LA SITUAZIONE ECONOMICA ATTUALE
A livello mondiale
I processi in corso stanno delineando con sempre maggiore
evidenza la costituzione di tre regioni fortemente integrate dal
punto di vista economico-finanziario. La prima è l'area del
dollaro che coinvolge USA, Canada, America Latina con accordi
commerciali locali come NAFTA e MERCOSUR. Vi è poi l'area del
marco che, tramite l'Unione Europea, dovrebbe estendersi a tutto
il vecchio continente. Infine abbiamo l'area dello yen,
costituita da Giappone e paesi dell'Asia Orientale.
Fino ad oggi sono rimaste tagliate fuori da questo processo
alcune zone del pianeta (territori ex URSS, Africa, Asia Nord
Occidentale, Medio Oriente). Mentre sulla scena economica si
stanno affacciando alcuni paesi che, in virtù della grande
dimensione del loro mercato interno e grazie al basso costo del
lavoro, rappresentano dei possibili futuri poli di sviluppo: Cina
e India.
Il fatto nuovo è dato dal crollo finanziario e monetario dei
paesi emergenti dell'Asia orientale: Thailandia, Hong Kong, Corea
del Sud, Indonesia, Singapore e Malesia. Le conseguenze di questi
avvenimenti si faranno sentire direttamente sulle popolazioni di
quei paesi, visto che in quelle borse sono state bruciate
ricchezze per molti miliardi di dollari.
Ma la situazione più preoccupante è quella del Giappone, il cui
sistema finanziario è sull'orlo del collasso, minato alla base
dalla caduta del valore dei patrimoni immobiliari (le cui
quotazioni, in passato, erano arrivate a livelli irreali) e
duramente intaccato da una corruzione endemica (la perversa
triangolazione tra grandi imprese, funzionari ministeriali e
mafia). Le banche e le assicurazioni giapponesi oggi non sono in
grado di reggere la competizione con i loro concorrenti esteri,
soprattutto americani, e questo proprio in un momento in cui le
pressioni per l'apertura del mercato finanziario giapponese sono
più forti che mai.
L'eventuale crollo del sistema finanziario giapponese avrebbe
serie conseguenze anche su istituti di credito di altri stati
(specialmente inglesi e americani) e comporterebbe un
"effetto domino", portando la crisi nei mercati
finanziari di tutto il mondo.
Nuovi Equilibri nella Vecchia
Europa
Anche se nei principali paesi europei si sta diffondendo la
speranza di essere all'inizio di una fase di ripresa economica,
il fenomeno che continua a dominare le economie europee è
l'elevato livello della disoccupazione, diffusa un po' in tutto
il vecchio continente. Quello che è grave è che ormai tutti gli
analisti concordano sul fatto che neanche una eventuale ripresa
economica sarebbe in grado ricondurre la disoccupazione ai
cosiddetti livelli fisiologici (peraltro così definiti da
professori che avevano il posto garantito!).
L'esplosione del numero dei senza lavoro in Europa, che i padroni
attribuiscono alla cosiddetta rigidità del lavoro, va in realtà
attribuita per lo più alla concorrenza delle imprese che operano
nei paesi del terzo mondo, dove il lavoro - e, per la verità,
anche la libertà personale - spesso non gode di alcuna forma di
tutela. Non dimentichiamo però che a investire in questi stati
sono società dei paesi industrializzati, che evidentemente
preferiscono operare dove non esistono leggi e organizzazioni
sindacali in grado di ottenere una qualche garanzia per i
lavoratori.
Appare sempre più chiaro che l'Unione Europea che si sta profilando è, in buona parte, quella del capitale e dei capitalisti. Accentuazione degli aspetti monetari, enfasi posta sulla abolizione delle barriere commerciali nazionali, de-regolamentazione di molti settori, privatizzazioni: sono fenomeni che, anche se non specificatamente pensati contro i lavoratori, hanno spesso conseguenze negative nei loro confronti.
Vi è tuttavia un altro elemento che influenzerà direttamente
la situazione delle classi lavoratrici europee: la competizione
per il dominio dei settori economici più innovativi (e quindi
più redditizi), che è già in corso tra i vari sistemi-paese.
Tra i principali comparti di sviluppo economico vi sono:
l'energia;
le telecomunicazioni;
le bio-tecnologie;
la finanza.
Questa lotta altro non è che il proseguimento del processo di
divisione internazionale del lavoro, le cui conseguenze, come
sappiamo, sono state lo spostamento delle produzioni a basso
valore aggiunto verso i paesi più deboli.
Ma vi è un settore che riveste un valore tutto particolare: i
servizi finanziari. Lo dimostra il fatto che proprio in questo
comparto stiano avvenendo i più grossi processi di
concentrazione, presupposti alla creazione di conglomerati in
grado di portare avanti la competizione in tutto il mondo. Ed è
proprio qui che lo scontro tra i sistemi-paese sta attraversando
una fase particolarmente aspra. La "battaglia di
Francia" per l'acquisizione del gruppo assicurativo Agf,
ingaggiata tra l'italiana Generali e la tedesca Allianz, è solo
un episodio di una serie impressionante di acquisizioni e fusioni
che hanno caratterizzato il panorama bancario e assicurativo
europeo. La posta in gioco è il controllo di una "materia
prima" di importanza determinante per lo sviluppo economico:
il risparmio.
Lo sviluppo dei settori a più alta tecnologia richiede massicci
investimenti, quindi solo le nazioni che riusciranno a gestire
ingenti masse finanziarie potranno costruirsi strutture
economiche di successo.
In questo contesto assumono particolare importanza i rapporti
di forza in essere tra gli stati europei. L'esistenza del
"direttorio" franco-tedesco nel processo di
unificazione europea consente alle imprese di quei due paesi di
godere di una posizione di vantaggio ai danni, tra gli altri,
delle imprese italiane.
Una eventuale emarginazione dell'Italia nel settore finanziario
avrebbe, come prima e immediata conseguenza, l'aggravamento della
crisi per le banche e assicurazioni italiane, che scaricherebbero
sui lavoratori l'onere della loro incapacità a competere
(licenziamenti, disdetta dei contratti, ecc.). Sul lungo periodo
le conseguenze potrebbero essere più gravi, poiché l'Italia non
sarebbe in grado di utilizzare il risparmio delle proprie
famiglie per investimenti diretti nei settori strategici, quelli
più in grado di creare occupazione e meno esposti alla
concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro.
Italia: Risanamento
Completato?
Dopo cinque anni di pesanti manovre economiche il bilancio dello
stato sembra aver raggiunto una situazione di equilibrio, con un
saldo primario (cioè senza contare la spesa per interessi sui
titoli di stato) largamente in attivo: nel 1997 dovrebbe superare
il 6% del prodotto interno lordo, uno dei valori più elevati del
mondo industrializzato.
Anche l'inflazione pare essere stata ricondotta al livello di
quella degli altri paesi europei: in ottobre 1997 l'inflazione
italiana (1.6%) risultava addirittura minore di quella tedesca
(1.8%)!
Inoltre l'Italia sta azzerando il debito estero, e si avvia ad
essere uno dei pochi paesi con una posizione creditoria nei
confronti del resto del mondo. Questo grazie anche a una bilancia
dei pagamenti che è ormai consistentemente in attivo da sei
anni.
La stessa partecipazione italiana alla prima fase dell'Unione
Monetaria Europea sembra essere ormai data per scontata, al di
là di alcune episodiche voci più di natura diplomatica che
altro.
Tutto bene, dunque?
Non proprio, visto che questo processo di aggiustamento della
finanza pubblica ha lasciato sul campo diversi morti e feriti:
il reddito disponibile delle famiglie, che è più basso di
quello di cinque anni fa;
il livello qualitativo dei servizi pubblici (sanità, scuole,
trasporti, poste), in progressivo deterioramento a causa della
cancellazione dei programmi di investimento e dei tagli ai
trasferimenti agli enti locali;
un sistema pensionistico significativamente amputato, che attende
solo nuovi tagli e che salvaguarda solo i diritti acquisiti da
ristrette fasce generazionali, mentre per gli altri, rischia di
trasformarsi in un "generatore di poveri" visto il
basso livello di copertura previsto;
un tasso di disoccupazione record che, nelle regioni meridionali,
raggiunge punte incredibili - molti dei censiti come disoccupati
sono, in realtà, persone che lavorano in nero, senza contratti,
né garanzie del posto di lavoro, e tantomeno contributi
previdenziali ... un bel risparmio sulle pensioni!
Ma, come ci spiegano gli economisti (i nuovi profeti dei tempi
moderni), tutto ciò sarà compensato dall'ingresso nella lista
dei virtuosi paesi dell'Unione Europea! Peccato che all'interno
dell'Unione Europea dovremo anche restarci, e pochi hanno avuto
l'onestà intellettuale di spiegare quali saranno le condizioni
che potrebbero permettere all'Italia di rimanere all'interno
della mitica Europa - senza trasformarsi tutta in una area
depressa.
Una volta creata una unica area economica con la stessa moneta,
non sarà più possibile, come in passato, svalutare la lira per
rendere più competitive le nostre merci (e difenderci così
dalla concorrenza estera), ma bisognerà sviluppare una politica
di controllo dei costi di produzione. Poiché però una
componente importante di questi costi è data dell'efficienza
delle infrastrutture (trasporti, comunicazioni, poste,
istruzione, burocrazia pubblica, etc.) e poiché le
infrastrutture italiane sono molto al di sotto degli standard
europei - sono anni che, per risanare il bilancio dello stato,
non vengono fatti i necessari investimenti - ecco allora che
rimane un unico fattore produttivo su cui agire: il lavoro.
Gli effetti dell'integrazione nella moneta unica europea saranno,
in primis, il controllo del costo del lavoro e la continua
ricerca di aumenti della produttività all'interno delle imprese
più direttamente esposte alla concorrenza internazionale, cioè
le industrie manifatturiere.
Ad aggravare questo scenario trovano posto altri fattori non
immediatamente economici, ma che hanno impatti non secondari,
come:
il forte squilibrio demografico, particolarmente accentuato in
Italia anche rispetto agli altri paesi sviluppati:
l'invecchiamento della popolazione rappresenta una vera e propria
bomba demografica posta alle radici del sistema previdenziale;
un vasta presenza della criminalità organizzata, che si sta
espandendo su tutto il paese a partire dalle regioni meridionali;
un livello di corruzione e di inefficienza della pubblica
amministrazione ormai endemico, tutt'altro che sradicato dalle
indagini di "mani pulite";
un ammontare degli investimenti in ricerca, sia di base che
applicata, tra i più bassi all'interno dei paesi
industrializzati.
Con la partecipazione dell'Italia all'Unione Monetaria
Europea, si entrerà in una nuova fase. La continua
ristrutturazione e razionalizzazione produttiva, non solo nelle
imprese industriali, comporterà ulteriori riduzioni nel numero
degli occupati, con probabile correlato aumento del lavoro
straordinario. Il processo di precarizzazione dell'occupazione
dovrebbe andare avanti: si diffonderanno le forme di
collaborazione coordinata e il cosiddetto lavoro interinale
(lavoratori in affitto). Ci sarà inoltre da aspettarsi un legame
sempre più stretto tra aumenti salariali e aumenti della
produttività. La tematica delle 35 ore settimanali rischia di
essere confinata a fasce ristrette di lavoratori privilegiati,
visto che la tendenza attuale è proprio l'opposto, cioè
l'aumento delle ore effettivamente lavorate.
Tutti questi processi dovrebbero poi avere, come riferimento
fisso, quello che succede negli altri paesi europei a noi più
vicini (Germania e Francia): se i metalmeccanici tedeschi
ottengono aumenti salariali dell'1% sarà difficile che i padroni
delle imprese italiane operanti nello stesso settore siano
disposti a dare molto di più!
Concludendo, non si può negare che si stia attraversando una fase difficile. Viviamo in anni nei quali è "l'economia" a dettare le regole cui si deve uniformare la società e, quindi, la popolazione che costituisce il tessuto sociale. Le trasformazioni sociali sono governate da processi che hanno più a che vedere con gli aumenti dell'utile delle imprese (e di chi le controlla), piuttosto che con l'aumento del benessere della maggior parte della popolazione, prova ne è che le disuguaglianze sociali stanno aumentando in pressoché tutti i paesi del mondo, anche di quello industrializzato.
Toni Iero