Oggi, migliaia di donne indigene, "basi di appoggio" dell'Esercito zapatista
di liberazione nazionale, soffrono le conseguenze dell'aver osato
aspirare a una vita migliore. La violenza politica, scatenata contro i
villaggi rebeldes, si è resa responsabile di nuove vittime, negli ultimi giorni.
Le bande armate
Le bande armate paramilitari fanno le loro incursioni ogni volta con maggior
durezza e miglior armamento, sotto i buoni auspici del governo e
appoggiate e addestrate dalla polizia e dall'esercito federale.
Ci sono circa quattromila e cinquecento indigeni che hanno dovuto
abbandonare i loro villaggi. Cinquentento tra loro sono rifugiati tra i monti,
senza protezione dalle intemperie, donne, uomini, bambini e anziani. Non
hanno cibo né abiti adatti né medicinali. La strategia del governo è
quella del logoramento, e di non ottemperare agli accordi che aveva firmato
nel febbraio del '96 con l'Ezln. Né intende, il governo, riaprire il
dialogo. Questo ha scatenato una autentica guerra "sporca". Alcune località
nel nord del Chiapas, e Chenalónegli Altos, le montagne sopra
San Cristóbal, sono diventati delle polveriere.
Le donne sono vittime ora non solo di queste inumane strategia, ma perché le
pallottole sono dirette anche contro di loro. Due indigene
totziles, una di 45 anni e l'altra di 16, sono state assassinate da membri
del Pri (il partito al potere in Messico, ndr.) il 18 novembre scorso nella
comunità Aurora Chica, nel municipio di Chenaló, mentre cercavano di
rifugiarsi sulla montagna nella loro fuga di fronte ai paramilitari. A
Yaxjmel, un villaggio vicino, i priisti hanno bastonato e violentato tre
donne. Poi le hanno legate a un altra persona, un uomo, e le hanno tenute
incarcerate per tre mesi. Tutte le umili case degli zapatisti sono state
bruciate. Sono già cinquanta le case che il fuoco si è portato via. E le
donne, la cui vita gira attorno al focolare, si son viste spogliate di
tutto, ovvero del poco che possedevano nella loro povertà. Hanno perduto il
raccolto di caffè, hanno rubato loro i pochi animali, non possono
raccogliere il mais dal loro campo.
Donne e resistenza
Perché? Sono zapatiste, o semplicemente di organizzazioni all'opposizione.
Le bande paramilitari che operano in Chiapas con la connivenza
del governo sono già sei. La decomposizione della società provocata dalla
guerra "a bassa intensità" promossa da un governo che non fa
nulla per dare risposta ai problemi sollevati dal conflitto zapatista ha
provocato, per molte indigene, violenze contro loro stesse e i loro diritti,
morte nelle loro famiglie, pallottole e terrore.
Ma, nonostante tutto, le zapatiste non spariscono. Il primo gennaio del '94
le donne indigene del Chiapas integrate nella guerriglia dell'Ezln
come combattenti, miliziane e "basi d'appoggio", dissero: ci leviamo in armi
per essere ascolate, perché la nostra vita era il silenzio, l'oblio. Un
adonna indigena e insorta di 26 anni, la mayor Ana Maria, diresse la presa
di Sin Cristóbal de Las Casas con un esercizio di impeccabilità
militare. Una donna tzotzil inferma e analfabeta, la Comandante Ramona, è
membro della direzione politica della guerriglia. Le donne del
Chiapas hanno visto di colpo rotto lo specchio di se stesse, che le
condannava ad essere mogli o madri sofferenti e mute.
L'esempio delle zapatiste ha reso possibile che le indigene cominciassero a
pensarsi in modo diverso, capaci di altre cose, di uscire dalle
loro case, di aspirare a qualcosa di meglio. Esse, portatrici delle culture
ancestrali, guardiane della lingua, degli abiti e delle tradizioni durante
secoli di colonizzazione e di spoliazione, hanno scoperto in molti casi
quanto sono oppresse. E solo così il mondo ha avuto orecchi, loro hanno
potuto pronunciare le loro parole e così recuperare la loro storia e la
coscienza di se stesse. Le indigene delle comunità robelli hanno scoperto
se stesse.
Perché infine, con la loro scommessa suicida e la loro ribellione armata,
hanno intercettato lo sguardo dell'"altro". Non solo gli sguardi
minacciosi dei soldati che ora sorvegliano i loro movimenti e le
impauriscono nelle loro faccende quotidiane, come andare a prendere l'acqua.
Non solo lo sguardo delle telecamere, davanti alle quali donna Maria, india
chol, ha potuto racocntare che esperienza disperata sia non avere
da dar da mangiare ai figli, non poterli curare quando si ammalano, vederli
morire di diarrea o di una febbre che qualunque ambulatorio
potrebbe curare. Si è vista la comandante Ramona, vestita con il huipil
bordato, con la sua umile veste tradizionale, gridare per farsis entire
dal governo e dal mondo.
Nel passato mese di settembre moltissime donne zapatiste, "basi di appoggio"
(ossia donne dei villaggi, donne con famiglia) hanno affrontato
la tremenda prova di lasciare i loro mariti a vegliare sulla casa e partire
verso Città del Messico, come parte della marcia dei 1.111 zapatisti.
Erano circa 400 donne, scelte dalle loro comunità. Viaggiavano con i loro
passamontagna su quaranta pullman e molte di loro per la prima
volta uscivano dalla selva o dal territorio del loro municipio. Hanno
sofferto, perché non hanno l'abitudine di viaggiare. Ma le soteneva la
curiosità e la fiduzia in una lotta che le include, e la promessa da
mantenere nei cofnronti di quelli che avevano lasciato nelle comunità.
Lo Zocalo, la piazza centrale della capitale, accolse in un grandioso
abbraccio i 1.111 uomini e donne zapatisti. Però fu una donna, con tutte
quel che questo implica a livello simbolico, a prendere la parola a nome
dell'Ezln davanti alle centinaia di migliaia di cittadini. La voce di
Claribel fece irruzione come uno strappo nella storia: "Non siamo disposti a
tornare nell'angolo dell'abbandono e della miseria senza speranza.
Le parole di Claribel
Prima del '94, chi avrebbe immaginato, in Messico, che una ragazza indigena
poteva parlare davanti a centinaia di migliaia di persone nello
Zocalo della città più grande del mondo? Ora il discorso di Claribel scorre
nel cyberspazio, nelle pagine dei web zapatisti, dal Giappone
passando per Melbourne, il Canada, gli Stati uniti, l'Italia, il Togo, per
citarne qualcuno. Però così come la dignità ritrovata ha implicato un
cambiamento abissale per le donne indigene del Chiapas, le loro condizioni
di vita continuano a essere le stesse, o peggiori. Continuano ad
essere povere. E con l'esercito e i paramilitari addosso. Il governo
preferisce mantenere in Chiapas i suoi 40 mila soldati, un migliaio di
veicoli, le armi, le infrastrutture per la guerra, invece che, con questi
soldi, costruire ospedali e scuole, soddisfare i bisogni di pane, tetto,
lavoro, salute... E' più conveniente per questo mondo degli affari
transnazionali alimentare la guerra che le bocche dei bambini. Ma, accada
quel che accada, le parole delle donne del Chiapas sono state pronunciate e,
come dicono gli zapatisti: "Non muoia, il fiore della parola".
* autrice de "Le donne di mais",
BRUNE, PICCOLINE, scalze, cariche di colori nelle loro bluse bordate di
greche preziose e di fiori, circondate di figli con occhi
d'ossidiana, le donne indigene del Chiapas hanno iniziato nel gennaio del
'94 il loro lento risveglio. Fiorisce la loro coscienza, ritrovano se
stesse. "Il cammino ormai è aperto", direbbe la comandante Trini, una nonna
tojolabal (una delle etnie indigene del Chiapas, ndr.) convertita in
membro del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno (Ccri).
Se Zedillo (il presidente messicano, ndr.) ha una parola, la mantenga e la
legge che riconosce i nostri diritti come popoli indigeni venga
riconosciuta. Se Zedillo non ha una parola, allora ci faccia guerra e
risolva con le pallottole ciò che non vuole risolvere con la ragione...".