Quando a Los Angeles rimasi senza pellicola mi fu difficile trovarne.
Il popolo dei ghetti neri nei giorni e nelle notti di furore, aveva incendiato
le banche, i supermercati, i magazzini di articoli fotografici. Questi
ultimi li avevano incendiati, ma non saccheggiati. Le loro merci non venivano
riofferte al mercato nero, erano state semplicemente ridotte in cenere.
E fra la cenere non era raro vedere le carcasse delle macchine fotografiche
a noi fotografi più care. Il fuoco le aveva trasformate in inutili
bellissime sculture. Mi ero già accorto che qualche cosa non andava
più nel rapporto che c'era sempre stato tra immagine e persone che
non si trovano a proprio agio nel mondo. Tra immagini e persone in mezzo
ai guai. Tra immagini e insoddisfatti. Quelli che vedevo a Los Angeles
erano i segnali di un divorzio, di una rottura assoluta. I mesi successivi
mi portarono a Mogadiscio, a Zara, a Belgrado, a Sarajevo. Per la prima
volta nella storia dell'umanità si ammazzavano persone per il solo
fatto che facevano immagini, senza sapere chi fossero, da dove venissero,
che immagini facessero. Un macabro punto di arrivo per gli anni che si
sono dati il nome di "civiltà dell'immagine". Cerchiamo di capirci
qualcosa. tentiamo di renderci conto di questo rancore cosi generalizzato
e violento. Quello che colpisce di più è che spesso sono
gli svantaggiati, i sofferenti, ad avercela con chi fa immagini. Non era
mai capitato prima. Il sofferente, il vinto ha avuto in passato quell'attenzione
e quella partecipazione che la parola, la parola scritta, gli ha sempre
negato. Chi dopo averla vista, ha dimenticato la donna fuggiasca della
colonna Antonina, con le sue vesti scomposte, che tenta di passare tra
i soldati romani che l'hanno oltraggiata, e l'ultimo della fila che la
prende per i capelli per ributtarla in mezzo a loro? Non c'è compiacimento,
c'è partecipazione, pietà e voglia di far cessare quella
pena. Compiacimento c'è invece nelle parole di Cesare quando parla
delle donne che si trovano costrette a offrirsi ai suoi soldati vincitori
nella speranza di avere salva la vita. Ho letto che tra poco verrà
esposta in Italia una povera e rozza stele capace di farci percorre la
breve vita di Quinto Artulo, minatore di quattro anni. Cosi nelle immagini
si trova traccia di drammi sepolti che ancora ci chiedono amore e giustizia,
come " La cingana" di mastro Zorzi da Castelfranco. Nei documenti scritti,
lo sterminio degli zingari di quegli anni rimane solo come conto delle
spese sostenute. Cosi le immagini ci fanno sapere della parte meno nobile
delle corti del Rinascimento: le donne offese durante i festeggiamenti
del carnevale e gli ebrei degradati a oggetto di squallidi giochi. Qualsiasi
potere ha avuto sempre il pieno controllo della parola scritta. Fino a
quasi i nostri giorni non ha mai avuto il controllo pieno delle immagini.
E nelle immagini trovano rifugio quelli che con il potere non si identificano.
Per scelta o per nascita. Le cose, mi sembra cambino violentemente negli
anni che seguono la prima guerra mondiale. Si affermano le grandi dittature.
Ed è un po' come se tutti i poteri del mondo si accorgessero che
le immagini avevano preso la mano e suscitavano una consapevolezza ingovernabile.
Pensiamo alla fotografia e al cinema di quegli anni. Corrono ai ripari.
I poteri più intelligenti capiscono che le immagini si possono addomesticare
solo rendendoli simili alla parola, molto più controllabile. Il
cinema diventa parlato e la fotografia di reportage, proprio quella che
parla delle gioie e dei dolori degli uomini, perde universalità
e astrattezza. ha diritto di cittadinanza solo l'immagine incapace di andare
oltre il suo senso letterale. L'immagine incapace di andare "al di là
della lettera". L'immagine semplice illustrazione della parola. Scompare
l'immagine essere vivente, rimane solo l'immagine cosa, che prende il significato
delle parole di cui è guarnizione. Negli anni della Repubblica di
Weimar si combattè l'ultima grande battaglia per il possesso dell'immagine.
Fu perduta. Fu imposta una immagine che è neutra rappresentazione
della realtà. Non più metafora viva, ma "metafora morta"
come la parola. Questo tipo di immagine finisce col fare sempre il gioco
del dominatore politico, del più forte, di quello che vuole potere
su altri esseri umani. Altre fotografie, altri modi di vedere conquistano
spazio solo quando forti ideali irrompono nella storia. Cosi è stato
nel secondo dopoguerra. Penso alle immagini di Eugene Smith e di quelli
che hanno pagato con emarginazione e silenzio la loro diversità.
Cosi è stato anche per i movimenti che noi tutti abbiamo vissuto.
La prima cosa che si voleva cambiare erano le immagini. Debbo dire che
le persone che dirigono in giornali in questi anni di servilismo, non sempre
le migliori, selezionano fotografi e sguardi a loro immagine e somiglianza.
E' impressionante vedere fotografi giovani e più attempati padroni
di agenzie celebrare e vantare il loro sapersi adeguare al mercato e guardare
con arroganza chi non è stato capace di fare soldi con la fotografia
in un periodo come questo. In modo inconscio e irrazionale l'umanità
si ribella a questo stato di cose. A questo stato di immagini. Per quanto
mi riguarda, ricordo, da quasi vecchio, di avere avuto la grande fortuna
di essere stato spinto, da giovane fotografo, per le strade. Di essere
stato spinto per le strade degli insoddisfatti del mio tempo che pretendevano
da me altre immagini e mi regalavano i loro volti. Ed è con grande
tristezza che vedo i più teneri, i più acuti, i più
dolci, i più profondi rivoltosi presentarsi in questi mesi alla
soglia della storia con il passamontagna. Tano D'Amico.
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