Riprendendo la proposta del coordinamento nazionale contro la repressione a sostegno di Mumia, si è costituita a Bologna una "iniziativa contro la detenzione amministrativa".
Le compagne e i compagni che l'hanno costituita, si sono posti il problema di articolare localmente questa campagna costruendo iniziative di controinformazione: assemblee, dibattiti, proiezione di video sulla colonizzazione di Gerusalemme est.
Tra i materiali prodotti questo dossier (di cui non riportiamo, perché già pubblicato in questo stesso sito, il testo della proposta di campagna contro la detenzione amministrativa del coordinamento nazionale contro la repressione a sostegno di Mumia).
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2 novembre 1917, dichiarazione del ministro degli esteri inglese, lord Balfour:
"Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico e spiegherà tutti i suoi sforzi per facilitare la realizzazione di questo obbiettivo, essendo chiaramente inteso che niente sarà fatto che possa portar pregiudizio ai diritti civili e religiosi [NON POLITICI !] delle comunità non-ebraiche in Palestina [allora il 90% della popolazione !] "
L'idea sembra buona agli USA, che decidono di soffiare l'operazione agli inglesi (quando nel 1945 si sostituiscono a loro nella leadership dell'imperialismo mondiale) per la creazione di un avamposto occidentale in un'area politicamente ed economicamente strategica come il Medioriente.
L'operazione dura a tutt'oggi con la finta pacificazione degli accordi di Oslo, in realtà una tappa della riorganizzazione di quello stesso dominio.
1939-45, inizia l'operazione:
coloni sionisti finanziati dagli USA scacciano gli arabi dalle
loro terre
29 novembre 1947, allo scadere del mandato britannico l'Onu propone un piano di spartizione della Palestina che prevede la creazione di due stati: uno ebraico - 55% dell'area totale della Palestina - , uno arabo - il rimanente 45% - (con la gestione internazionale di Gerusalemme) in una terra in cui sono presenti, secondo gli stessi dati ONU, 1.200.000 arabi e 540.000 ebrei
14 maggio 1948, proclamato lo Stato d'Israele:
gli USA si affrettano a riconoscerlo ufficialmente nel giro di
pochi minuti, seguiti a ruota dall' URSS e dalle altre nazioni
europee.
Con una guerriglia portata avanti con i mezzi del massacro
indiscriminato e del terrore, e finanziata per intero dagli USA,
Israele estende il suo dominio al 74% del territorio
palestinese.
Nel 1949, al termine dell'operazione, viene tranquillamente
ammesso alle Nazioni Unite.
Giugno 1967, Guerra dei Sei Giorni:
Israele occupa il rimanente 21% della Palestina (West Bank e
striscia di Gaza, oltre alla parte di Gerusalemme rimasta fuori
dall'occupazione del 1949).
I vantaggi strategici dell'operazione per lo stato sionista sono
evidenti: terre, acqua, mano d'opera a basso costo, un mercato
consistente per l'esportazione, tasse non indifferenti. Non lo stesso
si può dire per la popolazione palestinese.
1978, Accordi di Camp David: inizia la normalizzazione nell'area con il riconoscimento di Israele da parte degli stati arabi)
1987, inizio Intifada
La "pacificazione": le spese per mantenere l'occupazione cominciano a diventare superiori alle entrate ricavate dal controllo dei territori occupati: è necessario riorganizzare il controllo su basi economiche e politiche più che militari.
1990-91, Seconda Guerra del Golfo e Conferenza di Madrid
13 settembre 1993, accordi di Oslo:
Washington, Arafat e Rabin firmano la "Dichiarazione dei
principi", mondovisione della mitica stretta di mano e del sorriso
soddisfatto di Clinton.
Aprile 1994, accordi del Cairo.
28 settembre 1995, approvati gli accordi di Taba
13 gennaio 1996, accordi di Hebron
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L'attuale 'processo di pace' in atto in Palestina trova la sua collocazione nello scenario internazionale seguito alla crisi dell'Unione Sovietica e in particolare nel quadro che si e delineato in quest'area dopo la guerra del Golfo, caratterizzato da una preponderanza militare statunitense nella regione (una regione, lo ricordiamo, in cui sono concentrate il 70% delle risorse del mondo) da capitalizzare in termini politici ed economici.
Il fatto che Israele abbia deciso di sedersi al tavolo delle trattative trova la sua origine nei mutamenti di natura strutturale che hanno investito questo paese intorno alla metà degli anni '80, prima fra tutte la crisi del settore militare-industriale, che aveva rappresentato, nella seconda metà degli anni '70 il fattore di crescita economica più significativo per lo stato di Israele. Dopo l'84 la situazione si inverte, e nella crisi complessiva dell'economia israeliana le industrie monopolistiche costituiscono 1a voce più pesantemente recessiva: nell'88 i suoi profitti scendono allo 0,5% del P.I.L. rispetto al 14% su cui erano attestati solamente 4 anni prima.
Di qui l'esigenza del passaggio da una classica economia monopolistica di guerra ad un'economia di 'pace', improntata al liberismo.
La sostanza degli accordi di Oslo rappresenta per gli israeliani l'ottimizzazione della occupazione, permettendo loro di mantenere il controllo dei territori occupati con mezzi politici ed economici più che militari.
Riorganizzazione territoriale
Gli accordi prevedono che l'assetto finale dei territori venga stabilito solo nell'ultima fase delle trattative. Questo permette ad Israele di procedere ad una riorganizzazione dei territori che sia funzionale ai propri interessi in una corsa contro il tempo che permetta di mettere sul tavolo dei negoziati al momento conclusivo il maggior numero possibile di 'fatti compiuti' sia geografici che demografici.
Questa riorganizzazione procede attraverso:
La confisca delle terre arabe
Il ritmo delle confische di terre è passato, dopo la
conferenza di Madrid, da una media di 2,500 duman al mese (unita di
misura che corrisponde circa ad 1/4 di acro) alla media di 8.400
duman dopo gli accordi di Oslo.
Il raggruppamento degli insediamenti israeliani nelle zone
strategiche, in modo da lasciare risorse idriche e controllo dei
confini saldamente in mano agli israeliani che hanno il potere di
decidere se e come i palestinesi possano spostarsi da uno dei loro
bantustan ad un altro.
Gli insediamenti israeliani a Gaza ad esempio coprono il 40% del
territorio e controllano molto più della meta delle risorse
idriche: 4000 coloni usano più del 50% dell'acqua a Gaza, dove
ci sono quasi un milione di abitanti.
Corollario della politica di sviluppo degli insediamenti israeliani e il mastodontico progetto che riguarda la costruzione delle arterie di collegamento tra gli insediamenti in tutta la West Bank, Le strade bypasseranno e isoleranno ulteriormente le comunità palestinesi e potranno essere utilizzate solo dagli ebrei.
Dice a questo proposito un portavoce dell'opposizione palestinese:
"Nella West Bank continuano le confische di terre con il pretesto della costruzione delle superstrade, se Israele avesse la minima intenzione di lasciare i territori palestinesi non ci sarebbe necessita di confiscare terre e costruire superstrade".
Il ruolo dell'Autorità Palestinese
Gli accordi sanciscono l'obbligo per l'Autorità Palestinese di osservare le 1400 ordinanze militari israeliane, che costituiscono la base legale dell'occupazione (molte si riferiscono all'uso della terra).
La polizia e le forze di sicurezza palestinesi (in stretto contatto con israele) hanno dovuto dimostrare di essere in grado di reprimere ogni possibile attacco ad obbiettivi israeliani e per dimostrarsi all'altezza del compito l'Autorità Palestinese ha ordinato arresti di massa degli oppositori.
Ora in alcuni luoghi il confronto con Israele e filtrato dall'Autorità Palestinese che difende gli interessi degli israeliani: Se i palestinesi decidono di attaccare gli israeliani o di lottare contro la loro presenza si trovano di fonte i soldati palestinesi prima di quelli israeliani, e cioè la loro gente.
"Viviamo in una grande prigione e siamo sottoposti a due autorità che in modo diverso entrambe ci opprimono": questo il quadro per i palestinesi dalle loro stesse parole.
Questi accordi mettono una seria ipoteca, con la legittimazione dell'occupazione da parte della leadership dell'OLP, al principio del diritto dei palestinesi a lottare per la propria liberazione. Inoltre tutte le rivendicazioni dei palestinesi, tra cui uno stato indipendente, e quindi il controllo della propria economia, la liberazione dei prigionieri politici, la possibilità di tornare alla propria terra dei rifugiati, in poche parole la fine dell'occupazione, non solo vengono disattese da questi accordi, vengono completamente neutralizzate.
In realtà Israele sta procedendo con grande coerenza e lucidità su una strada di cui e già abbastanza chiaro il punto di arrivo: una fase finale dei negoziati in cui, quando ci si appresterà a parlare delle grosse questioni di fondo, ci si renderà conto che non c'è più niente da discutere, che gli insediamenti sono già stati ottimizzati e consolidati e che da Gerusalemme est saranno stati espulsi praticamente tutti gli arabi.
A TUTTI GLI EFFETTI L'OCCUPAZIONE CONTINUA, MA ORA SI CHIAMA PROCESSO DI PACE, E QUINDI NON DEVE PIU' ESSERE COMBATTUTA.
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Tra le strategie politiche messe in campo da Israele, per facilitare e la riuscita del suo piano di controllo del territorio palestinese anche dopo la fase finale dei negoziati, assume sempre più importanza la pratica della chiusura dei territori con motivazioni legate alla sicurezza.
Questa pratica in realtà già utilizzata in passato si è intensificata dopo l'azione dell'Islamic Jihad a Beit Lid ed e stata generalmente approvata dall'opinione pubblica interna e internazionale come legittima difesa dello stato di Israele contro i "terroristi".
In realtà questa punizione collettiva, assolutamente inutile per prevenire le azioni armate con cui le popolazioni oppresse reagiscono inevitabilmente all'occupazione, ha motivazioni ed obiettivi che vanno oltre questa superficiale lettura e che mirano allo strangolamento dell'economia palestinese, a separare in modo irreversibile l'economia di Gerusalemme da quella del resto della West Bank e al controllo di tutti gli aspetti della vita palestinese, anche quelli meno facilmente riconducibili ad un quadro di controllo militare.
L'inasprimento della chiusura ha determinato un drastico aumento della disoccupazione sia in termini assoluti che relativi, attraverso un calo dei consumi locali accompagnato dall'aumento dei prezzi dei beni di prima necessita.
La disoccupazione nei Territori Occupati e intorno al 50%, e il surplus della maggior parte della produzione di queste zone viene assorbito da Israele, con un conseguente rialzo dei prezzi più elevato di quello che sarebbe determinato dal basso potere d'acquisto locale.
Gli effetti devastanti della chiusura non si limitano alla disoccupazione dei palestinesi che lavorano in Israele, ma colpisce con altrettanta durezza quelli che lavorano nei Territori.
Infatti dopo le ripetute chiusure, a causa di un aumento dell'offerta di forza lavora sul mercato locale, la retribuzione media si è ridotta in modo significativo.
Questo si e tradotto in un beneficio soprattutto per le imprese israeliane, visto che quelle palestinesi sono state penalizzate da un calo di profitti legato all'impossibilità di intervenire su un mercato vasto quanto quello dei concorrenti israeliani.
L'indisturbata distribuzione di merci israeliane nei territori occupati significa un trasferimento di denaro dei palestinesi in mani israeliane senza un ritorno legato all'export palestinese.
Le autorità israeliane hanno anche potuto orientare in modo definitivo la scelta dei distributori palestinesi, discriminando con la negazione de1 visto d'ingresso in Israele quelli che non distribuivano prodotti israeliani.
Viene inoltre indirizzata dalle autorità anche la scelta dei proprietari e manager palestinesi rispetto all'assunzione dei lavoratori. Infatti, dopo l'inasprimento della chiusura viene richiesto loro di firmare un documento in cui si dichiarano responsabili delle azioni dei loro dipendenti residenti nella West Bank.
Naturalmente questo non significa che Israele abbia intenzione di rinunciare ai vantaggi della mano d'opera palestinese a basso costo.
Già da tempo si sta parlando della costruzione di parchi industriali, nella West Bank, per molti versi sul modello del distretto di Eretz, al confine con Gaza. Invece di portare i lavoratori palestinesi in Israele il lavoro sarà portato direttamente a loro, in una sorta di limbo occupazionale o "duty free" territoriale.
Naturalmente la partita e aperta anche per gli investitori stranieri che sono stati chiamati da Israele, ma anche dall'Autorita Palestinese, a partecipare a questo business.
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La questione della liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane attraversa con grande forza questi negoziati, nonostante i tentativi di piegarla o strumentalizzarla a fini propagandistici sia da parte dell'Autorità Palestinese che di israele.
Anche negli accordi di Taba i prigionieri sono stati chiamati in causa con l'evidente scopo di far digerire ai palestinesi una firma davvero impresentabile, individuando tre fasi di rilascio e sparando alcune cifre senza che fosse minimamente risolto il nodo politico di questo problema e senza la minima garanzia del rispetto degli accordi da parte di israele, né di possibilità di controllo democratico su questa operazione.
Le carceri sono il luogo in cui la brutalità dell'occupazione israeliana e il suo perdurare sono avvertibili con più chiarezza.
Usati nei negoziati e soggetti, esattamente come sempre, a continue violazioni dei diritti umani e legali, i prigionieri sono diventati il simbolo della continuità della dominazione israeliana anche al tavolo delle trattative, e, vista la centralità di questo tema nella società Palestinese che ha nella sua totalità esperienza diretta del carcere israeliano, i prigionieri sono diventati per molti un emblema della. sconfitta Palestinese sancita dagli accordi di Oslo.
La cessazione delle ostilità tra O.L.P. e israele avrebbe dovuto portare automaticamente, considerando i vari precedenti storici, ad un riconoscimento dello status di prigionieri di guerra ai palestinesi detenuti, ed alla loro conseguente liberazione.
Ma gli accordi di Oslo si guardano bene dal riconoscere l'O.L.P, come un movimento di liberazione nazionale, e le omissioni di questo documento hanno lo stesso peso politico delle affermazioni. Anche la questione dei prigionieri e, di fatto, completamente assente come punto qualificante, e questo relega la questione del loro rilascio al ruolo di gentile concessione israeliana elargita come premio per i negoziatori palestinesi a ogni ulteriore cedimento e vincolata l'Autorita Palestinese nella repressione dell'apposizione.
La serie di sporadiche liberazioni che hanno avuto luogo a partire dal settembre del 93, che israele ha fatto passare per grandi concessioni, sono state accolte dai palestinesi con rabbia e manifestazioni di protesta per l'esiguità del numero di prigionieri rilasciati e per le modalità di rilascio. Per esempio, i criteri di rilascio non hanno mai tenuto conto della richiesta palestinese di dare la precedenza ai malati, gli anziani, i minorenni e le donne, ma sono stati determinati da fattori come l'appoggio agli accordi, l'aver quasi completamente scontato la pena e soprattutto non essere accusati di attacchi diretti agli israeliani.
A partire dal maggio del 94, il rilascio fu addirittura subordinato alla firma di una dichiarazione il cui testo originale recitava:
"Io sotto scritto con la presente mi impegno ad astenermi da ogni atto di violenza e terrore. Dichiaro di essere completamente consapevole che la firma di questa documento e la condizione e il prerequisito per il mio rilascio, e sono anche consapevole che questo rilascio avviene nel quadro dei negoziati di pace e della 'Dichiarazione dei principi' firmata il 13 settembre 93, che io appoggio."
In seguito ad agitazioni nelle carceri e fuori ne venne modificato il testo (ma non la sostanza).
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La detenzione amministrativa significa in Israele l'arresto e la detenzione dei palestinesi senza prove o processo, attraverso procedure amministrative anziché giudiziarie.
Gli ordini di detenzione amministrativa sono emessi dai militari, possono durare fino a sei mesi, e sono rinnovabili per un numero illimitato di volte.
La possibilità formale di appello alla "Corte Suprema" è solamente una copertura del carattere totalmente militare di queste detenzioni, basti pensare che gli avvocati difensori hanno la possibilità di visionare il "file" del prigioniero da 5 a 30 minuti prima di presentare il caso alla Corte, e che, comunque, anche di fronte ad un ipotetico ordine di scarcerazione del giudice d'appello, nulla vieta ai militari di rinnovare immediatamente l'ordine di detenzione amministrativa (come è avvenuto per Ahmed Qatamesh e per altri prigionieri).
L'arresto amministrativo consente al ministero della difesa di arrestare qualsiasi individuo (palestinese!) considerato pericoloso per la sicurezza dello stato senza dover fornire all'accusato le motivazioni dell'arresto né consentire lo svolgimento di un regolare processo.
Dopo gli accordi di Oslo, non solo la detenzione amministrativa non è scomparsa, ma il suo utilizzo è diventato dichiaratamente politico, andando questa a colpire quasi esclusivamente gli oppositori degli accordi di Oslo.
Nel solo mese di ottobre '94 centinaia di attivisti, intellettuali, scrittori e ricercatori che avevano preso pubblicamente posizione contro i "piani di pace" sono stati arrestati dall'autorità militare israeliana.
L'11 novembre 200 di loro vennero condannati a 6 mesi di detenzione amministrativa senza che i loro casi fossero presentati in tribunale e che vi fossero prove a loro carico.
Tutti i 200 a cui fu applicata la sentenza erano oppositori degli accordi.
Da allora la detenzione amministrativa ha conosciuto un'impennata
come strumento di intimidazione/repressione di qualsiasi forma di
dissenso ai negoziati.
Basti pensare che ci sono attualmente nelle carceri israeliane
più di 800 detenuti amministrativi, di cui circa 300 in
seguito ad arresti avvenuti prima e durante l'estate 1997.
La detenzione amministrativa è dunque uno dei nodi centrali della strategia di annientamento del dissenso a quello che va sotto il nome di processo di pacificazione e che altro non è che una riorganizzazione funzionale agli interessi strategici di Israele.
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Ahamed Qatamesh è il detenuto amministrativo da più lungo tempo prigioniero delle carceri israeliane (5 anni).
Questo intellettuale e scrittore palestinese, perseguitato per la sua dichiarata opposizione agli accordi di Oslo, è divenuto, per molti versi, il simbolo della detenzione amministrativa israeliana.
Arrestato dall'esercito israeliano nel settembre 1992, è stato sottoposto ad una gran varietà di metodi di tortura fisici e psicologici, durante un interrogatorio durissimo che è andato avanti per 120 giorni, e che gli ha causato temporanee perdite di coscienza dovute agli strangolamenti, cecità temporanea e problemi respiratori permanenti.
Nonostante il lungo e durissimo interrogatorio, alla fine le uniche accuse avanzate risultarono essere il possesso di una carta d'identità falsa, di alcuni documenti del F.P.L.P. (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) e il fatto che aveva rifiutato di farsi prendere le impronte digitali.
Il 13 dicembre del '92 il giudice Isaac Stern stabilì che Ahamed Qatamesh dovesse essere liberato su cauzione e messo agli arresti domiciliari.
I militari annullarono l'ordine di rilascio appellandosi alla corte suprema nel gennaio 93.
Nei 10 mesi che seguirono i militari tentarono ripetutamente di ritardare le procedure giudiziarie, e di costringere Ahamed Qatamesh a confessare; fu spostato da un carcere all'altro per impedirgli di presentarsi quando erano previste le sue udienze alla corte d'appello. Le sue udienze furono ripetutamente ritardate dall'accusa che portava avanti nuove richieste e cambiava i capi d'imputazione.
Nonostante tutti questi tentativi di accusare Ahmed di qualche crimine, un giudice della corte d'appello emise un ordine di scarcerazione, e un altro ordine di rilascio fu emesso da un giudice militare il 14 ottobre '93.
Visto che la procura militare non si appellò contro questi ordini di scarcerazione nelle 36 ore previste dalla legge, la moglie e la madre di Ahmed andarono a prenderlo per portarlo a casa. Appena arrivarono furono informate che era appena stato emesso un altro ordine di detenzione amministrativa di 6 mesi.
Da allora gli ordini sono stati rinnovati senza che i militari tentassero nemmeno più di presentare delle prove contro Ahmed, dichiarando che gli elementi incriminanti si trovano tutti nel fascicolo segreto del prigioniero, che né Qatamesh, né il suo avvocato possono vedere.
Qatamesh ha dichiarato che la pubblica accusa gli ha chiesto di appoggiare il processo di pace in Medioriente in cambio del suo rilascio. In caso contrario, opponendosi a questo ricatto dovrà restare in carcere finché non si chiuderanno le trattative sull'autonomia palestinese.
In una situazione simile sono la stragrande maggioranza dei detenuti amministrativi.
Dice Qatamesh :
"da cinque anni sono in carcere e di cosa ho subito non ne parlo perché non è diverso da ciò che hanno subito tanti altri prigionieri. Le pressioni non si fermano"
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Quando si parla di carcere in israele, quest'isola di "democrazia" nel mondo arabo, e bene ricordare che i principali sistemi d'interrogatorio (sia per i detenuti amministrativi che per gli altri) includono:
Insulti ed abusi
Minacce al detenuto e alla sua famiglia
Privazione del cibo e del sonno
La chiusura della testa in un sacco sudicio
Sforzi fisici mentre viene impedita la nomale respirazione
Isolamento, spesso costretti in dolorose posizioni
Uso dei collaboratori per intimidire ed estorcere informazioni
Detenzione in situazioni di caldo o freddo insopportabili
Percosse, soprattutto alla testa con pugni e bastoni
Abusi psicologici (musica assordante sparata nelle orecchie, luce accecante, urla e pianti dirotti di persone)
Sistematiche torture fisiche, "privilegiando" la testa, le spalle e la colonna vertebrale
Appendere i detenuti legati in posizioni dolorose (al-Shabeh)
Vogliamo citare solo alcune testimonianze raccolte da B'tselem del "The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories":
Mahdi Muhammad Sharur - 15 anni - West Bank- imprigionato il 18 maggio '94 e condannato a 15 mesi per lancio di pietre.
"tolsi i vestiti escluse le mutande. Egli (quello che conduceva l'interrogatorio) disse 'toglile' io rifiutai ma alla fine dovetti accettare. Egli prese un fazzoletto di carta e mi afferro i testicoli. Disse 'questo e perché tu confessi' e strinse molto forte. Io cominciai ad urlare, Andò avanti per cinque minuti".
Hani Saleh Muzheir - 21 anni- Gaza- Arrestato il 13 luglio '94 e tenuto sotto interrogatorio fino alla fine di settembre '94.
" per i primi 18 giorni non potei dormire nemmeno un istante. Essi mi facevano ascoltare musica a tutto volume per tutto il tempo. I soldati venivano ogni quarto d'ora, mi controllavano e mi scuotevano per impedirmi di addormentarmi".
"quando mi portavano il cibo mi slegavano le mani, ma mi davano solo due minuti di tempo per mangiare, poi mi legavano di nuovo le mani e portavano via i1 cibo".
Testimonianza di un agente del servizio generale di sicurezza
" il nodo banana ha due diverse versioni:
1) Le gambe del prigioniero vengono legate alle gambe davanti di una sedia senza braccioli e le sue mani vengono poi legate a quelle posteriori.
2) Le gambe e le mani del detenuto vengono legate insieme costringendolo a una posizione inarcata all'indietro."
Per finire vorremmo ricordare che più di 150 detenuti sono morti sotto interrogatorio per le torture o per mancanza di cure. E più di 500 necessitano di interventi chirurgici