Testo della conferenza organizzata da Roberto Pinto alla galleria Neon a Bologna insieme a un gruppo di artisti italiani a dicembre del 1992.
Il testo della conferenza è stato registrato in modo confuso.
Di conseguenza gli interventi sono spesso riportati in modo frammentato.
In questo modo una lettura di questo testo deve essere per forza di tipo interattivo da parte del lettore che dovrà forzatamente completare di persona i testi mancanti per coglierne un senso coerente.
Il problema della comunicazione è implicito in ogni messaggio che si ponga il problema di avere un referente. Un problema di tutti, generico e privo di confini, scegliere quindi alcuni artisti invece di altri è stato semplicemente dovuto a una riflessione più generale su chi si sta ponendo il problema del rapporto con gli altri come punto centrale della questione artistica.
Invece di ragionare sui risultati, per esempio facendo una mostra di '"'pittori'"', di '"'fotografi'"', scegliendo una tecnica come motivo di comunanza, oppure di artisti che stanno annullando l'oggetto artistico per esporre solo la procedura era interessante provare a proporre una mostra fondata sulla somiglianza delle esigenze. Accomunare più per le spinte che per i risultati. Sugli intenti (quindi in secondo luogo sulle procedure) e non sulle forme. Un tentativo di far ragionare più sui '"'perché'"' che sui '"'come'"'. Nella speranza anche di un abbattimento dei problemi di scuderia di appartenenza all'una o all'altra '"'corrente'"', e, anche, di ridiscutere le proprie scelte semplicemente dialogando e cercando di conoscere le altre. Mi sembra che non si sia mai parlato tanto di comunicazione, ma non mi sembra che ci siano stati poi degli effettivi risultati, un maggiore dialogo.
Forse questo è il tentativo di chiedere prima di tutto a se stessi e in secondo luogo anche agli altri un dialogo più che uno scontro, tolleranza invece di contrapposizione. Ma non sono solo esigenze personali che mi hanno condotto a chiedere una collaborazione su questi temi ma mi sembra che sia sempre più diffusa una procedura che sottintende un contatto con lo stesso spettatore; ho cercato quindi di parlare, chiedere, dialogare singolarmente con ognuno delle persone coinvolte sul perché di certe scelte. Sotto questo punto di vista era cercare di capire agendo allo stesso modo, prendendo e coinvolgendo tutte queste persone in un progetto che aveva la necessità di confronto e di collaborazione (di comunicazione) come un presupposto ed è stato per questo che in questa mostra ho cercato di coinvolgere soprattutto gli artisti con cui ho contatti più stretti, di dialogo e mancano artisti che stanno ponendosi analoghe problematiche.
In questo modo certamente questa esperienze non si vuole porre come una scelta di campo, ma come una constatazione della difficoltà che l'arte ha (ha sempre avuto?) di dialogare con gli altri '"'di essere capita'"'; problema che sostanzialmente si è notevolmente accentuato con l'autoreferenzialità e l'autosufficienza che ci ha preceduto, dalla pretesa dell'arte di autosoddisfarsi e di essere un luogo che non debba avere delle contaminazioni con l'esterno (che esso sia il sociale o le altre discipline artistiche non importa). Se c'è una caratteristica che accomuna questi lavori è allora proprio questo volersi '"'sporcare'"' con l'esterno e di voler quindi pretendere il rapporto con gli altri come parte del sistema stesso di creazione artistica. Non esiste quindi il '"'Creatore'"', il '"'Genio'"' (quelli con l'iniziale maiuscola) ma c'è la persona, l'individuo (o il gruppo di individui) che partono dai rapporti con gli altri, dalle contaminazioni, anche dalle differenze per proporre la propria visione del mondo.
La mostra diventa quindi, in sostanza, sia i lavori esposti che il dialogo che l'ha preceduta.
In qualche modo anche questa può risultare una formula onnicomprensiva ma senza la pretesa di racchiudere entro un circolo molto ristretto esperienze che hanno una ricchezza di significati non circoscrivibile in una formula o in un solo aspetto.
Gli artisti qui riuniti hanno messo sul piatto il problema di chi si ha difronte per cercare di entrare in rapporto con lui. Un lui, ben definito e determinato per qualcuno che fa del coinvolgimento personale il suo modus operandi, e indefinito ed il più possibilmente allargato per altri la cui direzione va verso una comunicazione più possibile comprensibile e comunicabile a chiunque. Personalizzazione e diffusione di un messaggio sono i poli che interagiscono e sono messi a confronto. E nel colloquio che ne scaturisce sono anche messi in campo le rispettive esigenze di smaterializzare o di concretizzare un oggetto da presentare in un mostra.
Ed ancora una annotazione va fatta per lo spazio e il tempo. Durante la Fiera di Bologna perché proprio queste esperienze che hanno bisogno di una riflessione che non si risolvono sulla superficie e con la superficie, rischiano di essere banalizzate, annullate o ancora più semplicemente ignorate da una fiera d'arte. Forse non si ha più la necessità delle manifestazioni onnicomprensive e totalizzanti come una fiera ma piccole proposte, non certamente esaustive ma che si pongono alla base delle domande o cercano di definire dei problemi. Questo penso che potrebbe essere una strada da percorrere anche per chi si pone come primo obiettivo quello di vendere le proprie idee, il proprio prodotto e basta pensare agli altri campi (libri, dischi o qualsiasi altro campo) dove le fiere servono a propagandare e a fare il punto sui nuovi sviluppi, sulle nuove ricerche e non semplicemente a svuotare il proprio magazzino (e a maggior ragione in questo momento non si riesce neanche a farlo). Non si tratta neanche di una opposizione al mercato, ma ad un sistema che tende a rendere tutto privo di contenuti, indistinguibile. Da qui anche la volontà di far tenere aperti gli studi a tutti gli artisti di Bologna che vogliano aderire a questa iniziativa, anche a quelli non coinvolti direttamente in questa mostra; vorrei che fosse un tentativo di inserire le cose nel contesto di partenza, un valore ai luoghi, al contatto con l'artista, alle sue esigenze e soprattutto al suo percorso. Una via più informale per entrare in contatto con le opere, gli artisti, l'arte. E allo stesso modo spero che si riesca a fare questa visita guidata ai graffiti della città, condotta e realizzata da Monica Cuoghi e Claudio Corsello, graffitisti loro stessi, ma anche inseriti nel mondo dell'arte. Un modo di avvicinare high & low di riprendere in mano ancora una volta la discussione sulla produzione di immagine e non privilegiare solo quello che avviene nel mondo dell'arte.
Queste le premesse di partenza, ma la parola passa ora a quel dialogo di cui tanto ho parlato (abbiamo?) e alle domande che ognuno può porre o porsi...
RP: Al di la di quelli che sono i singoli steccati di galleria, le singole postazioni che ci siamo costruiti nella nostra stessa frequentazione quotidiana mi sembrava importante riunire qui un po' tutte le persone. L'handicap mi sembra riuscire a far scattare la molla della discussione e in questo senso mi sento anche molto debole, insicuro, anche su come strutturare la cosa, è una proposta anche molto da costruire con voi. Per cui vorrei anche sapere che effetto vi fa una proposta del genere. Come prima cosa se vi interessa ... Vi vedo un po' perplessi è un po' anche un motivo per costruire un dialogo.
Vincenzo Chiarandà: Non si sa bene neanche da dove cominciare...
RP: All'inizio avevo pensato che ognuno potesse parlare di come sta procedendo, partire insomma dal proprio lavoro. Sperando di non finire al semplice io faccio questo tu fai quello. Mi trovo anche un po' in difficoltà a far scattare il meccanismo per far parlare le persone.
Anna Stuart: Tu dicevi che non ti interessava tanto partire da quali siano i risultati quanto analizzare certe procedure...
Maurizio Donzelli: Noi non sapevamo bene come porsi in questa situazione, ora non saprei come iniziare. Far capire come agiamo mi sembra un po' difficile. Potremmo presentarci e conoscersi... il problema mi sembra che possa essere che ognuno di noi potrebbe venire qui con il proprio lavoro. Semplificando potremmo fare questa mostra così portando dei lavori, ma il fatto stesso che ci stiamo parlando apre possibilità molto più grandi.
RP: Sì, comunque vengo qui cercando proprio di non avere un'idea precisa di quello che verrà fuori, mi sembrerebbe anche una grande forzatura venire qui e dire bene adesso parliamo e facciamo poi un bel lavoro tutti insieme, oppure proporre un lavoro unico, un percorso già prestabilito. Anche perché volevo partire dal presupposto di far conoscere agli altri delle procedure diverse. Si parte da alcuni lavori che si rivolgono ad un referente non identificato fino ad una persona che scegli direttamente e con cui lavori. C'è uno spettro sicuramente molto ampio di proposte per risolvere un unico problema e allora io sarei sicuramente contento che si arrivasse ad un coinvolgimento maggiore.
Emilio Fantin: Vedi noi non ci conosciamo bene tutti, forse allora è importante partire dalle ragioni di questa scelta, e forse sono accumunati dicendo che tutti i lavori si relazionano agli altri però è ancora un po' vago...
Rob: Vedi ho cercato di limitare molto il numero delle persone senza spostarsi quindi su un piano di conferenza, ma rimanere sul piano del dialogo. Rimanere in una situazione quasi di intimità in cui si potesse anche dire (e questo per primo da parte mia): '"'Sì in fondo ho detto una cazzata!'"' Senza cioè arrivare in una situazione troppo affollata da dover per forza portare fino in fondo il sostegno alle proprie idee senza lasciare spazio alla curiosità e al cambiamento del proprio punto di vista che può avvenire in un dialogo. Nello stesso tempo mi interessava che i discorsi acquisissero la profondità necessaria senza disperdersi troppo nelle tante voci.
Vincenzo: Tu comunque intravedi dietro i nostri lavori un concetto comune...
RP: Sì, innanzitutto le vostre procedure coinvolgono altre persone. Alla base c'è il tentativo di fare un'opera solo con un contatto con gli altri. Il lavoro non potrebbe esistere senza il coinvolgimento di altre persone. Senza qualcun'altro non c'è l'opera. Poi può essere qualcuno che conosci e allora Almeoni, Cirino, Donzelli e Marossi hanno costruito questo rapporto e hanno trovato in questo il motivo di fare un lavoro artistico, mentre magari in altri lavori questo rapporto è costruito con persone che non si conoscono. Il lavoro di Tommaso non esiste se nessuno manipola i dati, le informazioni che lui fornisce come input. Anche il lavoro di Luca che ha realizzato a Brescia, mi sembra sia basato proprio sul rapporto di collaborazione e di scambio che si è instaurato con un musicista e nel dialogo che ne è nato alcuni giorni dopo mi sembra che ci teneva a sottolineare che quello non era un lavoro suo ma che dovesse essere considerato come l'esplicitazione del bisogno di costruire qualcosa insieme. In questo senso parlo di comunicazione forse anche un po' troppo. Nonostante che c'è questo strato comune poi ci sono delle procedure che portano ognuno di voi verso un modo differente di fare. Allora in qualche modo la persona che fa da referente a Tommaso o a Vincenzo e Anna è un interlocutore generico con cui voi non volete avere a che fare o che anche se ci venite in contatto questo non lo ritenete fondamentale ma al limite funzionale. Mentre Eva prende alcune persone scelte appositamente.
Vincenzo: Ma voi lavorate in equipe? (rivolgendosi a Maurizio).
Maurizio: Ognuno di noi ha un lavoro autonomo, poi la storia personale di questa conoscenza si è mischiata con il nostro lavoro artistico. Noi ci siamo mai voluti riconoscere come gruppo (ed infatti non voglio parlare a nome di tutti). Ci sentiamo autonomi anche se abbiamo un percorso che ha molte cose in comune ed abbiamo fatto delle mostre insieme. Anzi loro tre hanno avuto anche delle altre esperienze in comune.
Vincenzo: Vedi anche a noi interessa moltissimo lavorare in comune, in equipe, il fatto stesso che noi ci siamo chiamati '"'ditta'"' sta a significare l'interesse non per l'opera di un singolo individuo ma per un lavoro che sia il frutto di una collaborazione. Quando abbiamo un progetto da realizzare selezioniamo questi collaboratori e lavoriamo con loro in base alle loro specifiche competenze. A noi quindi piace molto specificare che facciamo un lavoro di equipe, anzi cerchiamo di fare in modo che al suo interno ognuno riesca ad esaltare le sue competenze e le sue specificità. Noi consideriamo il fulcro del nostro lavoro proprio questo interfacciare le proprie esperienze e competenze. E su questo tema abbiamo sempre rivolto la nostra attenzione e abbiamo riflettuto a lungo perché abbiamo il grosso limite che nel momento della mostra si scivola sui lavori, c'è una fruizione che è sempre molto limitata. Abbiamo sempre giocato sul limite, per esempio abbiamo organizzato per la mostra Coke Art una conferenza in cui volevamo che si venisse a creare un rapporto tra il pubblico e la gente che veniva per dire qualcosa e per dare qualcosa. Ma è la stessa cosa in qualsiasi altra mostra. Allora come il pubblico si va a relazionare con quello che gli viene proposto è quello che mi interessa di più. Allora ci sono delle situazioni in cui il pubblico è in una situazione passiva mentre noi cerchiamo di creare una partecipazione il più possibile attiva. Ed è un problema con cui ci siamo scontrati più volte, perché c'è un attitudine da parte del pubblico ad una fruizione completamente passiva.
Maurizio: E voi come avete fatto a coinvolgerlo perché so che vi siete mossi anche al di fuori delle gallerie, del normale circuito espositivo.
Vincenzo: Noi abbiamo cercato di lavorare sempre sul filo tra il sistema dell'arte e quello che c'è al di fuori.
Anna: Sì, spesso ci chiedono quello che facciamo sperando che tu gli risponda sto qua piuttosto che la, invece mi sembra interessante porsi il problema di quello che c'è prima e mi sembra che tutto il resto possa venire di conseguenza...
Vincenzo: Sostanzialmente possiamo anche fare questo discorso: qualsiasi artista vuole comunicare. E già operiamo una scrematura perché non tutti gli artisti vogliono comunicare. Poi possiamo dire l'artista in quanto artista deve comunicare tramite un oggetto e se quell'oggetto comunica allora è un bravo artista. Poi ci sono tutti quegli artisti che cercano di comunicare tramite altre procedure che ti portano a realizzare degli oggetti che non sono facilmente vendibili. Ecco noi facciamo probabilmente parte di quest'ultima suddivisione. Questo è un argomento interessante da affrontare.
Tommaso: Non credo che bisogna ridurre tutto soltanto al problema della comunicazione, senza prestare attenzione anche a quello che si sta dicendo. Sono certamente d'accordo con Vincenzo quando parla del problema della non passività dello spettatore, ma secondo me bisogna andare oltre nel senso che bisogna fare in modo che queste persone possano avere la possibilità di essere loro a costruire l'opera. Devono essere loro ad usare l'opera e non l'artista ad usare loro per i suoi scopi. Non credo che l'artista debba sfruttare gli spettatori per costruire la propria opera d'arte. E questo vuol dire che bisogna fare dell'opera d'arte non soltanto uno strumento riconoscibile esclusivamente all'interno di uno statuto estetico che è tipico dell'oggetto d'arte. Che implichi uno stato di soggezione, ma bisogna fare in modo che si apra il campo, usando anche dei linguaggi e dei riferimenti che la gente sia in grado di usare anche durante la propria vita quotidiana. Questo vuol dire che non ci deve essere una struttura -- che sia l'artista, che sia la galleria o il sistema dell'arte -- che si arroghi il diritto (ed abbia il potere) di definirla tale. L'operazione artistica secondo me deve essere qualche cosa che permette alla gente di autopresentare il proprio rapporto con l'opera. Creare una sorta di contropotere di presentazione dello spettatore in modo da scavalcare l'autore stesso e di usare l'opera per creare un circuito che stabilisca un'interazione tra gli spettatori e l'opera stessa (...)
Vincenzo: Un lavoro artistico importante ha comunque dentro di sé una certa formula che fa si che quasi si autopresenti e chi lo guarda partecipa. Però a questo punto il dubbio può essere che potrebbe bastare anche un quadro per ottenere quell'obiettivo mentre noi facciamo delle operazioni. Credo che spesso basti anche il quadro far scatenare nello spettatore questo meccanismo. Vedere che quel lavoro parla di qualche cosa che tocca anche me.
Tommaso: (...)
Maurizio: C'è il pericolo di una certa didatticità che potrebbe finire per essere compito dell'artista. Questo pubblico questa gente, queste persone, in fondo non riesco a definirle. Non riesco a sentirli astratti anche perché nella vita poi le incontro. Nella mia esperienza non riuscirei a pensare ad un lavoro che potesse '"'dominare'"' questo profilo del lavoro tanto da essere in grado di incidere realmente sulla vita delle altre persone. Non è da questo che parto, non è certamente per questo che io lavoro. Parto dalla mia esperienza; lavoro con gli altri, con delle persone che posso conoscere, per una forma quasi affettiva.
Emilio (?) Ti interessa per una produzione.
Maurizio: Non solo di produzione. Direi una produzione che passa anche attraverso il rapporto con le persone che collaborano con me o che si avvicinano. Penso che sia più questo il senso del mio lavoro. Poi che tipo di significato potrà assumere; dove andremo a finire con questo lavoro, il suo espandersi al di fuori dell'opera è una cosa che mi interessa moltissimo, ma all'interno del mio lavoro non credo che ci sia la possibilità di esprimersi in modo così preciso come rivendica Tommaso. Quando il lavoro esiste sconfina nelle cose quindi ha il diritto anche di essere dimenticato per assurdo, anche di diventare un oggetto.
Vincenzo: Sì ma nel momento in cui cerchi di esporlo...
Maurizio: Sì ma non cerco di esporlo: il mio problema è come riesci a creare quel '"'grasso'"' intorno al lavoro, quella cortina che fa sì che il lavoro si esprima. Mi interessa come riesco a trovarmi nella situazione migliore per realizzare quel lavoro
Tommaso: (...) non lo sento come qualche cosa di definito (...)
Maurizio: Sì forse mi sono espresso male, è l'esperienza che conta. Non saprei dire qual è la cosa più importante.
Tommaso (...) l'autogestione è stata un esperienza che per me (...)
Emilio: Ma cos'è che sostiene il tuo progetto, si può parlare di ideologia? (...) di unione di intenti? Oppure(...)
Tommaso: (...) Secondo me ci sono (...) spettacolo (...)
Emilio: (...) tutte queste situazioni (...) Il mio problema è capire se voi (...) se è una critica sociale e si può riferire alla lotta (...) . Nel primo caso è in qualche modo un discorso che si può riattaccare al discorso dell'ideologia
Tommaso In ogni caso il mio discorso (...) poi non vorrei (...) i centri sociali (...)
Rob: Forse bisogna un attimo spiegare certe procedure: loro lavorano insieme Il discorso di adesso era basata sostanzialmente
Emilio: (...) le procedure degli artisti (...) in rapporto con le procedure dei centro sociali che sembrano abbiano raggiunto molto più velocemente il loro scopo che non gli artisti che sono impelagati in mille casini in mille vicende che lo impediscono. Mi domandavo cos'è che facilità. La prima cosa che mi è venuta in mente è che la cosa che accomuna e fa andare oltre le rivalità i giochi di potere soliti poteva essere per esempio l'ideologia. Anche perché i centri sociali sono sempre stati vicini ad una certa area ideologica. Allora forse era interessante capire che rapporto c'era tra i risultati che si ottengono in questa situazione e quelli che si sforzano di ottenere gli artisti partendo da altri presupposti perché poi in fondo l'artista parte come singolo e poi si incrocia ancora con dei singoli non c'è questa comunità e forse noi siamo qui per crearne una nel nostro piccolo.
Anna: Se penso ai centri sociali non penso mai (...) La gente (...) tutta la gente che contattiamo (...) mi immagino l'artista un po' come un misto tra tutte le figure che ho detto (forse sono anche tutti artisti ma non vorrei fare un discorso di questo tipo) hanno la possibilità di muovere qualcosa nella testa della gente (che è anche quello che fanno gli scrittori da sempre). Con grande e utopica illusione speriamo che uno arriva vede quello che gli proponiamo e questo gli muove qualcosa nella testa e che gli serva a qualcosa per la vita. E quando ti immagini i grandi artisti ti immagini che questo meccanismo sia scattato per tante persone. Ma torniamo al discorso della comunicazione, ognuno si sceglie il suo linguaggio. Noi facendo la Ditta abbiamo trovato un modo per dire che non eravamo una persona, un artista ma che ci piaceva che fosse chiaro che nella nostra testa erano presenti tutte queste istanze, cioè di quella lettura che possiamo fare nell'Economist o nel libro di gastronomia ma che mi serve per capire le altre cose. E siccome ognuno di noi poi anche nella sua vita normale fa una serie di funzioni l'idea di creare una struttura era quella di far fare ad ognuno il suo mestiere. Allora se io voglio fare un gruppo scelgo quello che so fare meglio e se ho bisogno di fare una pubblicità non cerco di inventarla io ma chiamo un esperto a collaborare con me. Poi è una struttura seria, anche molto rigida perché c'è un modo di strutturare queste collaborazioni e c'è un modo di renderlo evidente che queste ci siano perché che la gente possa riflettere su altre cose. Mi ricordo che ho letto una cosa sui gruppi Cyberpunk che mi ricordavano le tue cose (rivolta a Tommaso) e che mi sono piaciute moltissimo. Comunque sono sicura che leggo queste cose da artista cioè gli do un valore in più non solo perché sono successe davvero, c'è stata una collaborazione tra le persone ma perché mi piace teoricamente che sia successo questo evento. Forse quando tu parli di spargere certe cose tra le persone la possibilità di collaborare alla comunicazione mi pare che sia molto astratto, cioè quella comunicazione potrebbe essere qualsiasi cosa. Mi pare che il tuo lavoro si basi anche su comunicazioni di altri tipo rispetto a quella che ci arriva a pacchi ogni giorni
(?) (...)
II Parte
Tommaso: (...) Sono quelli di avere un grosso potere (...) secondo me mentre la pubblicità (...)
Vincenzo: Posso dire che adesso come adesso ci sono grosse differenze tra me e (...) promuovere un prodotto tramite una strategia. Sono d'accordo con te che c'è una fetta della comunicazione a disposizione della storia dell'arte, ma sono convinto che questo spazio non deva andare in mano a gente che non sa assolutamente gestirlo questo secondo me (...)
Tommaso: (...) È il solito problema che si può aggirare solamente (...)
Emilio: (...) Cioè ritornare (...) Il problema è anche secondo me che il sociale non è il sistema dell'arte né il ruolo dell'artista come essere sociale. Per cui alla fine non si ha che lo spazio per ritornarsene al proprio gruppo che è quello di vivere (dividere?À) la tua gloria e poi di fuori. Lei diceva che per esempio (...) l'artista può fare un lavoro e chiamare a lavorare un pubblicitario...
Vincenzo: Se il lavoro lo richiede
Emilio: Ma raramente avviene l'inverso.
Anna: Ma non credo, anzi avviene normalmente l'inverso. Sono i pubblicitario che attingono dall'arte contemporanea...
Emilio: Ma mi riferivo anche alla mancanza di un riconoscimento sociale del ruolo che assume l'artista in questa collaborazione.
Vincenzo: A questo punto non è l'artista (...)
Anna: Questo è la logica del pubblicitario che fa la pubblicità alla rivista tipo Cascella...
Emilio: Se noi comunque dobbiamo assumerci il nostro ruolo credo che bisogni riuscire ad usare le strategie (?) per far conoscere il nostro ruolo non perché dobbiamo essere solo noi all'interno di questo sistema ma per metterci a confronto. Ognuno ha il suo campo, siamo d'accordo, ma nella scala di valore di questa società l'artista non ha nessuna importanza, nessuna chance.
Anna: Perché resta una figura indefinita.
Emilio: Più che una figura indefinita è una figura surplus, in fondo ancora una figura da salotto, o da vernissages. Il bisogno che c'è di fare della gente, corrisponde ad un bisogno di qualificazione. Ed è molto difficile queste pecche per tutto ciò che è razionale, preciso (?), strutturato in un certo modo ha un valore, tutto ciò che non lo è no.
Anna: Non credo, perché e tu vai a vedere le teorie scientifiche o quelle che regolano il marketing o quelle filosofiche tendono assolutamente a distaccarsi dal concetto di precisione di assolutezza, di osservazione scientifica. E questa non è la solita mania sulla complessità è una cosa che sta succedendo persino a livello di produzione delle macchine all'interno delle società. Se all'IBM dicono mettetevi le camicie a fiori perché quello che ci interessa è la creatività ci sono diverse ragioni. Esistono degli sconvolgimenti all'interno delle aziende sulle vecchie impostazioni di potere e anche di comunicazione è dovuto alla consapevolezza che si devono rapportare con un mondo che è complesso e non possono farlo solo con gli strumenti della razionalità. E quindi un altro meccanismo politico non è che sia soltanto un altro tipo di andamento. E all'interno di questa situazione la figura dell'artista può essere ancora più indefinita.
Luca: Non riesco ad intervenire né a trovare ragioni per farlo, nel senso che siamo partiti dalla comunicazione, di capire perché ero venuto. Il motivo perché sono venuto è per questa idea di Roberto di considerare persone che secondo lui si occupano o hanno il problema della comunicazione e la sua ipotesi, che mi sembrava interessante, è che queste persone potessero comunicarsi le differenti idee del comunicare, quindi il confronto. Però mi sembra che stiamo ragionando per massimi sistemi, è venuto fuori il problema dell'artista e mi viene da contestarlo perché dal momento che si usa la parola artista bisogna sapere di che cosa si sta parlando mentre qui si dice che l'artista non è definito. Allora proporrei, affinché ognuno possa avere lo spazio e lo dico perché per esempio nel dialogo tra Maurizio e Tommaso ho avuto la netta sensazione che nessuno dei due riuscisse a comunicare effettivamente qual era il nocciolo della questione. Consiglierei allora un modo meno istintivo, mi affiderei alla sensazione di Roberto di mettere in comunicazione dei '"'modi di comunicare'"', e adotterei un metodo, quello che all'inizio abbiamo scartato (e che invece mi sembrava molto interessante): creare uno spazio possibile dove ognuno possa dire qual è il suo nucleo. Perché la mia sensazione è che ci stiamo spostando sempre su problemi che sono un po' laterali. Quindi si va subito sull'artista che è emarginato per il rapporto con il sistema dell'arte. Non riesco ad identificarmi con questo problema, perché mostrando molto un rapporto non è che privilegi certi rapporti rispetto ad altri mi interessa avere un rapporto comunque. Ma per poterlo fare occorre creare un ambito. Mentre qui mi sembra che si stia tentando già di dare delle risposte a qualcosa che forse dobbiamo ancora cercare di scoprire. Quello che mi interessava di questa situazione era la possibilità di confrontarmi con delle idee della comunicazione, con delle pratiche totalmente differenti dalla mia. Quando diciamo la parola comunicazione ognuno la vive in modo diverso e questo per me era importante. È importante però devo capirle; se no per conoscenza ci sono i cataloghi ci sono altre informazioni. Quella che ci prospettava Roberto era qualcosa di oltre. Mi sembra che ci potessero essere i presupposti di quello che ci prospettava Tommaso; l'idea di una comunicazione orizzontale mi piace molto. Però in primis dobbiamo farla qui. Anche perché questo potrebbe essere sondarne le difficoltà, che se la otteniamo qui, la si può anche comunicare. L'eventuale comunicazione di questo lavoro di questa mostra, diventa dare un'esperienza. Quello che propongo è proprio a livello pratico è o cercare qui di dirci come agiamo.
Anna: Vedi noi abbiamo cominciato così che era il metodo più giusto solo che poi chi più è abituato a parlare inizia a parlare e credo che ci siano anche dei problemi caratteriali.
(segue)