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Prendiamo la parola oggi, nell'occasione di questa giornata internazionale del prigioniero rivoluzionario, al fine di portare il nostro sostegno alla campagna per la liberazione dei compagni delle CCC.
I compagni hanno scontato più di 10 anni della loro pena e continuano ad essere detenuti, non è dunque altro che competenza del potere politico. E di fatto il governo belga usa questo arbitrio dopo tutti questi anni.
E' dunque chiaro che questa campagna non ha niente a che vedere con i numerosi soluzionisti mascherati che abbiamo visto spesso fino ad oggi riguardo alla questione della detenzione politica.
Qui si tratta di una lotta per la liberazione senza compromessi, senza rinnegamento senza niente che possa intaccare il senso della lotta rivoluzionaria passata e presente di questi compagni.
Abbiamo combattuto al loro fianco spesso impugnando le armi e di conseguenza conosciamo bene tutto il loro valore.
Sicuramente abbiamo avuto e abbiamo ancora delle divergenze politiche. Ma mai queste divergenze potranno servire da pretesto per un passo indietro nell'espressione di tutta la nostra solidarietà proletaria combattente.
E' per questo oggi siamo ancora al loro fianco in questa nuova lotta.
Bisogna strappare la libertà di Pascal, Pierre e Bertrand! Subito!
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La lotta per la liberazione dei prigionieri rivoluzionari è una lotta per la memoria collettiva di tutto il movimento rivoluzionario, un momento della lotta di emancipazione di tutti i proletari.
In Europa, dopo il maggio '68, migliaia di militanti hanno fatto la scelta della lotta armata per il Comunismo.
Dopo la lotta extraparlamentare degli studenti di Berlino, la grande rottura con il revisionismo dei partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale che rappresenta la nascita dei Comitati di Occupazione della Primavera francese e dell'Autunno Caldo italiano... le guerriglie hanno sperimentato, accumulato e diffuso tutto un sapere combattente.
Oggi questo sapere è uno dei principali patrimoni della classe.
E malgrado tutto la sua memoria resta innegabilmente viva.
Malgrado le campagne di disinformazione orchestrate dai media di propoganda, malgrado la riscrittura storica permanente di questa epoca, malgrado i processi-spettacolo, malgrado le calunnie e le deformazioni eccessive, malgrado le celle di isolamento, la tortura e l'omicidio...
Numerosi esempi ne sottolineano la veridicità.
Ecco, qualche mese fa in Italia quando un giornalista pose la domanda a degli operai per sapere chi difenderà meglio i loro interessi, hanno risposto
"sicuramente non un nuovo patto sindacati-padroni-governo, quello che ci manca sono le Brigate Rosse".
A Vilvaorde, gli operai in collera hanno pubblicato un manifesto che hanno largamente diffuso sul quale si può leggere
"Besse era il primo, chi sarà il successivo?".
Questa rivendicazione attraverso la classe dell'azione del commando Pierre Overnay della nostra organizzazione, come una sua propria azione, una parte della sua memoria, dimostrando bene che ogni volta che i proletari sistemano il loro abito quello dell'autonomia della propria classe nelle lotte, ristabiliscono immancabilmente la linea tra la lotta degli anni 60-80 e le prospettive attuali di trasformazione sociale
E non può essere altrimenti nella dialettica delle lotte rivoluzionarie.
Niente nasce dal niente. Nessun movimento rivoluzionario sorge senza fare sua la storia della sua classe, il patrimonio dei suoi combattenti di ieri e di prima di ieri, localmente e internazionalmente.
Noi stessi quando siamo entrati in lotta alla fine degli anni '60 portavamo in noi il patrimonio del movimento rivoluzionario che ci aveva preceduto, quello della Resistenza al nazismo, dei rivoluzionari cinesi e cubani, dei maquis (organizzazione clandestina di resistenza) antifranchisti, delle lotte di liberazione algerine e vietnamita, dei grandi scioperi operai del '48 e quelle degli anni 50.
Senza fare nostro questo patrimonio, senza situarci in rapporto a questo, senza apportare una critica costruttiva e militante, noi non avremmo mai potuto sperimentare le vie che abbiamo intrapreso.
Mai, avremmo potuto definire e praticare l'unità dei tre fronti, il fronte anticapitalista, il fronte antimperialista, il fronte antirevisionista.
Mai avremmo potuto riportare la piazza all'iniziativa delle masse nel loro processo di autoeducazione e autodeterminazione.
A concepire dei nuovi rapporti tra le avanguardie e i movimenti di massa.
Mai noi avremmo potuto rianimare un Internazionalismo Proletario indebolito dalla collusione tra il revisionismo e l'imperialismo durante vari decenni.
Mai avremmo potuto definire un nuovo Internazionalismo Proletario con all'interno le linee principali di unità dei rivoluzionari in Europa e del Fronte antimperialista nella zona geo-strategica Europa occidentale e orientale- Medio Oriente-Mediterraneo.
Mai avremmo potuto riattualizzare il progetto rivoluzionario sul nostro continente, facendo nostro l'insegnamento della guerra rivoluzionaria delle masse dei tre continenti e facendo dell'unità del politico e del militare la linea direttrice che percorre tutti gli aspetti del processo e dell'attività rivoluzionaria e orientando così tutte le questioni sorte con il procedere delle lotte verso la risoluzione rivoluzionaria.
Via via col procedere delle tappe non avremmo potuto dimostrare che senza sciogliere il nodo della violenza, nessuna politica rivoluzionaria è praticabile, nessuna rottura critica dei regimi della "democrazia spettacolare" è possibile.
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I prigionieri rivoluzionari portano in loro questo patrimonio.
Rappresentano il legame più diretto che ci sia tra le lotte passate l'attualità della resistenza e le sue prospettive di emancipazione.
Ed è per questo che da molto tempo sono in corso le manovre di coloro che vogliono distruggere questa sperimentazione, magari riscrivendola al servizio della liquidazione e dell'opportunismo.
Così i prigionieri non devono lottare solo contro la sottomissione e la distruzione che sono gli obiettivi della gestione controrivoluzionaria della prigionia politica dello Stato, ma soprattutto bisogna lottare permanentemente contro le chimere di un ritorno alle tradizioni gruppettare, prevalentemente m-l o anarchici.
Perchè per rinnegare quell'impegno che fu proprio il loro durante questi anni, è essenziale ritornare alla parzialità tollerata dal sistema "democratico" borghese, e partecipare all'illusione della formalità sempre più spettacolare, sempre più alienante di questi regimi.
E' lasciar credere che è sempre possibile una rottura rivoluzionaria prenda forma nell'accumulazione delle routine protestatarie settorializzate o sindacali, che l'esperienza necessaria possa raggiungersi senza lo sviluppo dei movimenti rivoluzionari, capace di indebolire la dominazione e di rinforzare la coscienza antagonista dei proletari.
La nostra proposta non deve lasciar pensare che noi privilegiamo la sola azione armata e tutte le altre pratiche sono secondarie.
E' falso.
La questione è sapere qual è la via rivoluzionaria sul nostro continente nell'epoca del tardo capitalismo, qual è la principale strategia, qual è l'organizzazione sociale sovversiva corrispondente all'affrontamento storico in corso, quale preparazione, agitazione e propaganda si esige...
Le battaglie passate hanno scavato un fossato tra il disimpegno permanente di fronte ai compiti della lotta di classe che rappresentano le pratiche incartate e le delegazioni incrollabili dei "bonzi" e la guerra rivoluzionaria di lunga durata con lo sviluppo del sistema controrivoluzionario di controllo totale, la generalizzazione del militarismo e il peso mediatico-ideologico dell'opinione, è la sola via capace di corrispondere a una ripresa dell'iniziativa rivoluzionaria, di appoggiarla e operare per l'unità dei proletari europei con le immense masse proletarie del Tricontinente e di orientare il fronte comune con tutte le resistenze nelle fabbriche, nei quartieri, nelle differenti lotte sociali.
Questo passato esiste ancora, più che nel passato, per coloro che sanno vederlo, per chi vuole superare i limiti dell'illusione.
E' sempre lo stesso vecchio fossato tra riformismo e rivoluzione che divide.
Due posizioni incompatibili con lo sviluppo passivo del capitalismo.
In conseguenza e per preservare l'intero processo rivoluzionario degli anni 60-80, i prigionieri della guerriglia devono rifiutare di passare sotto le forche caudine dell'istituzione da quest'altra angolazione quello che gli fa rifiutare la propria storia di rottura e di critica e propria memoria li farebbe ritornare da dove sono partiti.
Cioè la via senza uscita dell'impotenza e della contestazione istituzionale tipica della sinistra pacifista, legalista pontificante ed eurocentrica.
Come se niente fosse veramente successo, come se rimettendo nell'inserto i tempi dei partigiani, più di due decenni di lotta fossero messi tra parentesi e annientati. E con essi tutto il patrimonio della classe.
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Alla fine degli anni '80, si è prodotta un'incontestabile frattura storica.
Con la crisi del capitalismo, la rivelazione dei suoi limiti, e del fatto che i ribaltamenti del modello di accumulazione che la borghesia ha dovuto intraprendere per tentare di restaurare la sua dominazione e i suoi profitti, un ciclo di lotte si è esaurito.
La storia non ha volto al termine per adesso come ha detto un sostenitore del neoliberismo, ma si è voltato pagina solo per una fase della storia e quindi della storia rivoluzionaria. Siamo entrati in un'epoca di transizione.
E' ben evidente una cosa di importanza cruciale ma questa non ha niente di straordinario o di catastrofico.
Di queste situazioni se ne sono già prodotte almeno due o tre volte in un secolo.
Dopo le barricate della Comune di Parigi, la storia rivoluzionaria sul nostro continente ha dovuto evolvere, sperimentare e conoscere la disfatta, raddrizzarsi e ripartire all'assalto al cielo.
Anche con la seconda rivoluzione industriale, i proletari abbandonarono le antiche tattiche cospiratrici e insurrezionali e optarono per la costruzione di grandi partiti e sindacati.
Ma dopo essere stati gli strumenti di un salto qualitativo indelebile furono incapaci malgrado la loro spinta di rovesciare e di correggere essenzialmente il corso delle logiche del capitalismo perché misero il piede in fallo e gettarono milioni di proletari nella macelleria della prima guerra mondiale.
Della critica di questa esperienza si è alimentato il procedere della Rivoluzione russa del 1917 e sono apparsi i partiti comunisti e la Terza Internazionale.
Due decenni più tardi questi partiti e il loro pensiero cominciarono a giungere al loro turno con degli altri errori, tutti comunque gravi.
Fino alla collusione con il sistema borghese imperialista nel dopoguerra, quando nei principali centri industriali il regime di accumulazione capitalista, il fordismo riuscì a integrarli nella gestione del sistema dello Stato del Welfare.
Ma prima ancora le masse popolari, via via mondializzate e proletarizzate dal gigantesco movimento di industrializzazione spostandosi dal centro alla periferia nel corso del periodo di grande crescita degli anni 50/70, andarono sperimentando altre forme di lotta per i loro interessi, per la loro unità.
Una nuova ondata rivoluzionaria si cristallizzò, rompendo i grandi assiomi del revisionismo moderno
"il passaggio graduale al socialismo utilizzando la via delle riforme della struttura", "la coesistenza pacifica con l'imperialismo ", "la centralita' della lotta parlamentare nazionale"...
Nel 1967 l' "organizacion latino americana de solidaredad" proclamava:
"la lotta rivoluzionaria armata costituisce la linea fondamentale della rivoluzione in America Latina. Tutte le altre forme di lotta devono servire e non ritardare lo sviluppo della linea fondamentale che è la lotta armata".
L'apparizione della guerriglia europea si colloca in questo grande movimento storico e dentro le determinazioni politiche e pratiche che lo implica.
Di fronte a una industrializzazione globale sempre più polarizzata tra un centro sempre più ricco e una periferia sempre più sfruttata e diseredata, e di fronte alla globalizzazione dei rapporti sociali dominanti, la guerriglia ha dovuto sperimentare e generalizzare nella lotta sul nostro continente, l'unità delle lotte anticapitaliste e antimperialiste.
Nella nuova congiuntura, la lotta dei popoli dominati diviene via via una lotta proletaria internazionale.
Essa non è più semplicemente una parte della rivoluzione proletaria mondiale, essa è inevitabilmente il cuore dell'unità della classe.
Da questo punto in poi del confronto rivoluzionario, nel centro, nella "patria delle casseforti" deve non solo appoggiare e rappresentare un'avanzata reale degli interessi autonomi dei proletari qui, ma anche e principalmente essa deve essere un momento di unità internazionale della classe nel suo insieme.
Vale a dire costituire un reale attacco di distruzione e di sovversione contro gli strumenti e i rapporti della regolazione imperialista dominante, rinforzando e nel contempo ridistribuendo qui i dividendi tratti dallo sfruttamento e dall'oppressione di centinaia di milioni di proletari e delle masse diseredate del Tricont.
Ciò si nutre di un imperativo ineluttabile, per questo motivo rinascerà nei paesi della Triade imperialista la coscienza e l'organizzazione della trasformazione sociale.
"La guerriglia è la forma dell'internazionalismo proletario nelle metropoli. Essa è il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale".
Il filo rosso di 150 anni di lotte sociali, questa è la marcia verso l'autonomia politica del proletariato come unica classe effettivamente rivoluzionaria e capace di controvertire il proprio sfruttamento economico e tutti gli sfruttamenti, una lunga marcia dall'unità con la borghesia mostratasi all'inizio delle lotte popolari, fino alla lotta per la propria autoorganizzazione, per la costruzione del suo partito autonomo e infine per la sua unità mondiale.
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La dinamica propulsiva dei salti qualitativi da un'epoca all'altra del capitalismo, assume essenzialmente il suo carattere traumatico con la rivelazione dei propri limiti attraverso il modello di accumulazione e la lotta generale economica, politica, culturale... che si definisce quindi tra i principali attori sociali.
Dunque la borghesia (proprietaria- non lavoratrice- sfruttatrice) deve imperativamente combattere per rivoluzionare i rapporrti di produzione nel quadro del capitalismo e dunque della riproduzione allargata.
E il proletariato (non possidente- lavoratore- sfruttato) combatte per sottrarsi alle proprie condizioni di sfruttamento e di miseria, per rivoluzionare radicalmente tutti i rapporti di produzione capitalistici, fino a farla finita con il capitale stesso.
Per tutti i marxisti tutto ciò è ben chiaro.
Il capitalismo si suddivide in diversi stadi e tappe e con lui i cicli di lotta, le forme e i metodi rivoluzionari,sotto "l'effetto storico della lotta di classe".
Noi sappiamo "che tutto il mondo lo sa", perciò crediamo importante di dirlo e ripeterlo se occorre, poiché questa comprensione generale è troppo spesso assente dalle analisi delle trasformazioni e dell'antagonismo di classe degli anni 80 e 90, come noi possiamo trarre dalla lettura della stampa militante, spesso troppo occupata a sostenere le mode lanciate dai sociologi e dai filosofi, o altri nuovi mandarini del sapere servile.
In assenza di un rovesciamento rivoluzionario decisivo, l'unico capace di far nascere dei nuovi rapporti di produzione, il superamento guidato del vecchio modello di accumulazione in crisi si realizza sotto l'azione della lotta di classe della borghesia, sotto la sua direzione politico-ideologica.
Ciò è possibile finchè essa è in grado di imporre un nuovo insieme di rapporti e strumenti di regolazione.
Da ciò, queste mutazioni corrispondono inevitabilmente a una intensificazione dei vincoli e dei limiti ai rapporti di produzione capitalistici.
In conseguenza e in barba al "riformismo intellettual-chic" con questi rapporti di produzione e l'estensione della dominazione reale del capitale all'intero pianeta, non vi sono possibilità che il capitalismo si plachi, di mutamenti graduali di questo modo di produzione come vorrebbero far credere la religiosità del progresso e la visione socialdemocratica.
La globalizzazione della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale generalizza la crisi spietata, caotica e distruttrice, tra le corporation internazionali, tra tutte le imprese, le branche e i loro settori, tra le nazioni tra le aree continentali, tra tutti gli uomini e le donne, tra i maschi e le femmine, tra le diverse popolazioni...
La concorrenza dinamizza il conflitto, la diffusione del militarismo, le lacerazioni, i saccheggi...
Ma questa dinamizza principalmente la guerra di produttività.
E tale guerra non giunge affatto alla pace poiché inesorabilmente nel suo svilupparsi, la competitività produttiva provoca l'abbassamento tendenziale del tasso di profitto, dunque ancor più guerra di concorrenza.
Gli sforzi di competitività e i rimedi contro-tendenziali alla caduta del tasso di profitto sono altrettanto espressioni della lotta di classe della borghesia.
Una lotta tra le diverse frazioni della classe borghese ma principalmente un antagonismo nella polarizzazione sociale tra una frazione della borghesia, via via più ridotta, e un proletariato sempre più esteso e sfruttato.
Di conseguenza, il nuovo modello di accumulazione rappresenta lo stato reale del rapporto di forza in favore della classe borghese sul proletariato.
Non c'è alcun dubbio che il rapporto di forza tra le classi si è considerevolmente modificato nel corso del passaggio tra il fordismo-keynesianismo e il modello toyotista-neoliberale.
Secondo Marx, i due cardini essenziali del ristabilimento del tasso di profitto posano sui termini dello sfruttamento intensivo e dell'espansione della classe proletaria.
Egli ha sempre legato
"l'intensificazione del lavoro", "la riduzione del salario al di sotto del valore della forza lavoro"
che il capitale impone nel centro industriale, con lo sviluppo del
"commercio estero", "l'investimento di capitale nei paesi economicamente arretrati", "la creazione della sovrappopolazione relativa"
che si estende con le relazioni imperialiste, dopo il periodo coloniale fino alla dipendenza intensiva dei giorni nostri.
In questo modo la classe proletaria internazionale è stretta tra le due mascelle dello sfruttamento capitalista.
Una parte (principalmente nel centro e nelle fabbriche high-tech) è sempre più sfruttata all'interno del ciclo di ricerca permanente di produttività (il tasso di plusvalore estorto a ciascun lavoratore cresce).
La dominazione del capitale morto sul capitale vivo, della macchina sull'uomo... e simultaneamente l'immensa maggioranza dei proletari è sempre più sfruttata a causa di un rafforzamento della natura imperialista del sistema, sfruttata più intensamente di fatto dalla
"legge del valore mondializzata" ("il differenziale di retribuzione del lavoro... è più scarso di quello della sua produttività").
Allo stadio imperialista, la natura dello sfruttamento intensivo assume sempre questo doppio carattere.
In ciascuna situazione e a livello mondiale,
"la produzione capitalistica non può fare un passo avanti senza diminuire la parte che ritorna al lavoratore nel prodotto sociale".
Nel corso dello stadio imperialista il capitale si è esteso all'intero pianeta.
E questo movimento si è considerevolmente accelerato nel periodo dell'ondata di industrializzazione del Tricontinente negli anni 50-70.
Con il nuovo modello neocoloniale la dominazione reale del capitale si è globalizzata.
Ma il capitale non si può impadronire della produzione mondiale se non proletarizzando
"e non può continuare a vivere, ad essere fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi"
se non a condizione di stipendiare quegli stessi che proletarizza a livello internazionale.
Nello stesso modo non può impedire lo svilupparsi della sua contraddizione principale, il proletaria, e con lui i limiti indotti dalla formazione di questo avversario irriducibile.
Il capitalismo inforna nel suo inferno centinaia e centinaia di milioni di nuovi lavoratori, ma non lo può fare se non in maniera sempre più diseguale, sempre più caoticamente, e andando ad acuire la polarizzazione sociale e la contraddizione tra lavoro e non-lavoro.
Esso riduce le masse a non poter vivere senza essere sfruttate dal capitale stesso e contemporaneamente la produttività delle sue strutture fa si che il lavoro tende a divenire superfluo.
Fino a che
"l'armata industriale di riserva è tanto più numerosa che la ricchezza sociale, il capitale funzionale, l'estensione e l'energia del suo incremento... sono considerevoli".
Il supersfruttamento, la sovrappopolazione e la pauperizzazione della classe proletaria si accentua con la sua espansione e la sua internazionalizzazione.
Questo è il marchio indelebile della nuova epoca sempre più dominata dalla lotta irriducibile tra il capitale e il lavoro.
La storia del capitalismo è la storia delle contraddizioni tra borghesia e proletariato.
Oggi siamo in presenza di un nuovo stadio di questa contraddizione, si può affermare che un punto decisivo è stato raggiunto.
Di conseguenza, per i comunisti, la prima necessità è di esaminare e risolvere le questioni poste dalla nuova composizione-lotta di classe (le classi non possono esistere se non si oppongono) che deriva dalle grandi mutazioni degli anni 80-90.
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Oggi per iniziare correttamente un'analisi della composizione-lotta di classe, è assolutamente imperativo superare il suo quadro strettamente nazionale e partire dal salto qualitativo dell'espansione mondiale del capitalismo, così come si è affermata dall'inizio degli anni '80.
Per questo, se durante l'epoca precedente si doveva basare lo studio su un quadro locale, ciò andava bene fino a che il regime di accumulazione fordista gravitava fondamentalmente attorno allo spazio nazionale e la sua espansione come spazio internazionale.
Questo è stato il quadro di tutte le regolazioni e per ciò stesso dei rapporti salariali.
Ma non è più lo stesso con il modello toyotista-neoliberale.
Il nuovo modello di accumulazione ha globalizzato i principali processi della produzione di scambio, e una nuova divisione mondiale del lavoro ha preso corpo.
Certamente, in ogni periodo del capitalismo, le due principali classi antagoniste sono state classi internazionali, ma oggi la variante risiede nel fatto che il loro affrontamento si pone immediatamente e in tempo reale sullo spazio mondiale dentro il processo del lavoro, un processo sempre più inegualitario e sempre più contraddittorio tra lavoro e non lavoro, tra sfruttamento intensivo e sovrappopolazione, ma sempre più globalizzato.
Vogliamo affermare che noi non neghiamo che ciascuna situazione locale e lo Stato-nazione e ancora lo Stato comunitario rimane il centro particolare di un'importanza cruciale come spazio e rapporto dello scosntro di classe.
Per questo giustamente uno dei caratteri fondamentqali della mondializzazione è proprio la contraddizione tra la sua autonomia e gli imperativi permanente delle forme stuatuali dell'accumulazione.
Da un lato la mondializzazione è una estensione-contraddizione del rapporto sociale dominate (gli scambi delle merci, tecnologici, culturali e ideologici, la circolazione di capitali, il credito, la migrazione delle popolazioni, i modelli di consumo) e nello stesso tempo lo slancio strutturante e unificante che supera senza sosta le forme e i contenuti dell'organizzazione sociale.
Dall'altro lato, essa non può mai separarsi totalmente dalle forme statuali proprio perché i capitali monopolistici esigono sempre più l'intervento economico, politico e militare degli stati a livello locale, nazionale, continentale e inter-statuale.
Di fatto, questa contraddizione è il riflesso delle esigenze della concorrenza e quella della socializzazione. Il processo di mondializzazione sarà dunque sempre più destabilizzato dalla contraddizione in divenire tra la sua autonomia e le forme di regolazione statuale.
L'epoca iniziata verso la metà degli anni 80 segna inesorabilmente il passaggio al dominio dello spazio mondiale.
Riconnettere tutti i passaggi decisivi della mondialità rende possibile l'esame delle (ri)soluzioni contenute nella mondializzazione dello scontro di classe.
E' chiaro che il disastro e la barbarie acuite da questo processo non potranno mai essere rivoluzionati né corretti con un ritorno indietro nel particolarismo religioso e sciovinista.
Quello che si vuole di fatto costituire per l'immensa maggioranza dei proletari è la strada della subordinazione alla mondializzazione, alla polarizzazione e alla gerarchizzazione che diviene pesante.
Per un comunista, la questione non è se accettare o rifiutare questa mondializzazione, ma di capire come affrontarla per trasformarla in liberazione dell'intera comunità.
Come aprire all'unità della classe proletaria e alla sua autonomia politica, e potersi inserire in tal modo nella guerra di classe di lunga durata che si definisce per terminare con l'alienazione economica e la relazione imperialista Triade imperialista/Tricontinente.
E nel nostro caso particolare, e a partire da dove noi lottiamo, cioè a dire nel centro imperialista europeo.
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Riconnettere la mondialità della nuova composizione - lotta di classe permette probabilmente di superare le interminabili domande localiste che hanno seguito le grandi mutazioni degli anni '80, in particolare la deindustrisalizzazione, la delocalizzazione, la fine del pieno impiego, la caduta del posto fisso.
"Su quale classe, su quale soggetto far basare la lotta rivoluzionaria?"
si interrogavano i compagni in quel periodo in un testo.
Se si rimane al localismo europeo, saranno possibili tutti gli errori.
Se si negano i mutamenti e si persiste a far sopravvivere artificialmente i mito operaista degli anni '30.
Cioè ci si inventa un nuovo soggetto di classe capace di interessi elettoralisti o più semplicemente alla moda, i "tecnici" per i Partiti "C" o "l'intellettuale massa" per i movimenti "autonomi" in Weston?
Cioè infine si ripropone il "realismo" interclassista del populismo, per cui per certi compagni, il proletariato deve rinunciare "per l'immediato" ancora alla sua autonomia politica e inserirsi nelle lotte delle masse popolari nazionali.
Peggio, con alterando e battezzando nel nome dei proletari tutti i salariati.
Finchè si ritorna al solito interclassismo, dato che le masse popolari, la piccola borghesia compressa costituiscono in tal modo "il nuovo proletariato" dei centri industriali.
Nella metropoli imperialista, tutte queste versioni dell'ostinazione a cercare a tutti i costi - fino al ridicolo- di riordinare il progetto rivoluzionario su delle realtà essenzialmente nazionali, rinviano a un progetto di liquidazione rivoluzionaria e a un opportunismo quotidiano dentro le lotte.
Proprio quando la mondialità della composizione-lotta di classe ci permette di circoscrivere e cogliere pienamente i nuovi contorni, le condizioni e gli interessi generali della nostra classe: il proletariato internazionale.
Non c'è altra soluzione poiché questa comprensione è alla base di tutte le nuove prospettive di ripresa dell'offensiva rivoluzionaria sul nostro continente, e dunque alla base di una tattica corrispondente alla congiuntura e alle necessità dell'unità e dell'autonomia la più estesa della classe.
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Bisogna ora determinare in maniera più precisa quali sono oggi i principali aspetti della nostra classe.
Il proletariato costituisce ormai la maggioranza dell'umanità.
Si tratta di un ribaltamento di notevole importanza storica.
In meno di trenta anni il peso del proletariato si è moltiplicato per tre.
Tutte le altre classi popolari tendono ad acquisire importanza.
La classe contadina che dominava ancora la fase precedente si disgrega rapidamente e sotto l'effetto della crisi, della mercificazione, alcuni strati importanti delle borghesie locali si proletarizzano.
Di fronte alla borghesia monopolista, il proletariato è la sola classe che si sviluppa a livello mondiale.
Sicuramente, se si studiasse questa questione semplicemente su scala locale o nazionale, nella sola Triade imperialista, si resterebbe illusi dalle controtendenze metropolitane e principalmente dalla caduta del lavoro industriale.
Mentre noi viviamo in tutto il mondo l'epoca della rivoluzione della maggioranza sulla minoranza.
La maggioranza dell'umanità: i proletari contro gli sfruttatori e contro coloro che approfittano del loro sfruttamento.
Con la rivoluzione della maggioranza, la rivoluzione democratica e quella proletaria diventano una cosa sola.
Ormai, non c'è più rivoluzione democratica se non si rimette in discussione l'alienazione economica e la polarizzazione Triade/Tricontinente.
Non c'è più rivoluzione democratica senza annientamento della dittatura degli apparati e rapporti borghesi.
Quindi, il proletariato internazionale è la sola classe che può condurre la rivoluzione fino alla fine.
Così ovunque la lotta è prima di tutto lotta per la rivoluzione democratica proletaria.
E ovunque la classe deve operare per la vittoria della sua autonomia.
E' la condizione primaria per la realizzazione dei propri interessi, degli interessi cioè della maggioranza.
I proletari non hanno più alcun vantaggio nel trarre la rivoluzione dai borghesi democratici e dalle alleanze con le borghesie locali.
Al contrario, queste lotte parziali e specifiche, li allontanano sempre più dalle esigenze del momento.
Le lotte interclassiste e populiste rinforzano la loro alienazione e la loro divisione, a scapito della loro coscienza e unità internazionale.
Il momento sta nella costruzione del partito autonomo di classe, un partito che non può non essere internazionale.
La risoluzione di questo compito si fa sempre più pressante ed essa è possibile in tutta la radicalità intravista da Marx ed Engels.
"L'emancipazione della classe operaia è l'opera della classe operaia stessa, dato che tutte le altre classi e tutti gli altri partiti si fondano sul terreno del capitalismo e dato che, malgrado le rivalità di interesse fra di loro, essi hanno tuttavia uno scopo comune, la conservazione e il consolidamento delle basi della società attuale"
(Programma di Erfurt)
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La classe proletaria si sviluppa circa quattro volte più velocemente sul Tricontinente che nella Triade.
Già alla fine degli anni '70, su 1600 milioni di lavoratori attivi censiti, solo un quarto era localizzato nei vecchi paesi industriali
E questo processo è lontano dall'arrestarsi.
"Circa il 99% di qualche miliardo di persone che raggiungeranno la massa mondiale dei lavoratori nel corso dei prossimi trent'anni vivono oggi nei paesi a basso e medio reddito".
(Banca Mondiale).
Il cuore della classe operaia stessa - la classe produttrice di valore - si è spostato verso la periferia del sistema.
E qui ancora si tratta di un capovolgimento storico importante.
Dato che fino ad allora l'assioma rivoluzionario nei paesi metropolitani verteva sulla concentrazione operaia mantenuta nei centri finanziari all'epoca delle precedenti fasi dell'imperialismo.
Bene o male, i progetti potevano ancora articolarsi su un programma politico locale rimandando le questioni internazionali alle appendici e agli allegati.
Oggi tutto questo è diventato semplicemente impossibile.
Nessuna azione e nessuna rivendicazione può essere considerata come un reale momento rivoluzionario se non implica risoluzioni di emancipazione internazionale, se non rimette in causa fondamentalmente la polarizzazione Triade/ Tricontinente, se non permette di allentare la morsa dell'oppressione imperialista
Ma al centro questa determinazione internazionalista è tanto difficile da praticare quanto lo sviluppo della classe media, dell'aristocrazia operaia, (cioè delle frazioni di classe che traggono profitto dallo sviluppo del sistema di sfruttamento mondiale), e naturalmente il rafforzamento del loro peso politico ideologico nelle istituzioni e sulla classe mantiene le potenzialità dell'autonomia di classe nella contrattazione e nella collaborazione.
I partiti e i sindacati diretti da queste forze di classe sono sempre più sottomessi al controllo controrivoluzionario, che permane attraverso la gestione dell'antagonismo di classe, attraverso il militarismo interventista, attraverso la denuncia di azioni di resistenza...
Quindi, nel centro, due vie inconciliabili si contrastano...
La prima è quella della falsa unità, l'unità di tutte le espressioni "popolari" locali in un progetto di conquista e di gestione dell'Istituzione nazionale, in un progetto di rivoluzione democratica borghese eternamente rifatta.
Per i proletari questa via è un vicolo cieco.
Essa cade e cadrà sempre nel pantano della riforma.
Essa non rinforza la classe, ma al contrario aggrava la sua divisione
in termini non rivoluzionari e imperialisti.
E paralizza la presa di coscienza della sua reale condizione storica.
Come ricordava Lenin:
"L'unità con gli opportunisti non è nient'altro che la scissione del proletariato rivoluzionario di tutti i paesi, segna infatti oggi, la subordinazione della classe operaia alla SUA borghesia nazionale, l'alleanza con questa in vista dell'oppressione di altre nazioni e della lotta per i privilegi imperialisti".
In questa via, la classe è divisa, essa aderisce a partiti capitalisti opposti ed è reclutata nella guerra internazionale della produttività, nella guerra per una nuova spartizione del globo nei tre grandi poli triadici, USA Giappone e UE
La seconda è la via della vera unità di classe, l'unità internazionalista.
Con la mondializzazione, il proletariato deve conquistare il punto di vista internazionalista voluto non da una semplice solidarietà di classe, ma dai propri interessi generali.
Alla "coalizione del capitalismo mondiale", ma
anche alle proprie discordie sempre più caotiche, a questi
conflitti, alle proprie divisioni deve corrispondere l'unità
del fronte proletario.
Non esiste altra soluzione rivoluzionaria.
Rompendo la sottomissione organizzata nello spazio locale, le lotte
sul nostro continente devono operare per l'unità
internazionalista.
Esse devono materializzare la prospettiva.
Esse devono creare degli organismi di lotta, delle reti, dei ponti concreti tra i /le rivoluzionari/e della metropoli e le avanguardie proletarie nel Tricontinente, e conseguentemente stabilire una dinamica con le masse più ampie, rappresentare gli interessi e sostenere con tutte le forze il trionfo di questa unità.
E' a questo prezzo che le lotte rappresenteranno un'azione critica reale e uno spazio autonomo di sperimentazione e auto-educazione, e che forgeranno così le reali avanguardie di lotta nel centro triadico.
In questa via, autonomia di classe e internazionalismo sono un unico momento rivoluzionario.
Il proletariato è una realtà principalmente
urbana.
Fino a oggi la metà dell'umanità è una
realtà urbana e da qui all'anno 2025, i due terzi della
popolazione mondiale vivranno nelle "megalopoli".
La popolazione passerà da 2,6 miliardi a 3,3 miliardi di
persone.
Il 93% nei paesi del tricontinente.
La nascita dei ghetti e di tutte le miserie e delinquenze sono il cuore di questo vasto movimento di urbanizzazione selvaggia.
Il proletariato internazionale diventa in questo modo un
proletariato essenzialmente "megalopolitano".
Un proletariato di "barriadas".
L'80% della popolazione asiatica soffre la fame, il 60% in Africa, il 40% in America Latina.
Più di 10 milioni di persone muoiono ogni anno per le
condizioni di insalubrità di questi nuovi quartieri.
Due miliardi non hanno medicine, né acqua potabile.
Prima del duemila, la popolazione di 45 paesi del Tricontinente avrà una aspettativa di vita al di sotto dei 60 anni, la morte a 42 anni per alcuni di loro mentre l'aspettativa di vita raggiungerà i 79 anni nei paesi della Triade.
Un immenso proletariato emerge dalle periferie urbane, una nuova classe "pericolosa" che non si batte più semplicemente per la divisione della terra e per il miglioramento della spartizione dei frutti del lavoro salariato, ma direttamente contro l'oppressione dei proprietari dei mezzi di lavoro, contro i monopoli degli sfruttatori.
Essa deve far fronte all'incertezza della propria esistenza "sottomessa sia dagli altri uomini sia dalla propria bassezza" sempre più sfruttata ed oppressa, sempre più terrorizzata dalle nuove dittature poliziesche, dagli "squadroni della morte" e dai sicari di tutte le mafie paragovernative.
Così nascerà un'immensa armata proletaria povera e ribelle, che non ha niente da perdere se non le proprie catene.
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In ogni epoca e fase del capitalismo e come conseguenza dell'affrontamento tra borghesia e proletariato, le forme di produzione sociale proiettano sulla scena una figura proletaria antagonista.
Per tutto il corso della storia, diversi soggetti si sono susseguiti, dall'operaio di mestiere del XIX° secolo, all'operaio industriale, fino all'operaio professionale, "i similari" o i "metalmeccanici" ed infine nel dopoguerra l'operaio massa, l'operaio dell'impresa tayloristica.
Dopo i grandi cambiamenti degli anni '80 è importante chiedersi: qual è il nuovo soggetto di classe corrispondente a questi cambiamenti?
Con il taylorismo-fordismo, la rigidità del processo di lavoro, del processo tecnico, faceva del capitale variabile, dei lavoratori una categoria tanto fissa quanto il capitale che esso doveva mettere in opera (il tayl-fordismo).
La rigidità organizzativa si estendeva dunque a tutta la struttura e alla stessa sovrastruttura (modello di consumo di massa, welfare, rappresentazioni istituzionali...).
Essa era diventata un carattere fondamentale del modello di accumulazione, ma finì per ritorcersi contro se stessa durante la crisi.
Dopo gli anni '80, il rovesciamento fondamentale indotto dalla
generalizzazione del modello toyotista neoliberale verte
sull'introduzione della flessibilità.
Una flessibilità indispensabile per il superamento della
rigidità e dunque la messa a frutto del capitale e la
restaurazione dei profitti.
E la flessibilità è prima di tutto l'immissione sul
mercato di una nuova "generazione" di macchinari basati sulla
microinformatica.
Da cui la riorganizzazione della catena di produzione e del suo
"flusso continuo", per una crescita dei profitti, di
produttività, una intensificazione del lavoro e del tasso di
rendimento delle istallazioni.
Un miglior tasso di rendimento delle macchine e degli uomini.
La logica di tutti i modelli di accumulazione è di
concepire lo sfruttamento della macchina e dell'uomo in ambiti
identici.
Di conseguenza, come ieri, alla rigidità dei macchinari
unifunzionali delle grandi catene tayloristiche corrisponde la
rigidità del lavoro impostato ultraspecializzato e
dequalificato.
Oggi, alla polivalenza dell'automazione corrisponde una forza lavoro polivalente, la flessibilità della forza lavoro e della sua remunerazione salariale. E naturalmente, il cambiamento qualitativo dalla rigidità alla flessibilità è trasversale a tutti i cambiamenti dei compromessi per un nuovo regime di regolazione.
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Nella gran parte il fordismo è stato smantellato, ma di fatto la crisi persistente di sovrapproduzione assoluta di capitale e dei limiti sempre più tirannici del capitale stesso, il modello di accumulazione toyotista neoliberale non riesce a giocare pienamente il suo ruolo.
L'accumulazione è troppo debole, troppo caotica e diseguale.
E confrontato con la gestione di questa impossibilità ad organizzare l'accumulazione, il modello modifica e deforma il suo carattere principale da flessibilità in precarietà Generalizza la precarietàdella propria crisi.
In tutti i rapporti sociali, dietro la flessibilità si manifesta la precarietà, la punta estrema del potere del capitale ma anche della crisi generale.
Di conseguenza, il soggetto storico del proletariato internazionale emerso e che si riproduce nel cuore di questa qualità dominante della produzione sociale è il proletariato precario.
Un terzo della popolazione attiva mondiale è disoccupata o
sottoccupata.
Frazioni sempre più importanti di lavoratori sono
progressivamente allontanate dal salario stabile e contrattuale.
Negli USA, nelle 500 imprese più importanti, il 90% degli
impiegati sono spesso a tempo determinato e precari.
Sul Tricontinente, ci sarà un miliardo e mezzo di lavoratori
precari senza tener conto dei lavoratori informali (al nero).
Su 37 milioni di lavoratori messicani, 21,5 non hanno un impiego
fisso...
Ma la precarietà non può assolutamente essere circoscritta allo studio di un segmento particolare del processo di lavoro anche se molto importante, a un tipo di lavoro parziale, alla pauperizzazione, all'economia informale o alla disoccupazione, giacchè essa è oggi la qualità primordiale che percorre tutte le linee di antagonismo tra il capitale e il lavoro.
La precarietà attuale corrisponde alla rigidità fordista.
Il proletariato precario non è solo colui che ha il compito "dirty difficult and dangerous" (sporco, difficile e pericoloso) colui che non ha che un contratto fasullo di formazione, per giovani, per disoccupati, a lungo termine, di "solidarietà", un contratto parziale e limitato, o colui che è deportato in una zona di lavoro (50 milioni, principalmente donne, per l'immigrazione interasiatica), la precarietà è la forma globale di lavoro, il dominio intensivo del capitale morto sul capitale vivo, le forme di potere del capitale come classe sulla forza lavoro, della divisione tra lavoro poagato e non pagato, lo scollegamento ricreato tra il capitale e il lavoro, la razionalizzazione intensiva di ogni posto (un posto fisso e ultraproduttivo non è garantito per questo, vedere Vilvoorde), la polivalenza funzionale (un lavoratore deve produrre di più persino di una decina di catene differenti)...
La precarietà è la ricerca permanente della produttività, l'aumento delle cadenze e dei ritmi di lavoro sono intensificate; la collaborazione dell'auto-controllo: "zero guasti, zero sbagli,zero giacenze di magazzino", l'individualizzazione e le forme di coercizione consensuale; le tendenze accentuate alla svalutazione-dequalificazione del lavoro, la perdita di specializzazione dei lavoratori nella parcellizzazione accresciuta dal lavoro tecnico...
La precarietà, è lo sfruttamento accresciuto delle donne, la tendenza a farne un sottoproletariato, un serbatoio di schiavo-manager e/o sessuale, la frazione di classe più vulnerabile rispetto alla pauperizzazione e alla svalutazione sociale.
E' lo sfruttamento dei "deportati", degli stranieri, degli immigrati, delle popolazioni di colore nell'aparthaid generalizzato e il risveglio di politiche razziste e scioviniste.
La precarietà, 1400 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà, 600 milioni in Asia e più di un centinaio di milioni di "poveri assoluti" negli USA e nell'UE.
E' la formidabile esplosione delle diseguaglianze sociali nella Triade imperialista e sul Tricontinente.
Dato che l'abisso tra la frazione di popolazione più ricca
e quella più povera si è considerevolmente aggravata in
30 anni.
La differenza di reddito tra il 20% dei ricchi e il 20% dei poveri
è passata da 30 a 1 a 60 a 1!
Secondo l'ONU, il numero di patrimoni personali superiore a 100 milioni di dollari è aumentato nel corso di questi ultimi 7 anni da 145 a 358, e questi rappresentano l'equivalente dei redditi annuali del 45% della popolazione mondiale, cioè 2,3 miliardi di persone..
Marx ha descritto questa
"legge che stabilisce una correlazione fatale tra l'accumulazione del capitale e l'accumulazione della miseria, di una tale sorte che l'accumulazione della ricchezza in un polo è uguale accumulazione di povertà, di sofferenza, di ignoranza, di abbrutimento, di degrado morale, di schiavismo, al polo opposto, dalla parte della classe che produce il capitale stesso".
(Il Capitale, tomo 3)
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Simultaneamente, l'abisso tra i paesi della Triade e quelli del Tricontinente si è scavato in proporzioni enormi.
E' chiaro che saremo sempre nell'incapacità di comprendere la precarietà come qualità globale del modello attuale e del soggetto proletario antagonista, se non afferriamo concretamente la tendenza di questa polarizzazione ed il suo divenire.
Questa tendenza fondamentale è apparsa con la fase
imperialista, essa ne è il segno indelebile.
In un secolo circa, lo scarto tra il reddito delle popolazioni del
centro e della periferia si è moltiplicato per 8.
Il rapporto di reddito tra gli abitanti più ricchi e quelli
più poveri è passato da 11 nel 1870 a 38 nel 1950,
infine a 52 nel 1985.
Con il nuovo modello,
"in totale, il 48% dei paesi poveri hanno avuto uno sviluppo meno rapido rispetto alla più enta delle economie dell'OCDE, e il 70% hanno conosciuto una crescita inferiore rispetto alla media dell'OCDE. La crescita dei paesi pveri esendo in media meno rapida, la dispesione internazionale dei redditi (misurata attraverso lo scarto tipo del logaritmo naturale di entrata per abitante) fra il 1960 e il 1990 è aumentata del 28% (passando dallo 0.86% all' 1,1%) e il rapporto tra le entrate dei più ricchi e quelle dei più poveri è aumentato del 45% dopo il 1960"
(FMI "Francia e Sviluppo").
Le entrate sono aumentate del 2,6% all'anno nell'OCDE contro l'1,8% del resto del mondo.
Così, malgrado la forte industrializzazsione del Tricontinente, 88 paesi su 93, quindi il 94% della popolazione mondiale, abitavano durante il periodo 1975/83 e dopo, nella stessa zona limite nella quale si trovavano tra il 1938 e il 1950.
Sicuramente la situazione è estremamente diseguale rispetto
ai paesi del Tricontinente.
Quello che dimostra peraltro che la loro integrazione alla nuova
divisione internazionale del lavoro è basata su una forte
gerarchizzazione.
A partire dal "Rapporto sullo sviluppo nel mondo 1995", (sul
periodo 1980-93) noi constatiamo innanzitutto che più della
metà di questi 93 pesi hanno conosciuto una crescita
negativa.
E che nessuno, anche con una crescita molto forte non potrà
ritrovare in breve tempo dei redditi uguali a quelli della fine degli
anni '70.
Secondo, se numerosi paesi del Tricontinente hanno malgrado tutto conosciuto una crescita positiva, per l'80% dei casi, essa è stata più debole rispetto a quella dei paesi della Triade imperialista.
A partire da queste due considerazioni, e secondo le stesse stime del FMI, ci sarà bisogno di 33 anni al Brasile per ritrovare le sue entrate record (al ritmo di crescita annuale dello 3% dal 1980 al 1993) e 487 anni per raggiungere i paesi a reddito alto.
Peraltro, un gruppo ristretto di paesi in via di sviluppo sono
effettivamente "convenuti" grazie ad una crescita più viva
negli USA.
Quando li raggiungeranno?
L'India, per esempio, ha conosciuto una crescita annuale media del 3% tra il 1980 e il 1993. Se essa mantiene questo ritmo per 100 anni ancora, raggiungerà il livello attuale dei paesi ad alto reddito.
E se potrà mantenere questo differenziale di crescita per 377 anni... l'India supererà il limite della "convergenza"!
Sebbene numerose attività industriali o di servizi si sono delocalizzate verso il Tricontinente, si può comunque constatare che solo 10 paesi sono riusciti a cavarsela abilmente e ad ottenere l'1% in più di crescita rispetto alla media dei paesi della Triade.
Per questi paesi, la speranza di "convergere" sarebbe qualsi palpabile (50 anni circa per le Filippine), ma solo se la loro eccezionale crescita si mantenesse allo stesso livello senza debolezze, senza crisi, senza spostamenti delle attività verso altre zone più redditizie...
Dopo un secolo nessuna politica di "sviluppo", nessun piano di regolazione, nessuna politica "terzo-mondista", nessuno sforzo dei paesi del Tricontinente ha potuto stroncare questa polarizzazione.
La polarizzazione è prodotta dal funzionamento stesso della
legge del valore operante su scala mondiale.
Essa si capisce grazie ai caratteri sempre più deformati
dell'accumulazione capitalista.
E non può scomparire se non grazie a se stessa.
La polarizzazione tra la Triade imperialista e il Tricontinente
è oggi una delle realtà e una delle contraddizioni
principali del modo di produzione capitalista.
Per questo, ed è evidente, essa grava sul cuore stesso della
nuova composizione-lotta classe.
E non si può cogliere pienamente l'emergenza del nuovo
soggetto di classe, il proletario precario, che si pone veramente la
contraddizione della polarizzazione Triade imperialista/Tricontinente
al centro della definizione delle poste e delle sfide reali della
congiuntura dominate dalla mondializzazione.
La figura del proletario precario è emersa nelle lotte,
nelle rivolte, nelle resistenze anche qui sul cuore delle
metropoli.
Essa è apparsa nell'antagonismo riflesso della
precarietà della propria esistenza sociale.
"E' una parola che esprime una rabbia profonda, ma al tempo stesso impregnata da un profondo sentimento di paura. Paura di esser stati ormai cacciati dalla storia di un "progresso" che si misura oggi più che mai, nell'accumulazione più estesa di ricchezza, ma solo per degli strati ancora più ristretti di individui.
Paura di essere ormai ridotti a una pletorica e soffocante maggioranza definitivamente condannata all'impotenza perché privata delle minime briciole di potere contrattuale rispetto ai meccanismi di accumulazione delle ricchezze".
Pertanto, questa classe crea sempre tutte le ricchezze, il suo sfruttamento sta invariabilemtne alla base di questa società mondializzata, ma non ha alcun diritto di cittadinanza.
Essa è solo massa informe delle periferie, periferie di metropoli, di megapoli, periferia della periferia...
La coscienza alienata che ha oggi il proletario dei limiti della sua condizione, della propria azione, dei suoi ambiti e dei suoi metodi, diventa essa stessa parte inscindibile del suo stato di precarietà, dello stato di precarietà di tutta la classe.
Polarizzazione Triade/Tricontinente, polarizzazione sociale tra
borghesia e proletariato, sfruttamento intensivo, precarietà,
sovrappopolamento, perifericizzazione pauperizzazione, esclusione
politica sono le basi sulle quali si forgia oggi la figura sociale
del proletario antagonista.
Un soggetto descritto da Marx quando affrontò le logiche
profonde della polarizzazione tra le due classi principali.
"Lontano dal sollevarsi con il progresso dell'industria, l'operaio moderno scende sempre più in basso, al di sotto anche delle condizioni della propria classe. L'operaio diventa un "pauper" e il pauperismo si sviluppa più presto della popolazione e della ricchezza"
(Manifesto)
E' evidente, come per i suoi predecessori, che l'apparizione di
questo soggetto di classe sulla scena mondiale determina tutta una
serie di questioni tattiche che dovranno porsi e risolvere i
rivoluzionari.
Il comunismo è un divenire di contraddizioni reali.
E oggi questo proletariato antagonista è il perno della
principale contraddizione.
Se lo si elude dalla sua prospettiva di lotta e di azione pratica, si
esce inevitabilmente dal movimento reale.
Oggi, a partire da ciascuna situazione e in particolare nelle metropoli, il compito dei rivoluzionari è dunque di rendere leggibile la reale faccia di tutte le illusioni intrattenute dall'insieme delle varianti della via socialdemocratica (dai partiti di governo alle confederazioni sindacali ai gruppetti metropolitani).
Non c'è altra alternativa.
E' mettendo in pratica le soluzioni concrete di implicazione del soggetto proletario precario, che essi potranno agire in nome di un comunismo possibile, di una ricomposizione di classe intorno all'unità degli interessi comuni di trasformazione sociale.
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Durante gli anni 80, il movimento rivoluzionario ha conosciuto numerose sconfitte.
Di fronte a questa evidenza e sconvolgimento in corso, alle rimesse in causa, al crollo del "socialismo reale", di fronte all'impotenza o all'apparente impotenza, di poter cambiare le cose, di fronte alle dimensioni attuali della lotta di classe, una critica irragionevole dell'esperienza rivoluzionaria dopo gli anni '60 si è largamente diffusa tra il guazzabuglio di critiche e di disfattismi di ogni genere.
E in particolare a proposito dell'esperienza guerrigliera, attraverso il confronto con la controffensiva politico-ideologica della borghesia, al posto di criticare degli errori non veri (e noi ne abbiamo commessi molti), e di conseguenza anziché rettificare ciò che si doveva di valorizzare questi anni di lotta e di continuare nelle prospettive aperte da due decenni di prassi, tutto è stato buttato sotto bordo in un'atmosfera di panico e costrizione.
Pertanto, e molto rapidamente, queste critiche assolutiste hanno dimostrato che non avevano niente a che fare con la costruzione di ponti verso nuove prospettive, esse rinviavano tutte senza eccezione alcuna a un capitalismo sognato o a un'illusione di posizioni o si confondevano principi, teorie, analisi... in un ambiente di carta benedetta nelle cappelle.
Esse non partivano decisamente dalle lotte per delle nuove lotte ma partecipavano alla lotta per la eliminazione di una sinistra anti-capitalista e anti-imperialista in Europa, per l'eliminazione di una sinistra capace di far vivere il legame di lotta tra la liberazione dei proletari del Tricontinente e quelli della Triade imperialista.
Se è vero che in Europa le guerriglie della sinistra rivoluzionaria hanno subito degli importanti rovesci rimettendoli in causa fin nella loro stessa esistenza, questo non dimostra la loro incapacità a essere uno degli assi fondamentali della lotta di emancipazione del proletariato e di unità internazionale di classe nell'avvenire. Lontano da lì.
Il massacro dei comunardi non ha significato la fine della rivoluzione proletaria.
Quest'esperienza rivoluzionaria non può essere considerata che una nuova esperienza rivoluzionaria capace di prendere meglio in considerazione gli interessi generali di tutta la classe.
Nel corso degli anni '80 e '90 la sinistra istituzionale ha dimostrato la sua utilità riformista?
E altre espressioni di movimento hanno dimostrato il loro valore superiore nel risolvere la questione rivoluzionaria?
I partiti di sinistra sono sempre più invischiati nella loro natura di buoni gestori e tirano per questa via gli eterni gruppetti che incollano al loro culo.
I sindacati confederali hanno definitivamente rigettato il sindacalismo di classe e si invischiano in una corsa per la conservazione del loro ruolo istituzionale acquisito all'epoca del fordismo e moltiplicano gli accordi tripartiti con i governi e i padroni.
Di fronte all'aumento delle lotte operaie (nel '95 ci sono state 5 rivolte in più che nel '93 e due in più che nell'84) e delle resistenze proletarie, non hanno più niente da proporre se non delle proposizioni elettoraliste e neo-corporative tutte sempre più strettamente legate all'antico regime dell'accumulazione allo Stato nazionale imperialista e ai suoi limiti e divisioni.
Dappertutto il concetto di "proletario senza patria" è
rimpiazzato dal concetto di cittadino.
Cittadino di uno stato imperialista.
Cittadino che ricava, come tutti gli altri "partecipanti" a questo
Stato, dei vantaggi dalla relazione imperialista
Triade/Tricontinente, e dall'accentuazione dello sfruttamento che
essa rappresenta.
L'insieme del progetto opportunista verte essenzialmente sulla divisione nazionale e imperialista del proletariato.
Una delle sue funzioni principali nel contratto sociale è quella di mantenere questa divisione e di promuovere l'empasse di gestione di false unità popolari, di mantenere e promuovere la collusione interclassista populista contro l'unità del proletariato internazionale.
La maggior parte delle espressioni proletarie auto-organizzate e anti-imperialiste che sono state con le guerriglie, il punto forte delle lotte nel continente europeo non sono riuscite purtroppo a radicarsi e a svilupparsi in questa fase cruciale.
Al contrario, esse si sono spesso ripetute nelle lotte e nelle
resistenze particolari o puntuali.
La lotta per la casa, per la regolarizzazione degli immigrati... sono
delle lotte giuste che bisogna condurre.
Ma il movimento autonomo ha sempre più la tendenza a egemonizzare questo particolare. Esso tende di nuovo alla molto vecchia religiosità del concreto, alimentando senza tregua le rotture e le divisioni delle condizioni sociali, trasformando il concreto in illusione.
Non può più portare che una coscienza frammentata, senza una prospettiva di reale trasformazione sociale, radicale e durevole nel tempo.
L'attaccamento alle usanze locali e al puntuale non sono altro che
delle nuoove forme di gestione.
Delle pratiche "alla base" che corrispondono alla gestione
dell'economia e alla gestione dei riformisti.
E dall'altra parte esse ricadono nel pantano del riformismo che
pretendono criticare.
La meta non è niente, il movimento è tutto!!
Rosa Luxemburg ha già denunciato tutto l'opportunismo che significava questo modo di procedere,
"il cammino non è attraverso la maggioranza per la tattica rivoluzionaria, ma per la maggirnaza attravero la tattica rivoluzionaria".
La rivoluzione non è e non è mai stata un condensato di azioni riformiste a breve scadenza, ma un decisivo salto qualitativo.
Tutto il processo rivoluzionario dalla sua origine porta in se stesso questa qualità.
E' la coscienza della necessità e possibilità di abbattere perfino l'ultimo ostacolo che intralcia lo sviluppo delle forze produttive, la volontà di darsi tutti i mezzi reali per liberarsi nel sottometterli ai bisogni degli individui.
Vuol dire un vero processo di critica e rottura, un processo di azione e preparazione all'azione rivoluzionaria quale "il movimento stesso, senza relazione con lo scopo non è niente, lo scopo è tutto".
Noi tutti che abbiamo partecipato ai grandi movimenti rivoluzionari sul nostro continente, noi che abbiamo fatto le barricate nel '68, dalla resistenza contro la dittatura in Spagna, in Grecia, in Portogallo... le lotte contro la guerra in Viet-Nam, e l'imperialismo USA per la rivoluzione palestinese, noi che siamo stati nei comitati di base o i primi fuochi della guerriglia...
Noi che siamo sempre stati per un'interazione stretta tra le avanguardie di lotta e gli organismi autonomi di classe; che sappiamo che nulla si può fare senza questo rapporto e l'abbiamo sperimentato.
Noi tutti comunisti rivoluzionari e anti-imperialisti dobbiamo criticare senza debolezza queste due deviazioni opportuniste e gli ex compagni che devono la loro storia a queste illusioni.
Nessun movimento rivoluzionario può e potrà cristallizzarsi su queste rinunce.
Si sa bene che la rivoluzione non fa marcia indietro se non nella caricatura.
La riattualizzazione del binario istituzionale o paraistituzionale "partito-sindacato" è la dimostrazione del "concreto" illusorio accecante dei partiti del movimento disorientato da false discussioni.
Un disorientamento che andrà aggravandosi per il fatto stesso di questi abbandoni e di un dogmatismo che non permettono di affrontare le attuali questioni della congiuntura.
Come agire per gli interessi generali del proletariato internazionale, alla sua ricomposizione come classe rivoluzionaria e al suo soggetto antagonista presente: il proletario precario?
Come creare delle relazioni vive e costruttive con le espressioni rivoluzionarie di questo proletariato nei paesi del Tricontinente?
Come lavorare a un'organizzazione sociale adeguata all'affrontamento storico attuale?
Come affrontare la congiuntura generale delle contraddizioni tra i 3 poli concorrenziali imperialisti USA, Giappone, UE?
Come operare per l'unità dei rivoluzionari sul nostro continente e al sabotaggio del militarismo e della guerra economica?
Come oltrepassare gli schemi della contro-rivoluzione permanente dei regimi borghesi del centro?
Come criticare e rompere gli specchi dell'illusione di questi regimi autoritari?
In che modo opporsi al processo di fascistizzazione che si materializza e perpetua nella deconnessione sempre più grande tra i poteri formali (partiti, parlamenti,...) e i poteri reali (i poteri concentrati nell'economia, nel capitale finanziario)?
E' solo partendo da queste domande e dalla loro risoluzione che potrà essere avvicinato e criticato l'esperimento delle organizzazioni rivoluzionarie armate degli anni '70 - '80.
Cioè, non c'è solo bisogno di una domanda di solidarietà ma di un'attualità stringente per tutti quelli che vogliono davvero riprendere la lotta e svilupparla sul terreno del movimento reale.
E' solo in questo processo di risoluzione rivoluzionaria che la memoria acquista tutto il suo valore di arma per la lotta collettiva.