LE STRAGI INSOLUTE |
LE STRAGI INSOLUTE
1. L'analisi dei fenomeni eversivi che segnarono la vita del Paese nella prima metà degli anni '70 offre valide coordinate alla Commissione nell'analisi del nodo più rilevante tra i vari oggetti di inchiesta che le sono stati affidati: e cioè le stragi insolute.
Con tale problema la Commissione si era già misurata allo spirare dell'XI legislatura con la "relazione sulle stragi meno recenti" (relatore: deputato Nicola Colaianni) che fu approvata nella seduta del 23 febbraio del 1994.
In tale documento, di natura dichiaratamente interlocutoria, la Commissione indica nelle stragi pregresse (da piazza Fontana sino alla strage di Natale del 1984) un oggetto unitario d'inchiesta distinto, da un lato, dalle stragi remote (Portella della Ginestra e attentati in Alto Adige) e dall'altro, da episodi di terrorismo recente (stragi della primavera-estate 1993, da via Fauro in poi).
In particolare la Commissione aveva fermato la sua attenzione su sei episodi - piazza Fontana (1969), Peteano (1972), piazza della Loggia (1974), treno Italicus (1974), stazione di Bologna (1980), rapido 904 (1984) - preferendo considerare a parte alcuni altri episodi che, pure inseriti nel medesimo ambito temporale, risultavano caratterizzati da atipicità (Gioia Tauro 197, Questura di Milano 1973, Ustica 1980).
Non si mancò peraltro di sottolineare come anche la strage del "904" avrebbe meritato una considerazione a parte, sia per mancanza di legami sostanziali con le altre, sia perché essa appariva sottratta ad una indagine sulle cause della mancata individuazione dei responsabili, poiché questi furono - almeno in parte - identificati e condannati. Tali considerazioni furono ritenute in qualche modo riferibili anche all'attentato di Peteano, episodio di cui risultava individuato il responsabile e che si configurava come rivolto non verso un obiettivo indiscriminato, bensì contro rappresentanti dello Stato, in una logica di "guerra rivoluzionaria".
Analoga atipicità fu rilevata, come già rammentato, oltre che nel disastro di Ustica (1980), anche negli episodi di Gioia Tauro (1970), e della Questura di Milano (1973).
Per il caso di Gioia Tauro si osservò che se nella pubblicistica corrente e nella convinzione diffusa l'episodio veniva considerato senz'altro come una strage, il giudicato penale non consentiva eppure di affermare con certezza che si fosse trattato di una strage e non piuttosto di un sinistro.
Per l'attentato alla Questura di Milano si rilevò invece che, se vi era una sentenza definitiva di condanna riguardante l'esecutore Gianfranco Bertoli, peraltro arrestato in flagranza di reato, la sentenza di primo come quella di secondo grado esponevano in modo assai diffuso ed argomentato i motivi che rendevano non plausibile la responsabilità esclusiva del Bertoli, e giustificavano la permanente pendenza presso l'autorità giudiziaria milanese di un'istruttoria formale diretta all'individuazione di eventuali complici e/o mandanti.
La ricordata relazione Colaianni non mancò di sottolineare la che serie dei casi prescelti coincideva con una particolare stagione della storia della Repubblica, quella delle minacce di colpo di Stato e alla stabilità delle istituzioni democratiche; fu segnalata quindi la necessità di approfondire il tema dell'interazione fra gli episodi di strage e l'evoluzione della costituzione materiale del nostro Paese: il "contesto" cioè delle stragi. E' appunto il compito cui la presente relazione tende ad adempiere, anche se probabilmente in maniera non definitiva.
2. Pur el dichiarato carattere interlocutorio delle sue conclusioni, la Commissione ritenne - nella relazione citata - che l'assenza di credibili rivendicazioni utili ad orientare le indagini costituisse una prima evidente diversità dello stragismo rispetto al fenomeno del terrorismo di sinistra, che ha quasi sempre rivendicato le sue azioni. Ed ha affermato come dato ormai pacifico l'assenza nei casi di strage di elementi che portino verso il "terrorismo rosso". L'eversione di sinistra operava attraverso attentati mirati verso persone determinate (ancorché individuate semplicemente per la divisa indossata), e non ha mai fatto ricorso alla violenza indiscriminata.
Su tali basi la Commissione, dopo aver tracciato un quadro di concordanze utili ad una lettura unitaria dei casi esaminati (scarso numero di "pentiti", apposizione del segreto di Stato, scomparsa di testimoni ed indagati e, soprattutto, sistematica presenza di errori omissioni e sviamenti delle indagini), formulò - al fine di escluderle - le due seguenti proposizioni:
a) che non vi sia stato alcun legame fra un episodio e l'altro e che le concordanze siano solo il prodotto di una serie di coincidenze;
b) che le stragi siano state prodotte da un'unica regia, pur nel succedersi di persone e delle situazioni, ed ispirate ad un unico disegno politico.
Tali soluzioni estreme furono ritenute insoddisfacienti e non persuasive, da un lato per l'improbabilità del carattere casuale delle numerose concordanze riscontrate negli episodi; dall'altro, perché le stesse concordanze non escludevano tuttavia le differenze obiettive tra singoli eventi, sì da rendere improbabile l'ipotesi della regia unica.
In proposito e con particolare riferimento ai due casi risolti da sentenze definitive (Peteano e la strage del treno 904), la Commissione osservò che l'analoga metodologia e lacomune dinamica dei depistaggi e degli allontanamenti non bastavano ad escludere la palese diversità politica dei due casi, attese le differenti personalità dei responsabili accertati (l'avanguardista Vinciguerra e il mafioso Calò) e quindi la diversità degli obiettivi dagli stessi perseguiti.
La Commissione, pertanto, pur non escludendo affatto la possibilità che tre o quattro stragi fossero riconducibili ad un medesimo gruppo e ad uno stesso disegno politico, affermò che non si poteva immaginare una continuità sia dei soggetti che delle finalità per tutto il quindicennio 1969-1984.
Sicché, esclusa la percorribilità di una pista diretta ad individuare un'unica centrale criminosa responsabile di tutti gli episodi di eversione stragista, la Commissione sottolineò come le analogie più inquietanti riguardassero proprio il comportamento degli apparati statali che, in troppi casi, erano apparsi al di sotto delle proprie responsabilità e, non di rado, attivamente impegnati ad impedire il raggiungimento della verità processuale.
Una pista quest'ultima che riconduceva verso la fenomenologia del "doppio stato" o "stato parallelo", definito "una patologia della costituzione materiale, per cui all'interno stesso degli apparati statali si forma un reticolo di connessioni fra soggetti che delinquono, dando luogo ad una sorta di ordinamento antigiuridico, rovesciamento speculare di quello legale".
Conclusioni siffatte appaiono ancora oggi alla Commissione, anche a seguito del dovuto approfondimento reso possibile da una serie di nuove acquisizioni, meritevoli di conferma, sia pure con le precisazioni e le integrazioni che seguono.
3. Non vi è dubbio, infatti, che avuto riguardo all'intero periodo '69-'84, non sussiste la ragionevole possibilità di iscrivere tutti gli episodi di strage in un unico disegno criminoso. Esemplari possono ritenersi, come rilevato nella più volte citata relazione, le diversità, non soltanto di contesto temporale, che separano l'attentato di Peteano del '72 dalla strage di Natale del '94.
Peraltro la Commissione ritiene possibile affermare, con altrettanta certezza, la sussistenza di elementi che accomunano tutti gli episodi considerati, anche quando essi - come nell'episodio ricordato - sono separati da un ampio arco temporale e caratterizzati da notevoli differenze. Nella precedente relazione, tale elemento unificante era stato individuato nel comportamento degli apparati statali, apparsi spesso attivamente impegnati ad impedire il raggiungimento della verità processuale e comunque non all'altezza dei compiti loro demandati. I depistaggi già ricondotti alla patologia del "doppio Stato" o "Stato parallelo" costituirebbero quindi l'elemento unificante delle stragi. E' affermazione che merita oggi una conferma, che peraltro appare opportuno inserire in una riflessione più ampia.
Ciò che rende suscettibili di una lettura unitaria fenomeni, in sé differenti, come l'attentato di Peteano e la strage del 904, è il rilievo che essi si radicano - e diventano leggibili - in un piano occulto di realtà, caratterizzato da "corsi" o "flussi" sotterranei che scorrono al di sotto del piano visibile degli eventi. Vi è quindi un doppio livello della storia che coinvolge anche apparati statali, partecipi anche essi di vicende non visibili nel momento in cui accadono, e divengono conoscibili soltanto con il trascorrere degli anni e molto spesso a fatica. E' in tale duplicità dei piani di realtà che si radica e si caratterizza la fenomenologia del "doppio Stato", che la relazione del '94 definì quale esito patologico del reticolo di connessioni interne agli stessi apparati statali.
Anche tale valutazione può essere condivisa, ma essa, a sua volta, deve essere inserita in una prospettiva più ampia.
Non è dubbio che l'ideale democratico imporrebbe una trasparenza assoluta nella vita delle istituzioni. Deve però constatarsi come tale ideale non si sia mai pienamente realizzato negli ordinamenti democratici storicamente conosciuti, in ciascuno dei quali permane un'area di inconoscibilità più o meno ampia, di opacità, di non trasparenza. La stessa nozione del segreto di Stato riconduce a questa innegabile fenomenologia.
Sicché può affermarsi, sul piano di una realistica considerazione della natura delle istituzioni, la sussistenza di una permanente tensione verso l'ideale democratico - non ancora pienamente conseguito - di una piena trasparenza. La sussistenza di uno scarto tra modello ideale e concreto atteggiarsi dei vari ordinamenti consente di affermare che la "misura" della loro (maggiore o minore) democraticità può porsi correttamente in termini di proporzione inversa:
-all'ampiezza dell'area di invisibilità ;
-all'ampiezza temporale del periodo dell'indicibilità destinata a coprire le vicende istituzionali non immediatamente ostensibili.
Sicché, con riferimento al caso italiano e al periodo storico considerato, a colpire negativamente è non soltanto l'ampiezza dell'area di invisibilità, che ha finito con il coprire anche eventi delittuosi di estrema gravità e in alcun modo giustificabili, ma anche il permanere in gran parte degli apparati (e quindi nei protagonisti istituzionali del periodo) di un'area di indicibilità, che è ancora lontana dall'essere superata, se non per vaghe allusioni e prime timide ammissioni.
Sicché se il piano non visibile degli eventi, cui prima si è fatto riferimento, comincia ad essere disvelato (sì da essere divenuto, sia pur per grandi linee, sufficientemente conoscibile), ciò ha costituito il frutto di un'attività indagativa giudiziaria (pur costellata di ricorrenti errori, contraddizioni e disarmonie) che è incessantemente proseguita, fino ad oltre un quarto di secolo di distanza dagli episodi più antichi, e che potrà forse in un prossimo futuro condurre ad ulteriori risultati.
E' vero peraltro che il tempo trascorso opera in una doppia e opposta direzione: da un lato, esso indebolisce il tessuto di collusioni e complicità che ha frapposto ostacoli all'accertamento della verità; dall'altro, rende remota la possibilità che in ordine ad episodi ormai lontani nel tempo possa formarsi una "prova giudiziaria" idonea all'affermazione delle responsabilità penali dei soggetti responsabili degli eccidi (autori materiali, mandanti immediati e indiretti). E tuttavia se una prova giudiziaria non solo si è formata, ma è possibile che non si formi neppure in futuro, non vi è dubbio che una "prova storica o sociale" si sia già formata, almeno per la maggior parte degli episodi esaminati, e che detta prova consente già ora - ma probabilmente consentirà anche meglio in un futuro prossimo - la formulazione di un giudizio storico-politico che abbracci i singoli episodi e il contesto in cui si sono determinati.
Già in atto la Commissione ritiene infatti possibile (in virtù di nuove e recenti acquisizioni, ma soprattutto grazie alla prospettiva di insieme che si è ritenuto opportuno adottare) leggere, sia pure per grandi linee, il corso occulto degli eventi che ha sotterraneamente attraversato la vita della Repubblica, decifrandone i flussi sotterranei ed i relativi luoghi di intreccio, e chiarendo come il livello occulto abbia avuto costante influenza e talvolta capacità di condizionamento su quello apparente della vita ufficiale del Paese. In tale prospettiva gli eventi di strage sono momenti in cui tale realtà occulta affiora tragicamente ed interseca il piano della storia visibile.
Non può perciò sorprendere che tali eventi, al loro verificarsi, siano apparsi inspiegabilmente gratutiti e quindi misteriosi. A renderli comprensibili può infatti valere soltanto il disvelamento del "lato oscuro" della storia repubblicana, dove risiedono insieme, spesso in termini di coincidenza, le cause dei fenomeni e le ragioni della loro persistente impunità.
4. E' vero, peraltro, che un disegno unificante di diversi eventi di strage non può cogliersi se non nei limiti appena delineati, ove si abbia riguardo all'interno arco temporale ('69-'84) considerato. A conclusione diversa appare, però, possibile giungersi, ove si abbia riguardo invecead un arco temporale limitato, dalle origini dello stragismo fino alla prima metà degli anni '70. Le tre stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia e del treno Italicus appaiono riconducibili, in termini di elevata probabilità, se non ad un disegno unico almeno ad un contesto unitario; con una differenza tra unicità del disegno criminoso e unitarietà del contesto, il cui significato verrà in seguito meglio specificato.
Ciò che invece subito precisato è come tale contesto unitario si chiuda temporalmente nel periodo '69-'74. Una riflessione complessiva sugli anni '70 spinge infatti ad attribuire alla metà del decennio il valore di un discrimine, di uno spartiacque preciso. Si è già visto infatti, con riferimento al terrorismo di sinistra, come il fenomeno, ad onta della sua continuità, conosca differenze precise tra prima e seconda metà del decennio. Si vedrà in seguito come analogo giudizio possa essere formulato anche con riferimento all'eversione di destra; così come saranno chiarite le ragioni internazionali che consentono di situare intorno alla metà di quel decennio un vero e proprio punto di svolta, di "passaggio di fase".
Tale ultimo rilievo conferma come il "lato oscuro" della storia della Repubblica sia stato fortemente influenzato e condizionato da una situazione internazionale di tragica frontiera assegnata all'Italia dalla divisione del mondo in due blocchi, laddove il termine frontiera afferisce non soltanto alla collocazione strategica dell'Italia nello scacchiere del Mediterraneo, ma anche alla "sacralità" territoriale che all'Italia derivava dalla presenza vaticana.
Ed il riferimento al contesto internazionale consente di chiarire altresì come la fenomenologia del doppio Stato nel periodo considerato, sia venuta strettamente a collegarsi alla "doppia lealtà" o al "doppio giuramento di fedeltà" che ha vincolato, in termini che oggi possono serenamente riconoscersi quasi di stringente necessità, un gran numero di attori istituzionali, politici e sociali. Essi si trovarono ad agire in un contesto che in più sedi è stato acutamente definito di "sovranità limitata" e da cui è derivata una ampiezza della fenomenologia del "doppio Stato" maggiore rispetto ad altre esperienze occidentali, e non riducibile per le medesime ragioni all'ambito dei soli apparati di sicurezza.
5. Sono queste le coordinate generali che consentono di ricondurre le tre insolute del '69 e del '74 al contesto unitario (e non all'unico disegno) cui appaiono riferibili oggi anche episodi che ad una prima riflessione apparvero segnati da atipicità. Il riferimento è innanzitutto all'attentato di Peteano, ma si estebde, sia pure in termini di minore intensità, agli episodi di Gioia Tauro (1970) e della Questura di Milano (1973).
Quanto all'attentato di Peteano è pur vero che il suo autoren confesso, Vincenzo Vinciguerra, ne ha rivendicato una "purezza rivoluzionaria", che lo porrebbe al di fuori ed anzi in funzione antagonista rispetto agli accordi collusivi con apparati istituzionali che avrebbero sostanziato la cosiddetta "strategia della tensione". Ma è altrettanto vero che proprio tale presupposizione vale a ricondurre l'episodio all'anzidetto contesto unitario, in una prospettiva che agevolmente individua nelle coperture istituzionali dell'episodio - già innanzi ampiamente descritte - una ragionevole e forte conferma dell'assunto.
Quanto all'attentato di via Fatebenefratelli, è dagli ulteriori sviluppi di indagini recenti parallelamente in corso presso due distinti G.I. di Milano (dottor Salvini e dottor Lombardi), che vengono indicazioni, sia pure non ancora univoche e probanti, di una sua riconducibilità all'anzidetto contesto unitario.
Analogamente sono sempere spunti investigativi nascenti dalle indagini condotte dal dottor Salvini che hanno recentemente consentito di ipotizzare che l'episodio di Gioia Tauro si caratterizzi come evento di strage, in una logicache per alcuni profili collegherebbe al contesto anzidetto anche i moti di Reggio Calabria del '70, che pure conservano il prevalente carattere di una insurrezione popolare.
Si tratta - è appena il caso di sottolinearlo - di ipotesi investigative di cui non è ancora dato apprezzare la consistenza, anche se non appare irrilevante l'univocità e la convergenza nella direzione cui le ipotesi stesse conducono. Esse appaiono quindi almeno storicamente verosimili tenuto conto che tra il 12 dicembre 1969 (strage di PIazza Fontana) e il 4 agosto 1974 (strage dell'Italicus) la storia della Repubblica registra un'eccezionale concentrazione di gravi episodi delittuosi in danno della personlità interna dello Stato, con un succederi e un intrecciarsi di atti di terrorismo e di progetti eversivi che non averebbero avuto pari neppure nei tormentatissimi anni del decennio successivo, pure funestati da eventi stragisti e da attentati a singoli di straordinaria gravità. L'analii specifica del periodo ha infatti già portato la Commissione ad affremare i termini di ragionevole certezza che nel periodo '70 e '74 furono attivi una pluralità di gruppi ev
ersivi di ispirazione ideale anche in parte diversa, la cui azione convergeva operativamente nel tentativo di determinare un pronunciamento militare o comunque una involuzione autoritaria delle istituzioni dello Stato; una convergenza operativa che ebbe le sue punte estreme nel tentato golpe del dicembre 1970 e nei progetti degli anni '73-'74.
Tra i due momenti è dato tuttavia cogliere una differenza significativa: nel primo caso si è in presenza di un tentativo di vero e proprio golpe militare, ancorché rapidamente rientrato, perchè arrestatosi nella sua fase iniziale; nel secondo caso invece ciò a cui si tendeva attraverso una forte pressione di apparati istituzionali e militari era la proclamazione di una Repubblica presidenziale, ancora di carattere formalmente democratico, ma con un forte restringimento dei diritti civili e degli ambiti di libertà individuale e sindacale.
Nel primo caso erano quindi illeciti sia i mezzi sia i fini; nel secondo cao invece il fine era almeno apparentemente legittimo, ma i mezzi restavano ancora indubbiamente illeciti.
Sono affermazioni cui la Commissione giunge utilizzando esclusivamente acquisizioni dotate del carattere della certezza o almeno della forte probabilità; e ciò in coperenza con le analisi largamente prevalenti nella pubblicista e nella storiografia contemporanea che si sono occupate del periodo.
Gli attentati di tipo stragista, in tale contesto, furono mesi in atto con mezzi assulutamente adeguati - e forse indispensabili - al fine di determinare un clima di forte tensione politica, che giustificasse l'intervento militare o comunque una forte richiesta sociale d'ordine e di involuzione autoritaria delle istituzioni.
Molti attentati ormai disvelati sono riconducibili in termini di certezza a tale progetto eversivo anche per quanto concerne l'accertamento giudiziario delle singole responsabilità; Per altri episodi (e in particolare per le tre grandi stragi insolute che tragicamente segnarono il periodo) non si è raggiunta ancora una prova giudiziaria di individuali responsabilità: e tuttavia delle loro riferibilità al medesimo contesto non sembra ragionevole dubitare e non soltanto perché si tratta di avvenimenti con quel contesto assolutamente coerenti e dei quali non è possibile fornire ricostruzioni alternetive che abbiano i requisiti della ragionevolezza e della credibilità. Decisiva è infatti la pluralità di cosonanze che legano i tre episodi tra loro ed insieme al contesto. Infatti il segmento temporale che si conclude con la strage dell'Italicus concentra in modo particolarmente significativo i ruoli primari di soggetti, gruppi e settori di apparati di
sicurezza, ricorrentemente collegati tra loro sì da connotare con valenza fortemente strategica il succedersi degli episodi.
Negli anni successivi le modalità e gli obiettivi intermedi dei fatti di eversione si faranno più sofisticati, e comprenderanno una presenza e un'incidenza tattica nelle vicende giudiziarie dei singoli episodi del periodo anteriore.
Deve ora essere precisato in quali limiti alla unitarietà del contesto descrito non corrisponda probabilmente una unicità di disegno operativo.
Sembra infatti possibile affremare, allo stato ancora parziale delle acquisizioni, che la convergenza operativa tra i vari gruppi eversivi (anche per la diversità dei loro referenti istituzionali all'interno dei vari apparati), non sia stata caratterizzata da totale consonanza, apparendo invece segnata anche da momenti di antagonismo o di condizionamento reciproco. Ciò anche in ragione di una non piena identità di obiettivi, ed insieme del fatto che, nel convulso succedersi degli eventi, alcuni soggetti sembrerebbero essersi attivati dapprima in funzione di un obiettivo e, successivamente, in funzione di obiettivi parzialmente diversi, con mutamenti di campo che dovettero necesariamente attivere tensioni interne e contrasti.
Esemplare in tal senso può ritenersi l'imputazione elevata dall'ordinanza-sentenza del 3 agosto 1994 dal G.I. dottor Grassi (174) nei confronti di ufficiali in gran parte appartenenti al servizio militare di informazione (Maletti, Labruna, D'Ovidio; Mannucci Benincasa, Nobili, Musumeci, Belmonte) e a Licio Gelli, per essersi illecitamente attivati, unitamente ad altri militari, ad esponenti politici di governo e neofascisti per mutare, dapprima in senso autoritatio e illiberale e poi in forma di repubblica presidenziale la Costituzione dello Stato. Due linee di tendenza appaiono già infatti chiaramente ravvisabili: la prima pienamente golpista, la seconda tendente invece, sia pure con mezzi illeciti, a determinare un'evoluzione presidenziale della Repubblica al di fuori dell'ordinato dispiegarsi delle dinamiche politiche nelle forme previste dall'ordinamento giuridico.
Son linee di tendenza che possono ragionevolmente ritenersi compresenti anche all'interno dei medesimi episodi. Così, ad esempio, il tentativo di golpe del dicembre del '70 può ritenersi ragionevolmente voluto in una prospettiva golpista, ma ispirato in una prospettiva minore e diversa, in cui era implicito sin dall'inizio l'intento di una desistenza quasi immediata.
All'interno di tali complesse dinamiche, già intuibili su solide basi, ma ancora non pienamente chiarite, la riconducibilità delle tre stragi insolute al medesimo contesto unitario lascia aperto lo spazio ad una alternativa: e cioè che le stesse (in particolare quella di piazza Fontana) siano state strumentali alla determinazione di una situazione di tensione sociale favorevole al golpe militare; ovvero che le stesse (e in particolare quelle del '74) abbiano costituito, all'interno della dinamica dei gruppi eversivi, un momento di contrasto alla tendenza di abbandono della prospettiva più dichiaratamente golpista.
6. Alla stregua delle considerazioni svolte non appare quindi produttivo ripercorrere nel dettaglio la complessa storia dei procedimenti giudiziari che si sono nel tempo attivati in ordine a ciascuna delle tre grandi stragi insolute; né analizzare ciascuna delle ipotesi accusatorie che nel tempo sono state affacciate e nessuna delle quali è riuscita a condurre ad una definitiva condanna. Una precisa e dettagliata analisi delle varie vicende e fasi processuali è già contenuta negli allegati alla citata relazione Colaianni, cui si fa rinvio per evitare inutili ripetizioni di pagine notissime della vita nazionale, anche per il clamore che gli altalenanti esiti giudiziari determinarono nella pubblica opinione.
Va invece subito rilevato come le generali soluzioni assolutorie cui si è infine pervenuti, non consentano di ritenere precluso almeno sul piano storico un accertamento della verità che segua la medesima direzione ricostruttiva. E ciò non soltanto perché la maggior parte delle assoluzioni sono state pronunciate con la formula dubitativa (il che significa che prove di responsabilità si erano formate a carico di diversi imputati, sia pure in maniera non sufficiente a consentire di giungere a definitive pronunce di condanna); ma soprattutto perché per ciascuna delle tre stragi sono ancora in corso indagini giudiziarie orientate sui medesimi ambienti o contesti già attinti dal sospetto di responsabilità. Tali indagini seguono almeno in parte piste già ampiamente battute che oggi, sulla base di nuove acquisizioni, vengono ripercorse nella prospettiva di giungere a più utile e proficuo risultato.
In qualche ipotesi l'accertamento della verità potrebbe non rivelarsi sufficiente a colpire alcune responsabilità individuali, già coperte, per determinati fatti, da giudicati assolutori. Prezzo amaro che l'ordinamento potrebbe dover pagare ad insopprimibili e fondamentali esigenze di garanzia e di certezza, che costituiscono per tutti presidio di libertà.
In particolare attualmente sono in corso istruttorie:
a) presso la Procura di Milano per la strage di piazza Fontana, indagine che muove dall'istruttoria del G.I. Salvini e che conduce verso gli ambienti ordinovisti in ispecie del Veneto; e cioè in una direzione processuale precedentemente percorsa, ma arricchita ora da nuove acquisizioni, utili soprattutto a cogliere la matrice internazionale di un complessivo disegno strategico;
b) presso la Procura di Brescia per la strage di piazza della Loggia, in diretta derivazione dalle indagini milanesi;
c) presso la Procura di Bologna per la strage dell'Italicus, indagine che nasce dalla trasmissione degli atti disposta dal G.I. Grassi con la già citata ordinanza e che parrebbe aver ricevuto anch'essa nuova linfa dall'indagine milanese.
Non è agevole prevedere se le indagini predette possano in tutto o in parte condurre a definitivi accertamenti penali di responsabilità, a tanta distanza di anni dai tragici eventi che ne costituiscono l'oggetto.
Le recenti polemiche insorte tra diversi uffici giudiziari (che attengono peraltro non già al merito delle indagini, quanto a profili formali attinenti alla giurisdizione, alla competenza e alla regolarità nell'acquisizione delle prove) non agevolano una prognosi favorevole. Parrebbe riprodursi una costante delle vicende giudiziarie relative alle stragi insolute, dove l'impegno che ha caratterizzato il lavoro giudiziario - impegno meritorio per professionalità e persistenza - è stato spesso, se non vanificato, almeno ostacolato da atteggiamenti e decisioni interne allo stesso potere giudiziario.
7. Peraltro ciò che colpisce nelle nuove acquisizioni (per la parte in cui le stesse non sono coperte da segreto istruttorio) è il loro atteggiarsi come nuovi ulteriori tasselli di un mosaico, in cui coerentemente vengono ad inserirsi rendendone più chiaro il generale disegno, già sufficientemente intellegibile benché incompleto.
In particolare si conferma che molti elementi utili alla conoscenza del quadro strategico, ance internazionale, in cui gli eventi di strage venivano ad inserirsi, erano noti agli apparati di sicurezza già nella immediatezza dei tragici eventi, ma che tali elementi non furono tempestivamente portati a conoscenza degli inquirenti in una logica di occultamento e spesso di vero e proprio depistaggio, dato questo che costituisce tuttora un elemento unificante idoneo a fondare sul piano di una consistente "prova storica" la riferibilità degli eventi di strage al delineato contesto unitario.
Tale contesto è ben delineato da una pluralità di fonti che evidenziano, nella storia repubblicana anteriore alla stagione dello stragismo, la costante presenza di reti clandestine, che avevano come punti di riferimento diversi apparati istituzionali dello Stato, e cioè l'Amministrazione dell'interno e in particolare l'Ufficio affari riservati, il servizio militare di sicurezza, vertici delle forze armate: un reticolo fitto di contatti e di collusioni, un'ampia area non trasparente ed opaca, che conobbe fino al termine degli anni '60, come si è già descritto, una situazione di sostanziale potenzialità operativa, e che venne ad attivarsi - in una logica che potremmo definire di innesco - all'esplodere delle tensioni sociali che caratterizzarono la fine degli anni '60.
Su tali basi i ricorrenti "depistaggi" delle indagini giudiziarie sui fatti di strage, se hanno operato quale ostacolo all'accertamento delle singole responsabilità degli autori degli atti criminosi, ben possono ora consentire l'individuazione delle aree e degli ambiti oggetto di copertura, fondando sul piano storico la valutazione che le responsabilità non accertate siano ragionevolmente da riferirsi alle aree e agli ambiti coperti.
Ed infatti l'adesione ad un opposto ordine argomentativo, che affermasse una diversità tra gli oggetti della copertura e le aree cui sono addebitabili gli eventi restati impuniti, renderebbe l'attività di copertura gratuita e senza scopo; conclusione quest'ultima che non può essere condivisa in ragione della sua illogicità.
D'altro canto uno dei protagonisti di quegli anni, Stefano Delle Chiaie, ha di recente dichiarato ad organi di informazione in ordine alle responsabilità dello stragismo: "Le stragi vi sono state ed è un fatto. I servizi hanno depistato, ed è un altro fatto". Egli ha così chiaramente ammesso che l'atto di depistaggio, se opportunamente decrittato, può valere a rendere leggibile, almeno in termini generali, l'ambito di responsabilità che si è voluto occultare.
8.1. Alcuni esempi in proposito sembrano alla Commissione illuminanti.
Le indagini milanesi, cui più volte si è fatto riferimento, indicano nel leader di A.N. Stefano Delle Chiaie, un uomo fortemente collegato non solo con il SID, ma con la struttura internazionale del terrore "Aginter Press", facente capo a Guerin-Serac con sedi in Spagna, Portogallo e Francia (che funzionava da contenitore e coordinatore dei movimenti neofascisti nazionali, e agiva in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto a questi, soprattutto garantendo rifugi per latitanto, rifornimento di armi e consulenza di istruttori militari) e con la mafia (in particolare con Frank Coppola ai tempi del golpe Borghese).
Orbene è documentalmente acertato che una fonte (ovviamente ignota) del SID appena quattro giorni dopo la strage di piazza Fontana aveva attribuito gli attentati all' "anarchico Merlino Mario, per ordine del noto Stefano Delle Chiaie; [...] la mente organizzatrice degli stessi sarebbe tale Y. Guerin-Serac (175), cittadino tedesco il quale risiede a Lisbona dove dirige l'agenzia Ager-Interpress (sic) [...], è anarchico, ma a Lisbona non è nota la sua ideologia; [...] ha come aiutante un certo Leroy Roberto".
In realtà i documenti del SID erano due. L'appunto originale recava la data del 16 dicembre e differiva in alcuni punti significativi da quello trasmesso alla Polizia e ai Carabinieri il 17, probabilmente per proteggere la fonte del SID, che, secondo il documento stesso, "deve essere assolutamente cautelata, anche perché già interrogata dalla questura non ha fornito le notizie di cui trattasi". Un particolare cruciale contenuto nel primo, e omesso nel secondo appunto, riguarda l'uso di congegni a orologeria negli ordigni usati a Milano. In quei primi giorni dopo la strage, gli inquirenti milanesi ritenevano ancora che le bombe fossero state fatte esplodere con una miccia a lenta combustione, e la stampa aveva dato ampio spazio a questa ipotesi; l'impiego di congegni ad orologeria fu scoperto solo più di un mese dopo. E' allora "lecito chiedersi - secondo il P.M. Lombardi di Catanzaro - come mai la sera del 13 dicembre, o qualche giorno dopo, a Roma si potessero cono
scere circostanze, alle quali non poteva certo risalirsi per analisi degli avvenimenti, ma solo per scienza diretta".
Altrettanto significativa appare la soppressione, nell'edizione purgata dell'appunto SID trasmesso a Polizia e Carabinieri, dell'informazione relativa all'infiltrazione di Mario Merlino, con funzione di guida nel gruppo "22 marzo", definito come filocinese nell'appunto originario.
In realtà tale formazione era costituita da un gruppuscolo esiguo di una decina di membri di orientamento anarcoide; esso costituì l'improbabile "pista rossa", verso cui si indirizzarono immediatamente le indagini milanesi con enorme eco sui media (176).
La scarsa consistenza del gruppo avrebbe dovuto rendere immediatamente inverosimile l'esclusiva riferibilità ad esso di una pluralità di attentati sincronizzati che, per tecniche e materiali usati (esplosivi, timers, contenitori degli ordigni, ecc.) apparivano chiaramente inseriti in un unico disegno, e cioè: la bomba che esplose nel pomeriggio del 12 dicembre in piazza Fontana nella sede milanese della Banca dell'Agricoltura; la bomba inesplosa rinvenuta sempre a Milano nella filiale della Banca Commerciale italiana di piazza della Scala; le tre esplosioni che quasi contemporaneamente si verificarono a Roma, una nell'agenzia della Banca Nazionale del Lavoro in cui rimasero feriti quattordici impiegati; le altre due nei pressi dell'Altare della Patria con ferimento di quattro persone. Un'operazione di alta professionalità, quella richiesta dalla simultanea collocazione di cinque bombe ad alto potenziale in due città distanti centinaia di chilometri l'una dall'altra, che avr
ebbe dovuto sin dall'inizio renderne non plausibile l'attribuzione esclusiva ad un gruppuscolo come il "22 marzo", peraltro plurinfiltrato. Dello stesso infatti, come ormai è stato accertato, faceva parte un agente di Polizia (Salvatore Ippolito, alias "il compagno Andrea") che informava regolarmente i suoi superiori dei progetti e delle iniziative del gruppo, in precedenza quasi tutte miseramente fallite.
Ma soprattutto rilevante è l'infiltrazione, nel gruppo di ispirazione anarchica, da parte di Mario Merlino, figura che a torto è stata più volte ritenuta ambigua ma che alla Commissione appare estremamente "tipica", e la cui esperienza personale attraversa il "contesto" eversivo descrivendone con chiarezza le dinamiche evolutive. Merlino partecipa, infatti con Delle Chiaie al convegno dell'Istituto Pollio del 1965, quale componente di un gruppo di venti studenti universitari che l'Istituto stesso (diretta emanazione dei vertici militari) aveva "pregato - dopo una selezione di merito - di prendere parte ai lavori appunto come gruppo" (così testualmente nella già citata relazione introduttiva agli atti del convegno).
Successivamente Merlino aderisce a Ordine Nuovo, alla Giovane Italia e poi ad Avanguardia Nazionale. Nella primavera del 1968 partecipa ad una "escursione" nella Grecia dei colonnelli, formalmente organizzata dall'Esesi, l'associazione degli studenti greci in Italia. La gita era guidata da Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie, Loris Facchinetti (leader di "Europa Civiltà") e ad essa parteciparono alcune dozzine di militanti (oltre alla leadership di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale). I partecipanti furono accolti dai dirigenti del regime amico, e sottoposti ad una sorta di corso accelerato in quelle tecniche di infiltrazione a scopo eversivo che erano state impiegate con successo in Grecia l'anno precedente. Al rientro in Italia gli "studenti" si dedicarono a loro volta all'applicazione sistematica di queste tecniche, cercando di inserirsi in gruppi dell'estrema sinistra.
8.2. Analogo segno e quindi univocità direzionale ebbero, come è noto, le coperture che ostacolarono le indagini una volta che queste si concentrarono su una cellula neofascista padovana le cui caratteristiche e i cui scopi furono così ricostruiti già in una prima sede giudiziaria: "un'organizzazione eversiva operante nel territorio nazionale con una serie progressiva di attentati terroristici sempre più gravi finalizzati a conseguire, con lo sconvolgimento della tranquillità sociale, l'abbattimento delle strutture statali borghesi. [...] Questo movimento sovversivo era nato con un'impostazione di tipo nazi-fascista; si articolava su una direttrice veneta che faceva capo al Freda, nonché su un'altra romana che faceva capo a Stefano Delle Chiaie, [...] aveva elaborato la sua strategia di base in una fondamentale riunione, tenutasi il 18 aprile 1969 a Padova, alla quale erano intervenuti il Freda ed altri esponenti di rilievo della cellula eversiva ve
neta e di quella romana. In quella riunione si era concepito il programma della cosiddetta seconda linea o doppia organizzazione, secondo cui occorreva strumentalizzare, con opportune manovre di infiltrazione e di provocazione, i gruppi estremisti di sinistra, in modo da compromettere questi ultimi negli attentati e farli apparire come responsabili di una attività eversiva la cui reale matrice, invece, era di destra" (177).
A tale gruppo, fanaticamente antisemita, possono essere certamente attribuiti ben ventidue attentati nel breve periodo intercorrente fra il 15 aprile e il 12 dicembre '69, finalizzati ad una tipica strategia di provocazione e colpevolizzazione della parte politica avversa, secondo gli schemi caratteristici della guerra rivoluzionaria, che aveva avuto nel convegno dell'istituto Pollio il sottolineato momento di ufficializzazione.
Organizzatore e in parte esecutore materiale di tali attentati fu il capo ed ispiratore del gruppo padovano, Franco (Giorgio) Freda, discepolo di J. Evola, avvocato, editore e ideologo; già membro del MSI e di Ordine Nuovo, legato a Rauti e Giannettini fin dal 1966. Anche il personaggio di Freda - come del resto Merlino - consente di verificare la partecipazione di medesimi soggetti in una pluralità di episodi successivi, in un fitto reticolo di intrecci che dimostra l'esistenza del contesto unitario dello stragismo ed insieme ne descrive i caratteri. Al riguardo, si noti che:
a) Freda con la collaborazione di Ventura è l'autore del volantino distribuito tra le Forze armate per iniziativa di sedicenti Nuclei di difesa dello Stato. Le recenti indagini milanesi già più volte richiamate tendono a dimostrare che i Nuclei per la difesa dello Stato non erano una mera sigla, ma una vasta rete clandestina di militari e civili operativa sin quasi alla metà degli anni '70;
b) il contenuto del volantino richiama quello del noto pamphlet "Le mani rosse sulle Forze armate" opera di Guido Giannettini e Pino Rauti;
c) Giannettini è uomo vicinissimo, già nella metà degli anni '60, ai massimi vertici delle Forze armate, come dimostra il suo ruolo nel convegno dell'Istituto Pollio;
d) la certezza che Freda sia stato l'organizzatore e l'autore degli attentati innanzi descritti dimostra che dalla primavera del 1969 lo stesso Freda pose in atto le metodologie operative che nel convegno dell'Istituto Pollio erano state studiate ed ufficializzate;
e) Guido Giannettini è oggetto, nella vicenda processuale di piazza Fontana, di uno dei più noti episodi di copertura da parte del SID, che ne svelò la sua qualità di fonte accreditata del servizio medesimo.
8.3. Il più importante - anche se non il solo - elemento di prova contro Freda per la strage di piazza Fontana può ancora oggi ritenersi l'acquisto da parte sua du cinquanta timers della stessa marca e dello stesso tipo di quelli usati negli attentati del 12 dicembre; acquisto che inverosimilmente Freda giustificò riconducendolo alla sua attività antisemita e assumendo di averlo operato per mandato di un fantomatico ufficiale dei servizi algerini (il "capitano Hamid"), cui li avrebbe consegnati già nella prima metà del '69.
La recente indagine milanese rafforza il significato accusatorio della vicenda dei timers e del loro acquisto da parte di Freda. Diversi collaboratori di giustizia provenienti dall'area di destra (Bonazzi, Calore, Izzo) hanno infatti confermato che l'attentato al treno Torino-Roma del 1973 (per cui furono condannati Nico Azzi ed il gruppo milanese La Fenice), si inseriva nel contesto di un'azione provocatoria, che comportava anche la collocazione di alcuni timers appartenenti al lotto usato a piazza Fontana in una villa di Giangiacomo Feltrinelli; il che proverebbe che ancora nel 1973 i timers erano in possesso del gruppo milanese La Fenice e non erano stati invece consegnati al fantomatico capitano Hamid.
Un'ulteriore conferma di questa ipotesi viene da una delle fonti (Edgardo Bonazzi), destinatarie di confidenze di Pierluigi Concutelli, secondo cui questi, alla fine del 1978, sarebbe stato avvicinato nel carcere di Trani da Franco Freda che gli proponeva di farsi passare per il capitano Hamid, al fine di confermare la tesi difensiva. "Concutelli mi disse che proprio dinanzi a questa proposta si era convinto della colpevolezza del gruppo Freda, e aveva allentato i rapporti con Freda stesso che inizialmente erano stati buoni" (178).
Da altra fonte (Salvatore Francia) si apprende poi che i timers sarebbero da ultimo finiti nella disponibilità di Stefano Delle Chiaie, che li avrebbe avuti da Cristiano de Eccher, militante trentino di Avanguardia Nzionale, cui li avrebbe consegnati originariamente lo stesso Freda; tale possesso avrebbe consentito a Delle Chiaie di tenere Freda "sotto controllo" (179).
Tutto ciò si è voluto ricordare sia per dare ragione della formula dubitativa con cui si è pervenuti alla assoluzione finale del Freda dall'imputazione di strage, sia per confermare come le nuove indagini diano maggiore consistenza e spessore a piste indagative già percorse.
Ma soprattutto il richiamo a tali aspetti, per larga parte noti, è apparso opportuno per sottolineare ulteriormente l'univocità direzionale delle attività di copertura, che in termini di certezza, possono ritenersi messe in atto sia da apparati dell'Amministrazione dell'interno che dal servizio militare di informazione; e in ttermini di fortissima probabilità possono considerarsi determinate dal delineato intento di ostacolare le indagini che avevano assunto un preciso indirizzo.
8.4. In sede giudiziaria è stato osservato come le indagini - non appena indirizzate sul gruppo padovano - incontrarono difficoltà ed ostacoli "caratterizzati da un segno comune: quello di occultare o disperdere gli elementi di prova che avrebbero potuto essere utilizzati a carico dei componenti la cellula eversiva veneta" (180).
Si rammentano, senza pretesa di completezza: la campagna che andò ben al di là di un tentativo di delegittimazione, di cui fu vittima il commissario di Polizia Juliano, che per primo aveva sospettato la responsabilità del gruppo padovano negli attentati della primavera del 1969; il tentativo della Polizia di Treviso di screditare la pista indagativa appena imboccata, insinuando che Giovanni Ventura fosse un mitomane e Guido Lorenzon persona non qualificata a receverne le confidenze; i ritardi e le incompletezze con cui furono portati a conoscenza dei magistrati inquirenti elementi indiziari utili, relativi alle borse che contenevano gli esplosivi; la distruzione dell'esplosivo, non soltanto di una delle bombe di Milano rirtovata inesplosa, ma anche di quello, ritrovato in possesso di Giovanni Ventura e di suo fratello, che fu fatto esplodere alla presenza di Franco Freda senza che ne fosse stato preavvisato il magistrato che aveva già disposto perizia e senza che ne fosse prelevat
o neppure un campione (ciò per il pretestuoso motivo che, essendo deteriorato, esso era pericoloso, compromettendo così la possibilità di compararlo con gli attentati del 12 dicembre 1969); la frequente vanteria di Ventura secondo cui il suo gruppo era saldamente protetto dietro "catene e catenacci", possibile allusione al dottor Elvio Catenacci, capo dell'ufficio Affari Riservati del Ministero dell'interno, che aveva condotto con le modalità descritte le indagini sulle borse ed aveva svolto l'ispezione amministrativa che condusse alla sospensione del commissario Juliano.
In ordine a tutto ciò non può escludersi essersi trattato soltanto di negligenze colpose o di coincidenze casuali; ma in senso contrario colpisce la circostanza che nessuno dei funzionari coinvolti negli episodi medesimi subì conseguenze disciplinari da parte dell'Amministrazione degli interni.
8.5.1. Ancor più clamorose, anche per lo scalpore che suscitarono nell'opinione pubblica una volta disvelate, furono le attività del SID volte alla copertura di Marco Pozzan e Guido Giannettini.
Pozzan, bidello di una scuola per ciechi di Padova, era uno stretto collaboratore di Freda e nel corso di due interrogatori alla presenza del difensore (21 febbraio e 30 marzo 1972) aveva fornito molti particolari sul ricordato incontro di Padova del 18 aprile 1969, affermando, tra l'altro, che Pino Rauti era tra i presenti e che fu presa in quella circostanza la decisione "di approfittare della tensione politica e sociale in atto inserendosi con iniziative utili ad acuirla". Pochi giorni più tardi Pozzan dichiarò di aver parlato in condizioni di "inspiegabile confusione mentale", ritrattando ogni cosa. Non appena rilasciato, si rese irreperibile. Qualche mese dopo venne "intercettato" da alcuni agenti del SID che lo convocarono a Roma dove fu ospitato per diversi giorni in un appartamento del Servizio. Dopo di che gli fu fornito un passaporto con falso nome e un sottufficiale del Servizio lo accompagnò in Spagna, dove fece immediatamente perdere le proprie
tracce. Responsabile dell'operazione furono il generale Gian Adelio Maletti, capo del reparto "D" del SID ed il suo aiutante, il capitano Antonio Labruna (181). La versione - abbastanza inverosimile - da loro fornita in sede giudiziaria fu di non essere mai stati a conoscenza dell'identità di Pozzan, che sarebbe stato loro presentato sotto falso nome da una fonte non precisata, come persona che avrebbe potuto stabilire un contatto con Delle Chiaie. La sua scomparsa, una volta in Spagna, li avrebbe quindi colti di sorpresa.
Questa versione, come si vedrà, non convinse la corte di primo grado, anche se fu accettata in sede di appello. Essa viene ora autorevolmente smentita da uno dei principali protagonisti di questa ed altre vicende, il capitano Labruna, che, interrogato dal giudice istruttore di Milano, ha confermato di essersi recato personalmente, insieme a Guido Giannettini, ad accogliere Pozzan alla stazione Termini, dove Pozzan sarebbe giunto accompagnato da Massimiliano Fachini, che peraltro neha l'episodio. Giannettini, invece, ammette la propria presenza (motivata a suo dire dal desiderio di far incontrare Pozzan da "qualcuno che conosceva") ma ha affermato di avere un ricordo "evanescente" e "nebbioso" dell'episodio, che non gli consentiva di escludere, né di affermare la presenza di Fachini. Labruna ha inoltre di recente prodotto alla A.G. una serie di appunti manoscritti del generale Maletti contenenti delle vere e proprie disposizioni cui lo stesso Labruna avrebbe dovuto
attenersi (come in effetti si attenne) nel corso degli interrogatori dinnanzi alla Corte di Catanzaro, per confermare la versione ufficiale fornita dallo stesso Maletti.
8.5.2. Guido Giannettini era una figura molto più importante del bidello padovano ed il coinvolgimento del SID nel suo caso andò ben oltre. Giovanni Ventura aveva "confessato" (marzo 1973) di essersi infiltrato nel gruppo di Freda per conto del SID, che il suo contatto con il SID eta Giannettini e che, in cambio, quest'ultimo gli trasmetteva rapporti informativi segreti.
La copertura della fonte da parte del SID durò fino a quando fu fatta saltare, con modalità singolari, nel giugno del 1974 dal ministro della difesa Giulio Andreotti, che in una clamorosa intervista ammise che Giannettini era stato un regolare informatore del SID e che la decisione, presa ad alto livello (182), di coprirlo con il segreto di Stato era stata un grave errore. Comunque sia di ciò; la copertura di Giannettini potrebbe al limite ritenersi conforme alla normale prassi dei servizi. Ma il SID andò ben oltre. Poco dopo che Giovanni Ventura ebbe iniziato la sua "confessione" e, quando l'inquirente milanese stava concentrando l'attenzione su Giannettini, i due ufficiali che avevano gestito l'episodio Pozzan (Maletti e Labruna) realizzarono la medesima operazione con Giannettini. Questi fu inizialmente nascosto in un apprtamento del SID (intestato a tal Colantuoni, membro di Gladio) e poi fatto espatriare in Francia (aprile 1973). La fuga ebbe luogo immediatamente pr
ima di una perquisizione in casa Giannettini, quando la convocazione di questi da parte del magistrato era imminente e fu organizzata in modo da non lasciare alcuna traccia alla frontiera. Dopo la fuga, Labruna si incontrò con lui almeno quattro volte; inoltre il Servizio contribuì a finanziare l'esilio di Giannettini con un periodico invio di fondi (a Parigi) fino all'aprile 1974.
Non resta alla Commissione che ricordare su entrambi gli episodi il lapidario commento che gli stessi hano ricevuto in sede giudiziaria:
"Pozzan aveva parlato, poi ritrattato ed in seguito, per evitare di essere chiamato ancora dal magistrato, si era reso irreperibile ed, infine, era latitante quando fu spedito in Spagna; Fachini era un elemento utile per il rintraccio di Pozzan quando fu contattato dal capitano Labruna; Giovanni Ventura era alla vigilia delle sue rivelazioni quando gli fu proposto di evadere; le indagini del giudice istruttore stavano per arrivare al Giannettini quando questi fu fatto espatriare".
8.5.3. Un ulteriore episodio di copertura da parte del SID, cui si è già in precedenza accennato, è stato chiarito soltanto di recente. Nel 1980 fu sequestrato (183), nell'abitazione del generale Maletti a Roma, un appunto relativo ad un colloquio del 5 giugno 1975 fra lo stesso Maletti ed il capo del Servizio (ammiraglio Mario Casardi). Il contenuto dell'appunto è il seguente:
"caso Padova. Casalini si vuole scaricare la coscienza. Ha cominciato ad ammettere che lui ha partecipato agli attentati sui treni del '69 ed ha portato esplosivo; il resto, oltre ad armi, è conservato in uno scantinato di Venezia. Il Casalini parlerà ancora e già sta portando sua mira su altri gr. padovano + Delle Chiaie + Giannettini. Afferma che operavano convinti appg. SID. Colloquio con M.D. prospettando tutte le ripercussioni. Convocare D'Ambrosio. Incaricare gruppo C.C. di procedere. SI".
Il significato dell'appunto è stato chiarito nelle recenti indagini milanesi condotte cui si è fatto già più volte riferimento. Gli esiti delle stesse - sia pur non ancora definiti - consentono di ricostruire la vicenda nel modo che segue: Casalini era un membro, seppure non di primo piano, del gruppo padovano di Freda. A seguito di una crisi di coscienza aveva cominciato a collaborare con il Centro C.S. di Padova, cui aveva fatto importanti rivelazioni in tema innanzitutto di traffico d'armi con la Turchia. Aveva inoltre descritto: il funzionamento del gruppo Freda, la sua disponibilità di un deposito d'armi in una cantina di Venezia; i rapporti fra Freda ed il reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto, Carlo Maria Maggi; il proprio legame con Marco Pozzan (all'epoca latitante in Spagna) con il quale era in corrispondenza tramite un indirizzo negli USA. La parte più importante delle rivelazioni riguardava il rapporto di Casalini con Ivano Tognolo (184), uomo di fidu
cia di Freda e operativo nel suo gruppo; Casalini ammise di aver effettuato con Tognolo un viaggio a Milano nella primavera del 1969 (sicuramente il 25 aprile) in concomitanza con gli attentati di quel giorno (all'Ufficio cambi della stazione centrale e allo stand Fiat della Fiera campionaria, quest'ultimo con 21 feriti) trasportando esplosivo in una borsa. Casalini aveva dichiarato anche che Freda si era attribuito le responsabilità degli attentati.
La decisione dei vertici del SID di "chiudere la fonte", che indiscutibilmente risulta dall'appunto Maletti, sì da non consentirne la sua utilizzazione né ai fini investigativi né da parte dei magistrati inquirenti, concorre ad illustrare in modo eloquente la rete di protezioni istituzionali di cui beneficiarono gli appartenenti al gruppo padovano.
8.6. Come è noto tali coperture istituzionali hanno in sede pubblicistica e a diversi livelli consentito di avanzare l'ipotesi che piazza Fontana sia stata "una strage di Stato". E' conclusione cui la Commissione ritiene non sia consentito giungere, almeno secondo il canone che si è data e cioè in termini di ragionevole probabilità. Vuol dirsi cioè che non esistono elementi sufficienti, allo stato delle acquisizioni, che consentano di affermare che l'input stragista sia partito da settori istituzionali. Più ragionevole, e più aderente agli elementi conoscitivi di cui si è in possesso, è ritenere che l'evento di strage sia stato il risultato di una decisione autonomamente raggiunta da un gruppo eversivo organizzato; e che non sia stato quindi il gesto individuale di un folle, poiché la preparazione e l'esecuzione degli attentati in Roma e Milano presupponeva un'organizzazione adeguata. Questa non era certamente posseduta dal
lo sgangherato gruppo del "22 marzo"; anche se sul piano di una ricostruzione logica della vicenda non sarebbe illogico ritenere che, quale conseguenza dell'infiltrazione di Merlino, componenti del gruppo anarcoide abbiano potuto essere coinvolti nell'organizzazione degli attentati romani contemporanei alla strage milanese (185). Comunque, da ciò e in una prospettiva più generale, non può escludersi che la determinazione stragista sia stata in qualche modo incentivata da infiltrazioni di singoli appartenenti a settori istituzionali, anche esteri, nel gruppo organizzatore degli attentati.
Tale conclusione impone però comunque l'obbligo di dare una spiegazione alle coperture istituzionali che indubbiamente ci sono state. Le stesse possono ragionevolmente attribuirsi alla preoccupazione che le indagini ponessero in luce i legami, che almeno nell'intero quinquennio precedente, erano stati stretti tra la galassia dei gruppi eversivi - non tutti di estrema destra - e settori istituzionali dello Stato, anche ad alto livello.
Illuminante in tal senso è l'appunto redatto dal generale Maletti sulla fonte Casalini, in particolare il riferimento al colloquio con il Ministro della difesa cui andavano prospettate tutte le ripercussioni che ci sarebbero state, ove fosse emerso che i componenti del gruppo padovano, nel loro collegamento con Delle Chiaie e Giannettini, avevano posto in essere gravi attentati "convinti dell'appoggio SID".
Una conclusione di tal tipo apre peraltro il problema delle responsabilità politiche su cui ci si soffermerà in sede conclusiva.
Sin da ora però va rilevato che, se l'attentato di piazza Fontana sembra inserirsi in una prospettiva golpista indubbiamente presente nel "contesto unitario", cui si è fatto più volte riferimento, apparendo su tale linea sostanzialmente anticipatorio rispetto al tentativo (peraltro abbastanza velleitario) di colpo di Stato del dicembre dell'anno successivo, non è un caso, ed anzi appare abbastanza significativo, che l'attività di copertura venne soprattutto da un settore del Servizio militare di informazione, cioè quello che faceva capo a Meletti, che indubbiamente appare aver seguito una linea strategica diversa, che divenne prevalente negli anni successivi: linea tesa ad utilizzare le tensioni sociali del periodo nella prospettiva ed in funzione della imposizione di scelte tecnocratiche ed autoritarie, superando gli aspetti più rozzi del golpismo.
La Commissione aveva anche stabilito di procedere ad una libera audizione del generale Maletti (in Johannesburg), dopo averne acquisito il consenso; e ciò sia per approfondire gli elementi indagativi di più recente acquisizione, sia per dare al generale Maletti la possibilità di una replica agli addebiti formulati da Labruna. Ma una sopravvenuta indisposizione del Maletti non ha consentito che l'audizione avesse luogo in tempi utili ad apportare elementi di interesse per la stesura della presente relazione.
9.1. Anche la strage bresciana del 28 maggio 1974 che causò otto morti e centotrè feriti, diede luogo ad una vicenda giudiziaria tanto articolata e complessa, quanto deludente nel suo risultato finale, almeno per ciò che riguarda l'individuazione delle singole responsabilità. E se pure è vero che l'articolata complessità delle vicende giudiziarie è una caratteristica quasi costante nei processi di strage, la vicenda bresciana si presenta anche per tali profili come un episodio straordinario, sia per la mole imponente del materiale giudiziario prodotto, sia per il carattere aggrovigliato dell'iter, dove i procedimenti si incrociano, si sovrappongono, anticipano la trasformazione di testimoni in imputati, e dove si registra la morte violenta di un condannato. Nel groviglio processuale si possono distinguere due filoni principali: il primo è costituito dalle prime due istruttorie e dai relativi procedimenti, focalizzati su una pista fondamentalmente bresciana, e cioè verso un insieme eterogeneo formato da un gruppo di balordi e piccoli delinquenti comuni con simpatie di destra ed un gruppo di giovani neofascisti della Brescia bene. Il secondo filone include le altre due istruttorie ed i relativi procedimenti, innescati dalle rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia provenienti dall'ambiente carcerario, e si focalizza sui gruppi della destra radicale milanese, attraversando l'intero panorama eversivo degli anni '70. Il primo filone, apertosi nel 1974, si conclude tredici anni dopo con la sentenza del 25 settembre 1987 della Cassazione, che conferma in via definitiva l'assoluzione (di cui alla sentenza del 19 aprile 1985 della Corte di appello veneziana in sede di rinvio) del gruppo bresciano con la formula dubitativa e che sottolinea la gravità degli indizi a carico degli imputati. Il principale di questi, Ermanno Buzzi (già condannato all'ergastolo per la strage con la sentenza di primo grado) era stato ferocemente strangolato nel carcere di Novara da due noti terroristi neri, Concutelli e Tuti, alla vigilia del processo di appello. Orbene, si è già osservato come in via generale - e cioè avendosi riguardo al complesso delle vicende giudiziarie relative alle stragi impunite - la assoluzione con la formula dubitativa lasci presupporre il raggiungimento di una semiplena probatio in un materiale istruttorio che, pur insufficiente a sorreggere una definitiva condanna penale, appare comunque utilizzabile per una ragionevole spiegazione dell'evento. Così non è però, ad avviso della Commissione, per la strage di piazza della Loggia, in cui la formula dubitativa dell'assoluzione di componenti del gruppo bresciano perde il suo valore indicativo perché compromessa dalle acquisizioni che innervarono il filone di indagine focalizzato sui gruppi della destra radicale milanese. Questo filone fu chiuso dalla sentenza della Corte di Cassazione del 13 novembre 1989, che confermò l'assoluzione con formula piena di tutti gli imputati. L'esito assolutorio fu confermato da una quarta istruttoria, chiusa dalla sentenza-ordinanza 23 maggio 1993 del giudice istruttore Zorzi con la richiesta di non luogo a procedere per l'imputazione di concorso in strage e con la formula per non aver commesso il fatto nei confronti di altri imputati rientranti nella pista milanese (Fabrizio Zani, Marco Ballan, Giancarlo Rognoni, Bruno Luciano Benardelli e Marilisa Macchi).
9.2. Tuttavia un'ulteriore indagine risulta alla Commissione essere in corso sulla strage presso la Procura bresciana, indagine che nasce da uno stralcio operato dal G.I. Zorzi con l'ordinanza-sentenza 23 maggio 1993 e che risulta essere stata innervata da esiti dell'attività indagativa condotta in Milano dal G.I. dottor Salvini. I contenuti di tale indagine, le piste dalla stessa percorse (o più probabilmente ripercorse sulla base di nuove acquisizioni) non sono noti per l'opportuno riserbo istruttorio che circonda l'inchiesta in ragione della sua delicatezza, sicchè la Commissione in ordine alla stessa nulla può riferire. Gli stessi P.M. che la conducono hanno preferito non essere ascoltati dalla Commissione. Ancora una volta non é agevolmente possibile una prognosi favorevole in ordine alla eventualità che la nuova inchiesta, ad oltre venti anni dal fatto, possa condurre ad un finale giudicato di condanna. E' prevedibile peraltro che nuove acquisizioni varr
anno a delineare meglio il contesto in cui la strage bresciana venne ad inserirsi, contesto peraltro sia pure a grandi linee già intuibile sulla base delle acquisizioni attuali, come meglio in seguito si dirà.
9.3 A parte tali esiti favorevoli ancora possibili, a rendere amaro l'esito complessivamente negativo delle vicende giudiziarie è il carattere specifico della strage bresciana. Nella stessa infatti l'obiettivo non ebbe il carattere indeterminato, tipico di altri eventi di strage e che, anche per la mancanza di rivendicazioni, ne rese inconoscibili dall'inizio non solo gli autori ma lo stesso "ambiente" in cui l'intento stragista è maturato. A Brescia non si colpì la variegata folla presente in una stazione ferroviaria in un periodo di vacanze, né l'eterogenea clientela di una barca, nè il microcosmo che spontaneamente si costituisce in una carrozza ferroviaria o nella carlinga di un aereo di linea. In piazza della Loggia, all'atto dell'esplosione, era in corso una manifestazione democratica; partiti e sindacati avevano riunito nell'agorà cittadini per protestare verso il clima di violenza eversiva che da tempo avvelenava la vita cittadina e che aveva
chiara e indiscussa matrice di destra.
L'obiettivo era quindi determinato, sicchè la logica matrice della strage fu immediatamente percepita in termini tali da rendere impraticabili le consuete manovre depistanti tese ad attribuire alla srage una origine politica opposta.
Probabilmente diversa sarebbe stata la situazione se in quel tragico giorno di maggio non avesse piovuto. La bomba era stata infatti collocata in un porticato dove di regola durante manifestazioni pubbliche si poszionavano reparti delle forze dell'ordine. La pioggia invece fece sì che invece nel porticato trovassero rifugio partecipanti alla manifestazione. Se le vittime dell'attentato fossero stati uomini delle forze dell'ordine, sarebbe divenuto in astratto possibile un depistaggio, che la situazione venutasi concretamente a determinare rese impraticabile.
Ciò malgrado le indagini nell'immediatezza dell'evento furono caratterizzate da errori che lasciano francamente perplessi.
Nella relazione approvata il 23 febbraio 1994 la Commissione ha già avuto occasione di sottolineare l'incredibile decisione assunta dal vice Questore che ordin: di lavare con le autopompe il teatro della strage prima dell'arrivo del magistrato, così determinando la inutilizzabilità di reperti indubbiamente utili ai fini dell'inchiesta. Analoghe e più intense perplessità sollevano nella Commissione - come hanno sollevato nella più attenta pubblicistica e come fu sottolineato anche nel filone giudiziario che successivamente si indirizzò verso la pista milanese - la direzione e le forzature che le indagini conobbero - soprattutto da parte del capitano dei Carabinieri Delfino (186) - verso il gruppo bresciano. Quest'ultimo, come già in parte ricordato, risultava composto da un lato da balordi e sottoproletari, raccolti intorno ad un megalomane, esibizionista e confiedente dei carabinieri, e dall'altro, da un gruppo di neofascisti della Brescia-bene. Il mega
lomane era Ermanno Buzzi, pregiudicato per reati contro il patrimonio, specialista in furti e ricettazione di opere d'arte, confidente dei carabinieri, millantatore. Il suo reale tasso di politicizzazione è controverso: Buzzi ostenta nel suo ambiente idee di estrema destra e vanta una milizia clandestina in gruppi eversivi; a diciannove anni aveva scritto articoli per Avanguardia Nazionale. Alcuni commentatori e la prima sentenza d'appello considerano Buzzi un mitomane; la sua politicizzazione è invece accreditata nella sentenza di primo grado e in quella di rinvio d'appello, soprattutto dopo la sua morte per mano di due "camerati" che intendevano così punire un "infame" alla vigilia di un processo in cui poteva compiere rivelazioni devastanti.
Le sue pose da gran signore e la sua disponibilità di denaro facile soggiogano una piccola corte composta eminentemente da Angelo Papa, diciottenne, figlio di immigrati beneventani, psicolabile ai limiti della minorazione (la madre era stata ricoverata in manicomio); il fratello Raffaele, ladro e ricettatore; Cosimo Giordano, di origine calabrese, (più defilato, guardarobiere in un locale notturno, il "Blue Note"); Ugo Bonati, disoccupato e ladro a tempo perso, congedato in anticipo dal servizio di leva per turbe nervose. Nessuno di costoro aveva mai manifestato alcun interesse o credo politico.
Dall'altro lato stava una dozzina di rampolli della buona borghesia bresciana, studenti non proprio modello che militavano con diverso impegno nei gruppi della destra radicale, anche milanese e che erano legati fra loro da vincoli di amicizia, di stile di vita, di credo politico. Molti degli appartenenti al gruppo, fra cui Andrea Arcai, figlio del giudice che stava indagando sul Mar, avevano trascorso (vagabondando fra Brescia ed il lago, fra una villa, una pizzeria, una discoteca) con Silvio Ferrari (187) la sera e la notte precedente la tragica morte di quest'ultimo.
Il gruppo immediatamente individuato come autore della strage appare, ad una serena riflessione odierna, poco credibile come tale. Ben altri risultati indagativi l'inchiesta avrebbe avuto se sin dall'inizio avesse assunto direzione diversa, che potesse inserirla non solo nello specifico clima di violenza che Brescia in quel periodo conosceva, quanto in un collegamento funzionale di questa ad un contesto più ampio che le successive fasi della vicenda giudiziaria riuscirono ad individuare e descrivere, pur senza trovarvi elementi sufficienti all'affermazione definitiva di responsabilità individuali.
L'allargamento del contesto - con espresso riferimento alla pista milanese - risulta già dalla sentenza di primo grado che evidenzia elementi di indubbia consistenza idonei, tra l'altro, a determinare anche un collegamento tra la strage bresciana e quella successiva dell'Italicus. Basta alla Commissione riportare sul punto, in una prospettiva di sostanziale condivisione, il brano della sentenza di primo grado (188):
"La strage di Brescia travalica l'ambito cittadino, esprime pienamente quel modo di pensare e attuare il gesto politico che assai bene è stato descritto da Sergio Calore, ma rappresenta anche l'espressione di intenti e di progetti genuinamente eversori del sistema democratico [...]. L'indagine processuale ha rivelato l'esistenza di collegamenti, risalenti nel tempo e sviluppatisi sul piano tanto ideologico quanto operativo, tra l'ambiente dell'estrema destra milanese e quello bresciano e ha confermato come uno degli anelli di collegamento più significativi fosse proprio Silvio Ferrari, amico strettissimo e sodale di idee di Pagliai e De Amici, aderenti al gruppo ordinovista La Fenice, all'interno del quale la teoria e la pratica della strage si erano rivelate esplicitamente con l'episodio del treno Torino-Roma.
Non appaiono quindi come arbitrarie fantasie, ma come indicazioni plausibili e coerenti, quelle emergenze processuali che individuano proprio nell'ambiente dei "milanesi" la matrice politica e operativa della strage di Brescia. In questo preciso senso vanno infatti il già sperimentato ricorso alla prassi stragista, l'abbondante disponibilità di esplosivi, la non incompatibilità fra questi e quello presumibilmente usato in piazza della Loggia, la contiguità territoriale e ideologica tra le aree milanese e bresciana, gli interscambi tra le stesse".
Detto questo, però, la Corte riconosce che dal processo non sono venute risultanze oggettive tali da fornire la prova certa che effettivamente la strage fu operata dal gruppo milanese. Tali prove sarebbero potute venire dall'accertamento della presenza a Brescia del principale imputato, Ferri, nella mattina della strage. Ma sul punto la Corte riconobbe che era mancato un sufficiente accertamento:
"Si sono viste le dichiarazioni accusatorie, da più parti provenienti, con diretto ed esplicito riferimento alla partecipazione dell'imputato all'eccidio, e come tali dichiarazioni si siano calate in un contesto che ha loro attribuito logicità e plausibilità. Il materiale consegnato dall'istruttoria al dibattimento ha costituito in questo senso acquisizione dotata di sicura robustezza e di indubbia serietà e credibilità. [...].
In sostanza, il quadro indiziario iniziale, costituito dalle risultanze della vecchia istruttoria (specie per quanto riguarda il comportamento tenuto da Ferri nei mesi successivi alla strage), non solo ha trovato conferma nella nuova istruttoria, ma si è consolidato per l'apporto di nuovi elementi indiziari [...].
Certamente la massa di indizi è diventata impressionante ed imponente. Molti elementi hanno trovato apprezzabili riscontri logici. Il giudizio globale di verosimiglianza è decisamente favorevole alla tesi accusatoria.
Ma qualcosa è mancato. I riscontri oggettivi non sono stati soddisfacenti. Ombre di incertezza sono rimaste su non poche circostanze. Soprattutto non è stato possibile accertare il ruolo preciso di Ferri nella partecipazione alla strage".
Su tali basi la assoluzione degli imputati fu pronunciata con la formula dubitativa.
Il giudizio di secondo grado (marzo 1989) assegnava uno spazio ancora maggiore ai dubbi, ed assolveva tutti gli imputati per non aver commesso il fatto. Tale giudizio diventava conclusivo con la sentenza della cassazione del novembre dello stesso anno (189).
9.4. La seconda istruttoria del giudice Zorzi (quarta, nell'ordine complessivo) non perviene a risultati di rilievo per quanto riguarda l'individuazione dei colpevoli (per tutti gli imputati si dichiara il non luogo a procedere), ma è importante perché contiene una rassegna di vicende ed episodi che chiariscono - anche a molta distanza dai fatti - gli ostacoli che l'inchiesta incontrò e che spiegano perché lo stesso Zorzi, in un intervento scritto per un volume commemorativo del ventennale della strage, abbia potuto parlare di: "una frustrazione alimentata assai frequentemente dall'amara sensazione o addirittura dalla constatazione di appartenere - nell'adempimento del mio dovere - alla ricerca della verità ad una 'squadra' diversa e decisamente malvista, o comunque mal tollerata, da quella di altri 'servitori' di questo Stato".
Rinviando per una più ampia esposizione alla lettura dell'ordinanza, gli episodi più rilevanti possono essere così riassuntivamente ricordati:
a) l'inquinamento probatorio operato da Ivano Bongiovanni, un delinquente comune, gravato da una serie impressionante di precedenti penali e con simpatie politiche per la destra; di tale inquinamento e delle circostanze in cui si verificò si darà conto più ampiamente affrontando la vicenda relativa alla successiva strage dell'Italicus;
b) la vera e propria attividà di ostacolo e boicottaggio messa in atto da settori istituzionali non precisamente individuati per impedire l'interrogatorio in Buenos Aires di Gianni Guido, che secondo quanto riferito da Angelo Izzo (suo amico e complice nella vicenda del Circeo) aveva ricevuto da Ermanno Buzzi confidenze che gettavano importanti squarci di luce su piazza della Loggia; il boicottaggio impedì che l'interrogatorio avvenisse nel giorno prefissato e consentì al Guido una comoda fuga da un opsedale, dove era stato nel frattempo ricoverato;
c) la singolare vicenda di un appunto Sismi che, raccolto nel 1974, perviene improvvisamente durante lo svolgimento del dibattimento nel processo d'appello contro gli imputati della pista milanese. L'appunto si rivela di nessuna utilità; lo stesso direttore del Servizio, l'ammiraglio Martini, ne diede un'interpretazione riduttiva ed aggiunse che all'epoca (1974) non fu "effettuato alcun approfondimento in ordine al contenuto del documento in questione [...] perché era ampiamente noto [...] il clima di tensione che ricorrenti minacce dell'estrema destra extraparlamentare avevano creato nella città di Brescia (e che agli atti del Servizio) non esistono ulteriori documenti dai quali possano trarsi utili elementi di valutazione [...] in ordine alla strage di Brescia". Il G.I. Zorzi seccamente commentò: "Con vivo ringraziamento del popolo italiano per aver saputo produrre - su questa epocale tragedia - una sola velina e di cotanta utilità".
9.5 Sono queste considerazioni che appaiono almeno in gran parte condivisibili alla Commissione e che, da un lato, contribuiscono a spiegare le ragioni della mancata individuazione dei responsabili della strage di piazza della Loggia, dall'altro concorrono a ricondurre la stessa al già ricordato contesto unitario, che ebbe addentellati con lo specifico ambiente bresciano.
Si è già detto che la strage avvenne durante una manifestazione organizzata dal comitato permanente antifascista per protestare contro l'impresionante volume di violenza messo in atto a Brescia da gruppi della destra radicale nei mesi precedenti.
Ed invero sin dagli inizi degli anni '70 gruppi giovanili della destra bresciana avevano conosciuto un processo di forte radicalizzazione. Si tratta dapprima di un sistematico "stillicidio di violenza (...) di aggressioni e attentati ad antifascisti, operai, giovani della sinistra, nelle strade, durante i cortei, dopo i comizi, contro le fabbriche o le scuole occupate, (contro) gli scioperanti, nelle sedi dell'Anpi e dei partiti di sinistra, i simboli della democrazia e della resistenza, anche le suppellettili, nei circoli cattolici d'avanguardia o di dissenso e persino nelle chiese..." (190).
L'escaletion prende una svolta decisamente terroristica agli inizi del 1973, quando, nella notte del 3-4 febbraio, un potente ordigno al tritolo devasta completamente la Federazione provinciale del Psi.
Segue un'ulteriore impressionante serie di attentati in parte riusciti, in parte mancati. (191)
L'eccidio di piazza della Loggia costituisce quindi il momento finale di una terribile escaletion e venne preceduto nella notte fra il 19 e il 20 maggio dalla già ricordata morte di Silvio Ferrari, che venne maciullato dall'esplosione dell'ordigno che trasportava sulla propria motoretta. A ciò si aggiunga che la situazione bresciana, se pure in forma accentuata, si inseriva nel già descritto quadro nazionale contrassegnato, nel biennio 1973-1974, da una serie impressionante di episodi cruenti, messi in atto dai gruppi della destra radicale, nel quadro di una strategia complessiva di destabilizzazione e provocazione.
Assume rilievo inoltre la circostanza che gli autori dell'attentato alla Federazione provinciale del Psi (punto iniziale del salto di intensità che la situazione bresciana aveva conosciuto) erano stati individuati ed arrestati. Si trattava di sei giovani tutti di A.N?: Roberto Agnellini, Kim Borromeo, Danilo e Adalberto Fadini, Franco Frutti e Alessandro D'Intino (quest'ultimo, un "evoliano" milanese sarà poi fra i protagonisti dello scontro di Pian del Rascino). Processati per direttissima, sono condannati a tre anni di reclusione. Dopo dieci mesi sono posti, però, in libertà provvisoria. Avvenne così che il 9 marzo 1974 a Sonica, in Val Camonica, uno degli accertati colpevoli dell'attentato alla Federazione provinciali del Psi, Kim Borromeo, è arrestato unitamente a Giorgio Spedini (già della Giovane Italia e di Avanguardia Nazionale), mentre su un'auto trasportano otto chili di plastico, 364 candelotti di tritolo e cinque milioni in contanti. L'op
erazione è opera dei carabinieri di Brescia, diretta dal capitano Delfino, e si avvale dell'ausilio dell'ambigua figura di un agente provocatore, tale Luigi Maifredi.
In tal modo si accerta che Borromeo e Spedini e il carico della loro auto provengono da un'officina di Segrate riferibile a Carlo Fumagalli, e cioè al leader del M.A.R., il gruppo eversivo di cui in pagine precedenti si è diffusamente riferito, chiarendo la centralità che lo stesso gruppo aveva assunto nel contesto eversivo di quel periodo.
L'inchiesta sul M.A.R., radicata in Brescia, è affidata al giudice Giovanni Arcai, il quale arresta un rilevante numero di persone e scopre una complessa organizzazione criminosa con vaste ramificazioni e collegamenti, che vanno dalla Rosa dei Venti alla Maggioranza Silenziosa. Il 9 maggio vengono catturati lo stesso Fumagalli, Agnellini ed una decina di altre persone, ma gli arresti si susseguono quasi quotidianamente, sino al 28 maggio ed oltre.
Lascia quindi adito a fortissime perplessità la circostanza che in tale situazione generale il capitano Delfino (che pure aveva individuato la trama che condusse al secondo arresto di Borromeo e al M.A.R.), imprima all'inchiesta su piazza della Loggia una direzione sostanzialmente diversa, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava intorno ad Ermanno Buzzi. A ciò si aggiunga che l'appartenenza a tale gruppo di Andrea Arcai (figlio del magistrato che indagava sul M.A.R.) ed il suo arresto, pongono il padre magistrato in una situazione di estrema difficoltà che lo induce a reagire, in certi momenti anche in maniera scomposta, determinandone una oggettiva incompatibilità ambientale e quindi il trasferimento alla corte di appello di Milano.
Avviene così, da un lato, che l'inchiesta su piazza della Loggia proceda inizialmente in una direzione che si è rivelata improduttiva; dall'altro, che l'inchiesta sul M.A.R. non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto ben prima consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi, ragionevole e serenamente, affermarsi inserita.
10.1. In termine di uguale ragionevolezza deve ritenersi riferibile al medesimo contesto unitario anche la treza strage insoluta, e cioè quella del 4 agosto del 1974 sul treno Italicus che causò dodici morti e quarantaquattro feriti. La riferibilità della strage al contesto è stata già affermata in sede parlamentare. Nella relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla logga P2 è già stato, infatti, affermato:
"1. La strage dell'Italicus è ascrivibile ad una organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neozazista operante in Toscana;
2. La loggia P2 svolse opera di ostigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare toscana;
3. La loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell'Italicus e può considerarsene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale". E' conclusione che può essere ribadita alla stregua di nuove e notevoli acquisizioni e benché la complessa vicenda giudiziaria abbia sinora condotto ad esiti assolutori. La prima istruttoria sull'Italicus si concluse con il rinvio a giudizio di Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi, estremisti di destra appartenenti all'ambiente toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario. Con i tre furono imputati anche Margherita Luddi, legata sentimentalmente al Franci, per detenzione di armi, e Francesco Sgrò per calunnia. Quest'ultimo era stato autore di un tentativo depistante tendente ad attribuire l'organizzazione di un attentato ad un treno ad un movimento studentesco romano di sinistra. Successivamente lo Sgrò riconobbe il carattere calunnioso delle sue dichiarazioni affermando di aver tentato con le stesse di ottenere denaro dal MSI. Sgrò era stato infatti la fonte che aveva indotto il segretario del MSI, onorevole Almirante, ad annunciare, per così dire, la strage recandosi, accompagnato dall'onorevole Alfredo Covelli, dal dottor Emilio Santillo, direttore dell'Ispettorato generale antiterrorismo, per denunciargli il proprio timore di un imminente attentato ad un treno (192) ad iniziativa di ambienti universitari romani di sinistra. Un secondo preannuncio della strage sarebbe stato operato da Claudia Aiello, una italo-greca dipendente del Sid con funzioni di interprete, che pochi giorni prima dell'attentato sarebbe stata ascoltata in una ricevitoria del lotto di Roma affermare per telefono frasi quali "Le bombe sono pronte..." e fare riferimento a passaporti e treni e alle città di Bologna e Mestre. L'episodio, oggetto di ripetuto e attento esame giudiziario, non ha portato a sviluppi indagativi che abbiano assunto concreto rilievo. I due ricordati episodi appaiono peraltro di un qualche rilievo almeno per confermare, da un lato, nell'attentato dell'Italicus il carattere di strage annunciata più volte sottolineato nella pubblicistica, dall'altro, il clima di estrema tensione che caratterizza il periodo.
10.2. La direzione indagativa che si sviluppò nei confronti di Mario Tuti, Luciano Franci e Pietro Malentacchi prese le mosse e sostanzialmente continuò a fondarsi sulle dichiarazioni accusatorie di Aurelio Fianchini, al quale il Franci, suo compagno di detenzione, avrebbe confidato di avere eseguito la strage indicando nel Tuti il gestore dell'esplosivo e nel Malentacchi colui che materialmente avrebbe sistemato l'ordigno.
Corroboravano l'accusa del Fianchini la comune militanza nell'FNR, la disponibilità di armi ed esplosivi, la responsabilità in altri attentati senza vittime, la personalità sicuramente terroristica ed eversiva di Tuti, autore di numerosi omicidi alcuni dei quali consumati con notevole ferocia; infine il fatto che il Franci, carrellista presso la stazione di Santa Maria Novella di Firenze, la notte dell'attentato si trovava in servizio fuori turno ed in esito ad una sua richiesta, mai giustificata, proprio in prossimità del binario dove aveva sostato l'Italicus.
Si trattava, come si vede, di un quadro probatorio consistente ma incompleto per la mancanza di sufficienti riscontri all'accusa del Fianchini. Ciò giustifica l'altalenanza dei risultati giudiziari. Tuti, Franci e Malentacchi furono assolti in primo grado dall'accusa di strage per insufficienza di prove. In appello Tuti e Franci furono condannati all'ergastolo. La sentenza fu annullata dalla prima sezione della Corte di Cassazione e la Corte di Assise di Appello di Bologna, in sede di rinvio, assolse Tuti e Franci con formula piena; l'assoluzione divenne definitiva a seguito di sentenza del 24 marzo 1992 della Corte di Cassazione.
Mentre era in corso il giudizio di primo grado, la procura di Bologna ravvisava la necessità di proseguire le indagini sul duplice presupposto che gli imputati rinviati a giudizio non avevano potuto agire isolatamente e che la prima istruttoria poteva essere stata oggetto di inquinamenti e depistaggi di cui si imponeva l'accertamento.
Nel nuovo procedimento la matrice eversiva di destra trovava ulteriori conferme, articolandosi tuttavia in un ventaglio di ipotesi diverse per le specifiche responsabilità individuali (193).
Mentre tale istruttoria era in corso giungeva a dibattimento anche il procedimento per la strage della stazione di Bologna, di sei anni successiva. In quella sede furono peraltro stralciate le posizioni di Stefano Delle Chiaie, Adriano Tlgher, Marco Ballan ed altre.
Il giudice istruttore di Bologna - presso il quale erano concentrati i procedimenti per strage (Italicus bis e Bologna bis) che proseguivano con il vecchio rito - considerati gli sviluppi relativi alle possibili strategie emergenti dalle rispettive indagini, la ricorrenza di medesimi soggetti e gruppi dell'eversione, i legami di costoro con gli stesi esponenti degli apparati di sicurezza, la medesima natura delle interferenze e degli ostacoli frapposti alle attività di accertamento con notevoli analogie tra gli episodi di inquinamento e di depistaggio che si andavano verificando nelle due vicende processuali, veniva indotto a disporre nell'ottobre del 1993 la riunione dei due procedimenti.
L'istruttoria si è quindi conclusa con la sentenza-ordinanza 3 agosto 1994, trasmessa per ulteriori sviluppi e quindi per competenza a diverse procure e acquisita da questa Commissione. Come sostanzialmente espresso nel provvedimento, le conclusioni del G.I. dottor Grassi definiscono il procedimento ma non esauriscono le prospettive aperte dal lavoro degli inquirenti per l'accertamento della responsabilità e i motivi di riflessione storico-politica sui risultati processuali, dandosi carico l'ordinanza di evidenziare acquisizioni e collegamenti probatori anche non decisivi per l'immediata e definitiva soluzione positiva o negativa di singoli episodi e sottostanti alle complessive strategie. (194)
Restano aperte ancora importanti istruttorie, relative alla specifica vicenda dell'Italicus e al contesto eversivo in cui la stessa appare oggettivamente inserita, che potranno ricevere importanti contributi dallo sviluppo delle indagini milanesi condotte dal dottor Salvini.
Tuttavia l'ordinanza-sentenza appare esemplare per comprendere quanto negativamente incidano in indagini di tal tipo sia gli effetti formali del decorso del tempo, con l'intervento di cause di estenzione di reati, anche gravi, per prescizione, sia gli esiti processuali assolutori intervenuti medio tempore in altre sedi.
Questi ultimi assumono una duplice valenza nagativa, tanto per l'impossibilità di un secondo giudizio (e quindi per l'effetto preclusivo naturalmente connesso al giudicato), quanto per l'effetto, anch'esso formale, che il consolidamento di una pronuncia su di un determinato episodio produce sulla possibilità di inserire l'episodio stesso in uno sviluppo argomentativo più ampio, ogni volta che una diversa valutazione di quello si appalesi di quest'ultimo passaggio ineludabile.
Sono ostacoli che ovviamente non sussistono ai fini di una valutazione diversa da quella giudiziaria quale quella storico-politica che compete a questa Commissione.
Ma soprattutto l'ordinanza-sentenza del dottor Grassi illustra come gli ostacoli e depistaggi (che indagini tanto complesse hanno spesso subìto) possono, ove opportunamente decifrati, contribuire utilmente alla ricostruzione per grandi linee di un contesto unitario, ancorché non del tutto disvelato.
10.3 Quanto agli ostacoli ed ai depistaggi, sembra sufficente richiamare soltanto i principali episodi. A. Come si è già rammentato, l'ordinanza-sentenza del 3 agosto 1994 dichiara la prescrizione dell'imputazione di favoreggiamento aggravato elevata nei confronti del colonnello Domenico Tuminello, comandante del Gruppo Carabinieri di Arezzo. Quest'ultimo nell'agosto-settembre del 1974 (e cioè nell'immediatezza temporale della strage) riceveva dal generale Bittoni, comandante dell'8^ Brigata Carabinieri di Firenze, una segnalazione relativa ai nomi (Franci e, probabilmente, Malentacchi e Batani) di tre soggetti che secondo informazioni provenienti dalla federazione MSI di Arezzo sarebbero stati implicati nella strage; è lo stesso Bittoni a rivelare tale circostanza al P.M. di Bologna nel dicembre 1981, chiarendo di aver ricevuto a sua volta la notizia dall'ammiraglio Birindelli, politicamente inserito nelle fila di quel partito. E' di tutta evidenza che si trattava di un'acquisizione del massimo interesse investigativo ove essa fosse stata resa nota e sviluppata nell'immediatezza. L'inutilizzazione della fonte appare di notevole gravità, anche perché, contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato, venne dallo stesso omessa ogni indagine sul fondamento della segnalazione e sulle fonti da cui proveniva. Ciò assume rilievo più marcato sulla base dell'accertata affiliazione alla loggia P2 del Tuminello, del Bittoni e del Birindelli nell'ambito dei nessi - tra l'eversione di destra e ambienti P2 - oggi desumibili da plurimi e convergenti sviluppi in diverse sedi giudiziarie. B. Un ulteriore ostacolo all'accertamento della verità fu il risultato dell'inquinamento probatorio derivante dal ruolo giocato da Ivano Bongiovanni, proveniente da ambienti della criminalità comune, che negativamente si ripercosse in ben quattro istruttorie (quella sui fatti di Teramo, di cui si dirà, quella sulla strage di piazza della Loggia e quella concernente l'Italicus e la stazione di Bologna). Per ciò che riguarda l'inchiesta sull'Italicus, l'effetto inquinante riguarda in particolare la collaborazione di Valerio Viccei, un estremista di destra di origine ascolana inserito in un gruppo eversivo locale. Viccei era approdato all'intento di collaborare con la giustizia ed era stato sentito specificamente nell'istruttoria per l'Italicus nel marzo del 1985 in merito ai collegamenti, particolarmente intensi, esistenti negli anni '71-'74 tra il gruppo di Ascoli e il composito sodalizio milanese che raccoglieva al suo interno persone di alto livello provenienti da organizzazioni quali Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero, MAR. A costoro sarebbe risalita l'elaborazione e l'esecuzione di un disegno terroristico che doveva comportare l'esecuzione di quattro attentati di tipo stragista, tra i quali quello dell'Italicus. La cellula ascolana avrebbe avuto un diretto ruolo operativo nell'attuazione di tale disegno preparando ed eseguendo l'attentato ferroviario a Silvi Marina, in provincia di Teramo. Le dichiarazioni di Viccei convergevano peraltro con precedenti dichiarazioni (Andrea Brogi) e trovavano conforto in numerosissimi dati di riscontro raccolti nell'ambito di diverse istruttorie (195). Orbene il Buongiovanni, che aveva inizialmente reso all'A.G. di Bologna dichiarazioni di un qualche interesse sui suoi rapporti con Giancarlo Rognoni, Cesare Ferri e Mario Tuti, tentò dapprima di minare l'attendibilità delle collaborazioni che andavano rendendo importanti estremisti di destra (Angelo Izzo, Raffaella Furiossi e Sergio Calore) accusandoli di aver progettato un presunto tentativo di evasione dal carcere di Paliano dove erano ristretti insieme allo stesso Bongiovanni. Successivamente quest'ultimo - contatto più volte in carcere da agenti dei servizi - riferiva al G.I. di Teramo, nel giugno 1986, di aver subito richieste dal Viccei e dall'Izzo di fornire ai magistrati inquirenti elementi di supporto e riscontro alle versioni da loro rese, anche dichiarando fatti da lui non conosciuti o di cui poteva conoscere la falsità. La versione di Bongiovanni interveniva in un momento decisivo per lo sviluppo istruttorio e processuale del contributo dei collaboratori; a poco sareb be in questo senso valsa la successiva ritrattazione con la quale il Bongiovanni riaffermava la verità di quanto da lui inizialmente riferito e la falsità delle accuse agli altri . Nella stessa ordinanza dell'agosto del 1994 il G.I. di Bologna esprime forti perplessità sui reali motivi della sortita di tale personaggio, non senza evidanziare i suoi legami con la banda della Magliana e con Mino Pecorelli. C. Ancor più rileventi - in una prospettiva di insieme che si raccordi ai rilievi sulle iniziative assunte dal Sid nelle indagini giudiziarie su piazza Fontana - appare l'azione di copertura posta in atto da un ufficiale del servizio, Mannucci Benincasa, direttore del centro Sid e poi Sismi di Firenze, in favore di Augusto Cauchi, elemento centrale nell'ambiente eversivo toscano. L'ufficiale aveva avuto un contatto personale con il Cauchi a Firenze già nel 1974, prima dell'attentato dell'Italicus. Ma tanto fu ammesso in sede giudiziaria dal Mannucci Benincasa soltanto nel 1982 e solo dopo che gli era stato contestato quanto in merito dichiarato dall'ammiraglio Casardi. Risulta altresì, in termini di sostanziale certezza, che nel 1975, quando già le indagini si erano rivolte verso l'ambiente eversivo toscano, il Mannucci Benincasa ricevette indicazioni che avrebbero consentito il reperimento e la cattura del Cauchi. Il Mannucci Benincasa non fece pervenire l'informazione alla polizia giudiziaria ma, secondo quanto da lui stesso riferito, concordò un incontro con il dottor Marsili, p.m. di Arezzo : incontro che tuttavia non si realizzò. A ciò si aggiunga che, in una perizia disposta dal G.I. di Roma nei confronti di Gelli sulla tenuta dei fascicoli del centro Sismi di Firenze, forti perplessità sono evidenziate proprio in ordine ad un incartamento sul Cauchi così come in merito ad un appunto relativo a quest'ultimo, mancante dalle carte del Servizio e che fu rinvenuto, invece, nel corso di una perquisizione presso l'abitazione del Mannucci Benincasa. Per comprendere la complessità e insieme la rilevanza degli intrecci va rammentato, da un lato, che Manucci Benincasa è una delle fonti "anonime" che inizialmente indirizzarono verso Gelli le indagini dell'A.G. romana sull'omicidio Pecorelli ed è stato imputato dal G.I. Zorzi, unitamente ad Umberto Nobili, di altre gravi calunnie nei confronti di Gelli; da un altro, che il collegamento tra il Mannucci Benincasa ed il Cauchi era passato, all'inizio, attraverso il professor Luigi Oggioni, affiliato alla P2, intimo di Gelli, ortopedico di fiducia del Sismi di Firenze; da un altro lato ancora, il ruolo avuto dal dottor Mario Marsili, genero di Gelli e successivamente affiliato alla P2, sull'altalenante contributo processuale reso da Alessandra De Bellis, moglie di Augusto Cauchi. Appare quindi indubbio che il gruppo eversivo toscano, nel suo collegamento con gli ambienti P2, abbia goduto di protezioni istituzionali non diversamente dal gruppo padovano in ordine all'indagine su piazza Fontana. Basterà in merito ricordare che il G.I. presso il tribunale di Firenze, dottor Rosario Minna, che indagava su vari attentati a treni avvenuti in Toscana tra il 1974 ed il 1983, l'8 novembre 1984 chiese al direttore del Sismi di fornigli le notizie in suo possesso sul conto di persone, organizzazioni ed attentati terroristici indicati in un elenco accluso. Dopo varie risposte interlocutorie, nel gennaio 1985, il Sismi oppose il segreto di Stato ed il 28 marzo dello stesso anno il Presidente del Consiglio lo confermò. Solo successivamente fu possibile acquisire in sede giudiziaria un documento relativo ad un rapporto del centro Sismi di Firenze del 20 dicembre 1977 dal quale risulta che fin dalla primavera del 1974 Augusto Cauchi era diventato collaboratore del locale centro Sid. D. Tale copertura assume rilievo avuto riguardo a risultanze decisamente significative per definire il livello di partecipazione dell'ambiente dell'eversione nera toscana alla strategia attuata fino al 1974. Le fonti di tali acquisizioni sono analiticamente riportate nell'ordinanza-sentenza del G.I. Grassi e consistono principalmente negli apporti processuali di Andrea Brogi, Marco Affatigato, della già ricordata Alesandra De Bellis, di Graziano Gubbini e Vincenzo Vinciguerra, nonché nella documentazione sequestrata in America a Delle Chiaie. Peraltro le risultanze dell'istruttoria, pur prive di caratteri di definitività e compiutezza probatoria per affermazioni in sede giudiziaria, segnalano una direzione ricostruttiva del raccordo di strategie nelle quali si colloca l'attentato al treno Italicus. Appare quindi ampiamente giustificata l'esigenza di approfondire ulteriormente tanto le dinamiche interne all'estrema destra dopo la delusione delle aspettative golpiste del 1970, quanto i momenti di convergenza operativa tra i fautori della guerra non convenzionale in funzione anticomunista e quanti, sempre a destra, aspiravano ad una svolta di tipo autoritario. L'ulteriore ricerca degli esecutori materiali dell'attentato e dei mandanti non può prescindere dall'individuazione di coloro che hanno "gestito" l'attentato stesso, prima e dopo il suo verificarsi, sia sotto i profili della informativa e della sicurezza, sia nella dimensione giudiziaria. In tale gestione già emerge la rilevanza dei rapporti Cauchi-Gelli, Gelli-M annucci Benincasa, Cauchi-Mannucci Benincasa, rapporti che attraversano e continueranno ad attraversare l'attivismo dei vertici di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo.