PHILIP DICK: IN LOTTA CON L'UNIVERSO IMPAZZITO
di Vittorio Curtoni
    Nato a Chicago nel 1928 e morto nel 1982, Philip Kendred Dick è stato (e rimane) un autore fondamentale per l'evoluzione della fantascienza. Il giudizio che di lui ha dato una delle più prestigiose scrittrici americane, Ursula Le Guin[1], riassume con sintetica efficacia il valore rivoluzionario dell'opera di Dick: "Nessuno si accorge che abbiamo qui in America un nostro Borges, e lo abbiamo da trent'anni." Dopo avere lavorato come commesso nel reparto di musica classica di un negozio di dischi ed essere stato disc-jockey (sempre per la musica classica) di una stazione radiofonica, Dick esordisce come scrittore di racconti nel 1952. Il suo primo romanzo, Il disco di fiamma, esce nel 1955, e pur essendo chiaramente influenzato dagli stereotipi della fantascienza avventurosa dell'epoca, svela già un interesse del tutto particolare per i meccanismi della casualità, che in un ipotetico futuro diventano la chiave in base alla quale si decidono le sorti politiche del nostro pianeta. Molto più personale e affascinante è un romanzo del 1957, L'occhio nel cielo, dove si comincia a delinare il tema della frantumazione del reale: ognuno dei personaggi che, per un incidente, vengono investiti da un fascio protonico da sei miliardi di volt, crea un proprio mondo soggettivo, modellato sulle sue nevrosi. Ovviamente, si tratta di universi da incubo, in cui non esistono più freni inibitori e nessuna barriera tra il raziocinio cosciente e le pulsioni dell'inconscio. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, ormai diventato autore professionista, Dick pubblica a getto continuo romanzi e racconti, rivelandosi uno dei talenti più prolifici che la science fiction abbia mai avuto[2]. A differenza di tanti suoi colleghi, però, Dick riesce sempre a mantenersi su livelli di eccellente qualità, sicché anche le sue opere minori sono al di sopra della media, e le opere maggiori costituiscono un'imponente serie di capolavori. La consacrazione ufficiale del suo talento è il premio Hugo che viene assegnato a uno splendido romanzo del 1962, La svastica sul sole, classica ucronia ambientata in un universo parallelo dove le forze dell'Asse hanno vinto la seconda guerra mondiale e l'America contemporanea è una nazione sconfitta a tutti i livelli. Nel tessuto narrativo si insinua una seconda realtà alternativa, sotto le spoglie di un romanzo di fantascienza che parla di un mondo in cui l'Asse ha perso la guerra; però l'assetto socio-politico che ne è risultato è piuttosto diverso da quello del nostro universo... Il 1964 è un anno particolarmente significativo per Dick. I simulacri e Le tre stimmate di Palmer Eldritch, due pietre miliari della sua produzione, introducono temi e spunti che resteranno tipici della sua arte fino agli ultimissimi romanzi. Nel primo libro compaiono le creature artificiali cui allude il titolo, i simulacri, androidi perfezionatissimi che il potere (la classe dei G, l'élite dominante) usa per mantenere nella più totale delle soggezioni il resto dell'umanità (la classe dei B). Riprendendo una profetica intuizione di George Orwell[3], Dick ipotizza che i G, per meglio esercitare la loro oppressione, riscrivano in continuazione i testi di storia che i B sono obbligati a studiare; e, spingendosi ancora più in là, prevede addirittura l'uso del viaggio nel tempo per apportare modifiche concrete al passato storico. Come già in La svastica sul sole, l'analisi delle strutture politiche è spietata, lucidamente amara, e non lascia speranze: il potere, cristallizzato in vere e proprie caste, tende a perpetuarsi all'infinito, mentendo su tutto, sulla vita come sulla morte, come sulla realtà stessa. Le tre stimmate di Palmer Eldritch può, a buon diritto, essere considerato un libro epocale, nel senso che rappresenta e interpreta le tensioni ideali di un'intera fascia di cultura e di un preciso periodo storico: la cultura della droga, dell'LSD, che ha avuto molti profeti, molti teorici, e molti devoti praticanti, all'interno dei movimenti giovanili di contestazione. La lotta fra le due corporazioni che si contendono il predominio del mercato interplanetario della droga (usata come panacea al "male di vivere" dei coloni sbattuti su mondi ostili) porta a un crescendo di allucinata confusione ontologica; il qui e l'ora, la concretezza del reale, non esistono più, sostituiti da un caos di percezioni alterate e di stati di coscienza "acidi". Il Dio che si delinea in queste pagine possiede una natura fondamentalmente maligna, e la figura di Palmer Eldritch (che si moltiplica all'infinito, apparendo ovunque, sfiorando tutto con la sua presenza) ha spiccati sottofondi messianici. La ricerca del trascendente, il tentativo di definire l'essere superiore che regge le fila del destino umano, è un'altra costante della narrativa di Dick. Col tempo, tenderà a portarlo a un misticismo radicale (è il caso di Divina invasione, un romanzo del 1981, e di Valis, apparso nello stesso anno); ma la sincerità del suo anelito è fuori discussione, e in Le tre stimmate... il tema religioso aggiunge echi molto suggestivi a una vicenda già ricca di affascinanti risvolti onirici. A proposito della droga, va precisato che Dick stesso ne ha fatto uso, per quanto in epoche successive si sia affrettato a smentirlo, e per quanto alcune delle sue opere più tarde (Episodio temporale, 1974; Scrutare nel buio, 1976) siano drammatici, convincenti atti d'accusa contro gli allucinogeni. Come tanti altri artisti della cultura popolare degli anni Sessanta (valga per tutti l'esempio dei Beatles), Dick ha cercato nell'LSD motivi di ispirazione, visioni che fossero slegate dalla percezione normale, piatta, del mondo; e se è lecito giudicare dai risultati senza perdersi in troppo facili moralismi, va detto che i suoi sforzi sono stati tutt'altro che inutili. Le geniali allucinazioni di cui si nutrono romanzi come Il cacciatore di androidi (1968) o Ubik, mio signore (1969) non sarebbero forse mai nate da una mente che non avesse provato l'ebbrezza del trip acido. Queste due opere portano alle conseguenze più estreme il processo di sfaldamento del reale: gli androidi che Rick Deckard deve individuare ed eliminare sono, per certi versi, più umani degli uomini che li hanno creati, tanto che diventa praticamente impossibile riuscire a distinguere fra l'essere artificiale e l'essere vero, biologico[4]; e Ubik, l'enigmatica presenza che si materializza sotto infinite spoglie, è l'ente superiore ma allo stesso tempo è anche un banalissimo spray per uso domestico, e in ogni caso, come annuncia la singolare rivelazione finale, buona parte della storia si è svolta in un mondo che non esiste, in un sogno creato da qualcuno che dovrebbe essere morto... Negli ultimi anni di vita, divenuto un autore di culto anche al di fuori della cerchia dei lettori di fantascienza (in particolare in Europa: Francia e Italia sono fra i paesi che più hanno amato la sua narrativa), Dick si è lanciato in veementi battaglie contro la droga. Sempre più simile a tanti dei personaggi dei suoi romanzi, ha sostenuto dapprima di essere perseguitato dalla CIA per le sue posizioni politiche radicali, e più tardi di essere stato invasato da Dio stesso. Dio sarebbe entrato nella sua mente, fornendogli nuove chiavi interpretative per l'esistenza e provvedendo, fra le altre cose, a rimettere ordine nel caos della sua situazione finanziaria. Certo è difficile giudicare le dichiarazioni di cui Dick è stato tutt'altro che avaro in interviste e articoli e che sembrerebbero in netta opposizione con la perenne lucidità della sua opera letteraria. Personalmente, pur avendo spesso sospettato che questa repentina metamorfosi fosse solo una beffa, un ironico scherzo giocato per puro divertimento da un grande tessitore di trame schizofreniche, resto perplesso di fronte al tono predicatorio, aspramente biblico, di romanzi come Divina invasione e Valis, lontani miglia e miglia dalla fredda capacità di analisi dei lavori precedenti. Ma se, come Dick ha sempre sostenuto, la realtà ha un numero infinito di facce che si sovrappongono in continuazione, creando la semplice apparenza di un ordine, di una logica, allora può veramente darsi che lo scrittore abbia incontrato a tu per tu una delle facce più segrete e ne sia rimasto cambiato per il poco tempo che gli restava da vivere... Per amare bisogna anche odiare, o saper odiare: è questo uno dei messaggi che si ripetono con martellante intensità nel corpus narrativo di Dick (messaggio, fra l'altro, puntualmente confermato dai ritmi sincopati della sua vita sentimentale). Nelle relazioni fra uomo e donna che l'autore americano ci racconta, il nucleo amore-odio è la chiave essenziale. Porta a capovolgimenti di ruolo, al desiderio di infliggersi dolore a vicenda, a lacerazioni insanabili; sicché, alla fine delle sue storie, è un dato tipico che i protagonisti si ritrovino al punto di partenza, con le stesse incertezze e un nuovo ammasso di problemi, spesso peggiori di quelli iniziali, da risolvere. Perché il punto è questo: nessuno riesce mai ad avere un rapporto di completo amore con se stesso, e quindi non può pretendere di averlo col mondo esterno. Antichi sensi di colpa, ossessioni che ci trasciniamo dietro da anni, mineranno sempre la nostra pace interiore, e la nostra visione del mondo. Essere schizofrenici (o ebefrenici, o quello che meglio vi pare: scegliete la vostra malattia mentale preferita![5]) diventa una sorta di necessità, per poter operare un distacco fra l'io e l' altro dall'io, fra l'emotività e la logica, fra i problemi che forse ammettono una soluzione e le situazioni che non hanno via d'uscita. Tutti, o quasi, i personaggi di Dick sono schizofrenici, nel senso che le loro percezioni tendono a scindersi su livelli distinti, portando a un incessante lavoro di analisi che ha poco di razionale e molto di intuitivo. Si tratta di un meccanismo di difesa nei confronti di un universo folle, all'interno del quale la schizofrenia è un dato di base ineliminabile; detto in parole povere, siamo alla tattica del combattere il nemico sul suo stesso terreno, nella speranza non di vincere (illusione assurda di fronte allo stato delle cose che ci circonda) ma, più semplicemente, di riuscire in qualche modo a sopravvivere. Schizofrenica e alienante è la tecnologia: strumento di repressione nelle mani del potere, si trasforma in tortura quotidiana, spicciola e sfibrante, nelle lotte con le macchine che si rifiutano di funzionare come vorremmo noi, negli impianti audio che cominciano a trasmettere una musica che non può esistere, nelle porte (elettroniche, intelligenti) che non accettano di aprirsi se prima non abbiamo inserito una monetina nell'apposita fessura. Schizofrenica è la realtà, pronta a sfaldarsi sotto le nostre mani da un momento all'altro, a presentarci il quadro apparentemente rassicurante di cose e persone che sono tutt'altro da ciò che crediamo, a illuderci con ricordi di un'esistenza che non ci è mai appartenuta. Schizofrenico è il concetto stesso di vita, quando ci rendiamo conto che il confine tra biologico e artificiale è tanto labile da oscillare avanti e indietro come un pendolo, magari per portarci alla raccapricciante scoperta di essere a nostra volta, senza averlo mai saputo, creature sintetiche (il che accade in molti, memorabili racconti, come il celeberrimo Impostore del 1953 e Le formiche elettriche del 1969). Schizofrenica è la divinità, l'essere superiore, il Dio che ha molti nomi e molte nature non fuse in maniera armonica ma contrapposte l'una all'altra in un groviglio di tensioni ambivalenti: si passa dalla bontà all'indifferenza alla cattiveria alla malvagità quintessenziale senza soluzione di continuità, ed è come osservare le molte facce di una pietra preziosa su cui la luce cade e viene rifratta in modo sempre diverso. Come Immanuel Kant, Dick giunge alla conclusione che il noumeno sia inconoscibile all'attività teoretica dell'uomo; ma, a differenza di Kant, non ammette una funzione redentrice della morale, e la possibilità di una effettiva conoscenza è negata a priori. L'universo fenomenologico in cui si agitano le (più o meno) spasmodiche crisi della nostra coscienza, del nostro vissuto, è un insieme di dati non ordinabili in sequenza coerente. Per tracciare un diagramma attendibile del mondo che abbiamo attorno e che abbiamo dentro ci mancano sia le coordinate, sia le ascisse; tutto viene inghiottito dallo spaventoso baratro del nulla esistenziale, e dopo che si è precipitati al fondo dell'abisso, non resta che rassegnarsi alla lunga risalita. Destinata, peraltro, a fallire. Perché non ci sono più veri appigli: la realtà si sfilaccia, i rapporti interpersonali vacillano, la stessa autocoscienza è soggetta a drastiche, repentine revisioni. E persino gli strumenti più canonici di imposessamento della realtà esterna, primo fra tutti il linguaggio, si rivelano inadeguati al compito. I vistosi, ripetuti slittamenti nel rapporto significante\significato, con la perenne ambiguità delle parole e del senso che esse dovrebbero rappresentare, mutano il processo dialettico in un circolo vizioso che non fa altro che mordersi la coda: crediamo di andare avanti, di muoverci, di agire, e invece siamo fermi allo stesso identico punto da cui eravamo partiti. In un mondo che è solo apparenza, illusione, inganno. Fantasma di se stesso e delle categorie del nostro conoscere. La maggiore grandezza di Philip Dick sta, a mio giudizio, nella sua capacità di essere a un tempo scrittore e filosofo, ideologo e intrattenitore. Sin dagli inizi della sua carriera, senza mai rinnegare le origini "popolari" del genere che ha scelto come mezzo di espressione, Dick ha accettato le convenzioni della fantascienza, i luoghi comuni, i topoi canonizzati (e talora sclerotizzati) dal passato storico della science-fiction. Ha saputo usare gli stereotipi più classici, dal viaggio nel tempo agli universi paralleli, dai poteri extrasensoriali alla colonizzazione di nuovi pianeti, dall'estrapolazione sociologica all'avventura spaziale, piegandoli alle necessità del complesso discorso che andava tessendo. I suoi romanzi e i suoi racconti sono colmi di sorprese, di trovate, di azione, e anche di molto altro. Li si può leggere a svariati livelli; ci si può limitare al piacere epidermico di trame che spesso brillano per vivacità d'invenzione fantastica, oppure si può scendere più in profondità ed esplorare gli abissi del nulla che la sua narrativa spalanca sotto i nostri piedi. Il divertimento (intelligente) è comunque assicurato.

NOTE

  1. Ursula Kroeber Le Guin, autrice americana di fantascienza e fantasy (Berkeley, California, 1929).
  2. Il corpus totale delle sue opere, in trent'anni di carriera, assomma a più di trenta romanzi e oltre un centinaio di racconti. E' opportuno ricordare che il mercato americano (e internazionale in genere) della fantascienza ha iniziato a essere realmente redditizio solo dalla metà degli anni Settanta in poi, il che ha costretto gli autori professionisti a una produttività forzata. Il caso di Dick, infatti, è tutt'altro che isolato.
  3. George Orwell (pseudonimo di Eric Blair), romanziere e saggista inglese (Motihari, Bengala, 1903; Londra, 1950). La "riscrittura della storia" è uno dei temi portanti del suo romanzo più celebre, 1984 (1949).
  4. Da Ubik, mio signore il regista Ridley Scott (Tyne and Wear, Gran Bretagna, 1939) ha tratto quello che si può senz'altro considerare il più splendido film di fantascienza degli anni Ottanta, Blade Runner (1982), interpretato da Harrison Ford. Scott è riuscito a tradurre le allucinazioni e le angosce di Dick in un compatto universo visivo che è la straordinaria trasposizione in immagini di una "zona del disastro" psichico.
  5. In un romanzo del 1964, Follia per sette clan (Clans of the Alphane Moon), Dick offre la rappresentazione di una società strutturata in clan, ognuno dei quali è portatore di una specifica malattia mentale.

Questo articolo è apparso sul n. 52 della rivista "Abstracta", Stile Regina Editrice, Roma, ottobre 1990