesche a stabilire le condizioni dei contratti o solo l'Ateneo avrà diritto di veto? - Che ruolo avranno gli studenti soggetti attivi adulti nella gestione delle scelte dell'Ateneo? Se nel caso della contrattualità la riforma prospettata ci appare potenzialmente dannosa per gli effetti perversi che potrebbe innescare, sui punti successivi ci troviamo a dover distinguere tra effetti analoghi e paradossale istituzionalizzazione dello stato attuale delle cose, ovvero dove il documento parla di pluralità delle offerte, di diversificazione competitiva e di mobilità delle risorse umane. Per quanto riguarda la pluralità delle offerte gli studenti sono divisi in due blocchi con un colpo d'ascia: coloro che frequentano a tempo pieno e gli studenti che intendono conseguire il titolo di studio senza un termine preciso di tempo, ovvero in tempi dilazionati. Uno degli obiettivi dichiarati del documento Martinotti è la risoluzione del problema dei fuori-corso. La soluzione geniale consiste nell'eliminare il fuori-corso eliminando scadenze temporali al corso degli studi. Così, con un gioco di parole, gli studenti fuori-corso si chiameranno studenti part-time!! Gli estensori del documento Martinotti ricordano molto un film di Woody Allen, nel quale il dittatore dello stato libero di Bananas proclama che "da oggi in poi, ogni cittadino con meno di sedici anni... avrà sedici anni!"... Quando il potere dà alla testa... Visto che la realtà è più complessa di quella delineata dal gruppo di lavoro, dobbiamo fare altre domande: se uno studente si iscrive full-time, può successivamente cambiare tipo di contratto? Oppure si suppone che il diciottenne neomaturato conosca in anticipo il proprio futuro? E poi la domanda fatidica: cosa può accadere allo studente che non rispetta il contratto? Aumentano le tasse? Ricontratta? Abbandona gli studi? Lo rottamiamo? Dalla stessa idea di disimpegno dello Stato scaturisce il principio della differenziazione competitiva degli Atenei. A riguardo si afferma che il termine competizione non può avere lo stesso significato che gli si attribuisce nel linguaggio economico che regola i rapporti tra le imprese. Questo perché all'oggi mancano le condizioni per un vero mercato accademico. Ciò significa che, secondo la commissione, nel breve periodo non si può avere un vero e proprio mercato chiuso, ma nel lungo periodo è auspicabile che sia così. Come facciamo allora a non leggere questo principio in chiave economicistica? Ovviamente contestiamo il principio perché riteniamo che la ricerca e l'insegnamento non siano beni mercificabili e valutabili in termini di mercato. Ma per non sembrare superficiali ci preme sottolineare che ancora una volta si gioca con le parole: la concorrenza di mercato con le sue garanzie - il liberismo insegna - si verifica in presenza di un numero "grande", sia di produttori che di consumatori. Visto che le Università non spuntano come funghi, sarebbe più onesto da parte degli estensori del documento parlare di differenziazione oligopolistica tra atenei. Una situazione cioè in cui le garanzie sono tutte a favore dei produttori: gli atenei stessi e chi ne gestisce il budget. Ci permettiamo inoltre di suggerire che, visto che tra gli atenei non esiste nemmeno un'uguaglianza di partenza, il processo di polarizzazione oligopolistica delle risorse precipiterebbe in tempi brevi attorno ad un numero assai ristretto di Università ed in modo sostanzialmente irreversibile. Ipotizzando comunque che sia realistica l'ipotesi concorrenziale, ad essa si affida il compito di risolvere il problema della scelta dell'Università. Qui entra in gioco quello che viene definito il principio di mobilità delle risorse umane: lo studente deve smettere di scegliere l'università sotto casa e deve invece scegliere quella che offra il percorso formativo più rispondente alle proprie aspirazioni. E' un passaggio delicato, questo, ed è facile cadere in equivoci. L'idea ovviamente è positiva per molti motivi comprensibili a tutti. Ma come ammettono gli stessi estensori, esistono una serie di vincoli sociali come la distanza fisica, i costi, etc.: mancano cioè, in Italia, tutte quelle infrastrutture (mense, alloggi) e quelle politiche (economiche, tariffarie, sugli affitti) che garantiscano effettivamente il Diritto allo Studio Noi riteniamo quindi che in assenza di una preventiva seria politica di Diritto allo Studio, solo un'élite economica assai ristretta e non necessariamente meritevole potrà frequentare le Università più prestigiose lontano da casa. Occorre fare attenzione perché è facile sentirsi obiettare: intanto avviamo il processo, poi saranno prese le misure necessarie a completarlo. Tale affermazione, se usiamo un po' di logica, risulta assurda, perché è assurdo - se vogliamo ottenere un buon risultato - avviare un processo complesso prescindendo dai presupposti necessari alla sua realizzazione. Un tipico esempio può essere la preparazione della pasta: 1-salare l'acqua in ebollizione, 2- buttare la pasta, 3- scolarla. Con un buon sugo, questo è un processo che ci permette di cenare bene. Ma se noi invertiamo l'ordine delle parti: 1-Buttare la pasta nell'acqua in ebollizione 2- scolarla, 3- salare l'acqua otterremo una pasta insipida ed un inutile pentola di acqua salata. In un processo complesso cambiando l'ordine dei fattori il risultato cambia, e cambia in peggio!!! I provvedimenti per la mobilità studentesca creano opportunità se applicati con rigorosi criteri di precedenza per le garanzie al Diritto allo Studio, ma creano stratificazioni classiste e dissipazione di risorse se l'ordine viene invertito. Inoltre, mobilità delle risorse umane significa anche mobilità dei docenti: si va verso l'abolizione della titolarità dell'insegnamento. Questo cambiamento porta con sé due conseguenze che meritano di essere valutate: da una parte è vero che potrebbe diminuire il potere dei baronati attuali. Non è però certo che non se ne ricostituiscano altri in nuove forme legati ad un futuribile "mercato" dei crediti (v.oltre). Un secondo aspetto è la problematica aperta dalla figura dei professori a contratto: si crea a nostro giudizio il rischio che gran parte degli studenti venga gestita da questi ultimi, che potrebbero provenire dalla Confindustria, dagli ordini professionali, dalla ASL, dai tribunali, dalle Regioni, dalle Camere di Commercio, dalla Difesa, dalle banche, etc. Con la possibilità degli stage, dei tirocini e di qualsiasi esperienza lavorativa al terzo livello, si creerà anche la figura dello studente part-time al contrario. Tutto ciò va tristemente a discapito della preparazione culturale. Inoltre, con l'ingresso nel sistema formativo delle suddette figure esterne all'Università, cui viene "regalata" l'attività pratica degli studenti, si va di fatto verso una confusa privatizzazione. Il documento Martinotti in secondo luogo illustra quali devono essere le principali linee di intervento, ovvero i più immediati e pratici provvedimenti da adottare: il primo di questi riguarda l'applicazione dei crediti didattici nel sistema universitario. I crediti sono stati introdotti nel nostro sistema dalla legge 341/90 che subordinava alla totalizzazione di una somma di crediti, non inferiore a quella stabilita per legge per i singoli corsi, l'ammissione dello studente all'esame finale del corso di studi (laurea, diploma...). In pratica, i crediti didattici sono valori numerici associati alle unità di corso aventi lo scopo di quantificare l'onere di studio necessario per sostenerle. Pur riconoscendo che esiste una generale esigenza di "elasticizzare" il curriculum (per facilitare i raccordi e gli scambi tra i vari percorsi universitari, favorire la semplificazione delle procedure di riconoscimento degli esami sostenuti all'estero e sostituire al concetto di frequenza obbligatoria quello della frequenza finalizzata), riteniamo che i crediti delineati da Martinotti siano una risposta fuorviante. L'ennesimo equivoco nasce dal fatto che in alcuni casi recenti si è chiamato "accreditamento" ciò che in realtà è la modularizzazione, ossia la possibilità di "scomporre criticamente" alcuni corsi. Tale sistema - almeno in astratto - consente di adeguare il valore legale di una materia al suo peso effettivo. Ma secondo il Gruppo di lavoro Martinotti questo è definito da unità di misura standardizzate (?) che devono riflettere la quantità di lavoro totale che ciascuna unità di corso richiede in relazione alla quantità totale di lavoro necessaria nell'istituzione per completare un anno accademico di studio, comprese le lezioni, il lavoro sperimentale e pratico, i seminari, i tutorial, gli elaborati, i tirocini, gli stage, lo studio individuale, le tesi, gli esami e le altre attività di valutazione. L'esperienza conoscitiva dello studente assume così solo aspetti quantitativi, tralasciando totalmente la qualità dell'oggetto studiato e dello studio stesso. In altre parole si confonde grossolanamente la Cultura con la quantità di nozioni apprese e di carico didattico affrontato. Del resto il mercato, verso il quale l'Università si dirige, non sembra avere alcuna intenzione di accogliere una dimensione etica o qualitativa del sapere e, potendo metabolizzare solo elementi quantitativi, costringe l'Università ad esprimersi in termini esclusivamente numerici. L'appiattimento dell'Università sui criteri quantitativi del mercato (tempo di studio, numero di pagine, etc...), unica possibilità strutturale di convivenza tra i due, rischia di soddisfare peraltro l'esigenza di alcuni docenti di mascherare la mediocrità della propria didattica. Volendo applicare il criterio a tutti i settori disciplinari, inoltre, il gruppo di lavoro Martinotti trascura il fatto che esso può tecnicamente funzionare laddove esista una tendenziale omogeneità tra gli argomenti dei corsi, ma perde totalmente di significato se applicato a corsi afferenti a discipline diverse e, quindi, non sempre intercambiabili: tre mele più tre patate non fa né sei mele né sei patate, ma sempre tre mele più tre patate. Al di là del modo parziale con cui viene affrontato il tema del peso effettivo di una materia, il problema è che il credito didattico diventa lo strumento per abolire il valore legale del titolo di studio che viene sostituito con una certificazione a posteriori del numero totale dei crediti acquisiti, basata su tre criteri: valore culturale del titolo proposto (chi lo decide?), sua rispondenza ad esigenze sociali od economiche (quali? e di chi?), adeguatezza delle risorse (adeguatezza a che cosa? e di quali risorse? è un errore di stampa?). A riguardo ci preme fare una allarmata considerazione: non potendo più avvalerci del titolo di laurea scelto, ma solo di singole materie di un piano di studi improntato alle esigenze del mercato del lavoro, paventiamo una pericolosa omologazione culturale. Ci piace, in conclusione, analizzare l'aspetto più terrificante di tutto il progetto di riforma, pur consapevoli di non poter, in questa sede, approfondirne tutte le implicazioni, che hanno uno stretto legame con i processi di trasformazione economica in atto. E' però certo che, guardando all'intero percorso - vita dello studente come proposto dagli estensori del progetto, sembra di entrare in un racconto di R. Bradbury. Se finora abbiamo cercato di ragionare presupponendo una buona fede almeno di facciata del gruppo di lavoro Martinotti, su quest'ultimo punto la cosa ci risulta veramente difficile: diploma, C.U.B., laurea, scuola di specializzazione, dottorato, master... sono le tappe "vincendo" le quali si possono guadagnare posizioni nella classifica del prestigio e dell'incasso. Esse paiono disporsi in parallelo od in serie grazie ad un ulteriore estensione della funzionalità dei crediti sulla sensatezza della quale è lecito dubitare. Non ci sfugge tuttavia una volontà di fondo degli estensori di impostare il percorso in modo selettivo: una selezione che, per le ragioni che abbiamo già esposto nei paragrafi relativi alla contrattualità ed alla mobilità studentesca, assume una forte impronta economica e (lo possiamo dire?) classista. Il livello realmente qualificante è infatti il terzo (master, dottorati, scuole di specializzazione), cui si accede dopo quattro anni di studio (se si è fatto un contratto a "full-time", altrimenti anche di più), dopo test di ingresso, dopo milioni sborsati per il contratto, per i libri di testo e per il mantenimento. Da questo stretto collo dell'imbuto usciranno le "gocce" più pregiate - secondo i già citati tre criteri - che riprodurranno la classe dirigente. Una creatura nuova di zecca della quale proprio ci sfugge l'utilità (è forse un tentativo di depistaggio?) è il C.U.B., non finalizzato ad una specifica professionalità e che può essere comune ad una pluralità di lauree, pur offrendo un minor numero di crediti per ogni esame sostenuto rispetto alla laurea stessa. Quest'ultima, a sua volta messa in mezzo ad un diploma professionalizzante e ad un terzo livello di "alta cultura", appare svuotata di ogni significato. Ma non è finita qui: poiché la cultura è bene deperibile, il gruppo di lavoro ha pensato bene di rispedire il lavoratore - i cui crediti formativi siano oramai logori - a studiare di nuovo, per rinverdire la sua preparazione. Questa è quella che si chiama formazione permanente, l'ennesima prova richiesta dal mercato del lavoro a quelle che fino ad oggi si sono chiamate persone. Insomma il messaggio base è che l'Università non deve essere niente di più che un hobby. Chi proprio insiste nel voler fare il medico o l'ingegnere deve accedere alla scuola di specializzazione o dottorato (etc.), dove finalmente studierà chirurgia o scienza delle costruzioni con intenti professionali. Pagando...s'intende. . La critica che noi muoviamo alla riforma proposta dalla commissione Martinotti ha accenti marcatamente politici, perché è essa stessa politica, viene dalla "sinistra governativa", ma è una sinistra "impropria", che si accontenta di esprimere con parole sue idee ed aspirazioni che non le dovrebbero appartenere: la competizione, la contrattualità, il mercato, sono le parole magiche che dovrebbero cambiare tutto senza cambiare niente, perché Martinotti e i suoi escludono a priori che si possa colpire il groviglio di interessi illeciti che strangolano l'Università pubblica. L'unico modo per riformare il pubblico è privatizzarlo o estendere ad esso il modello aziendale, principi già attuati in diversi settori, dalla sanità ai trasporti alla previdenza sociale e che, immancabilmente, vengono estesi all'insegnamento universitario e alla ricerca scientifica. Se dietro a questa idolatria del mercato ci sia una sincera adesione della commissione redattrice ai dettami del neo liberismo oppure solo una paurosa carenza di idee, non spetta a noi dirlo, certo è che la resa incondizionata dello Stato avvantaggia poteri forti e toglie alle fasce più deboli ogni arma di difesa economica e culturale. Il modello di studente universitario che il progetto di riforma ci propone è un homo homini lupus che si sbatte per trovare i soldi, per accumulare crediti e per difendere la spendibilità del proprio curriculum, il tutto in assoluta solitudine, perché, in simili condizioni, la solidarietà tra chi proviene da esperienze differenti non può esprimersi in forma matura. Siamo consapevoli che non si tratta di una svista, di un effetto collaterale non previsto: la perdita delle garanzie sociali e l'insicurezza che ne deriva sono condizioni necessarie all'affermarsi di quella forma di capitalismo aggressivo che va sotto il nome di "globalizzazione". E' finita l'epoca in cui anche "l'operaio vuole il figlio dottore", ma non perché i ceti più deboli si siano emancipati nei confronti del sapere - potere accademico, bensì perché, con Berlinguer (ma anche senza), la formazione post-secondaria torna ad essere roba da ricchi.

COORDINAMENTO DEGLI STUDENTI DI SINISTRA DI FIRENZE