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Fortune e sfortune delle organizzazioni mondiali

Le Nazioni unite e gli interessi americani


L'Onu è obsoleta? Mentre si riunisce la sua cinquantesima Assemblea generale, l'organizzazione deve fare un bilancio delle grandi rivoluzioni che hanno scosso il pianeta in mezzo secolo: sconvolgimenti demografici e scientifici, decolonizzazione, estinzione del comunismo, vittoria del capitalismo. Lo scontro est-ovest è ormai cosa del passato, ma le sfide della miseria, delle ineguaglianze, dell'usura ecologica, permangono. Certo, l'Onu deve rinnovarsi, ma né essa né le organizzazioni che ne dipendono (si veda l'articolo a pag 11) devono essere messe al servizio degli interessi degli Stati uniti.

di gilbert achcar*

L'Organizzazione delle Nazioni unite, contrariamente alle istituzioni di Bretton Woods, nelle quali la preponderanza statunitense è assicurata dalla ripartizione dei voti secondo le quote finanziarie versate, era stata concepita in modo un po' "idealista". Il "principio di eguaglianza sovrana di tutti i membri" inscritto nella Carta, accordava a ogni stato un solo voto e quindi un eguale peso nelle votazioni all'Assemblea generale. Anche se questo principio era controbilanciato dal carattere non obbligatorio delle risoluzioni dell'Assemblea (delle semplici "raccomandazioni" sulle questioni più importanti). D'altronde, le regole di funzionamento del Consiglio di sicurezza cinque membri permanenti con diritto di veto impedivano il ricorso al capitolo VII della Carta, cioè l'adozione di misure coercitive, ivi compreso l'impiego della forza armata, contro il volere di una delle potenze vincitrici nel 1945.
Secondo Washington, l'Onu avrebbe dovuto essere uno strumento di consolidamento e di mantenimento della pace in un nuovo ordine nato dalla guerra e ampiamente dominato dagli Stati uniti, forti di circa la metà del Pil mondiale e sola potenza nucleare nel 1945. All'Assemblea generale, Washington dettava legge attraverso il voto maggioritario dei numerosi stati che dovevano loro qualcosa (nel 45, su 51 membri dell'organizzazione solo dieci appartenevano all'Asia o all'Africa, tra cui l'Unione sudafricana). Invece, il Consiglio di sicurezza era stato concepito come il luogo del consenso tra le grandi potenze. Di conseguenza, è stato assai spesso paralizzato da veti potenziali o effettivi, nel corso dei 45 anni che sono trascorsi dalla fondazione dell'Onu alla guerra del Golfo.
Mosca ha fatto ricorso in modo intensivo, quasi sistematico, al diritto di veto nel corso dei primi anni della guerra fredda: 77 volte dal 1945 al 1955. Fu solo grazie al boicottaggio temporaneo del Consiglio di sicurezza da parte dell'Urss, per protestare contro la concessione del seggio alla Cina di Formosa, che l'amministrazione Truman, nel giugno del 1950, riuscì a far intervenire in Corea le sue truppe e quelle dei suoi alleati sotto l'egida delle Nazioni unite. Ma quando l'Urss tornò sui suoi passi, il segretario di stato statunitense, Dean Acheson, ebbe l'idea di aggirare il veto sovietico rendendo possibile il ricorso all'Assemblea in caso di blocco del Consiglio (risoluzione "Unione per la pace" del 3 novembre 1950). A tal punto gli Stati uniti erano sicuri della loro capacità di controllo sull'Assemblea.
Solo nel 1970 Washington ritenne necessario utilizzare il proprio diritto di veto (nei confronti dell'Africa australe). E nel corso degli anni successivi, gli Stati uniti utilizzeranno il proprio potere di blocco più frequentemente dell'Urss. Nel frattempo, in effetti, la composizione dell'Assemblea era radicalmente cambiata, provocando una modificazione dei rapporti di forza all'interno dell'organizzazione, ivi compreso il Consiglio di sicurezza: il numero dei membri non permanenti era stato portato da sei a dieci nel 1965. L'arrivo massiccio di stati afro-asiatici all'Onu a partire dal 1960, sull'onda delle decolonizzazioni, parallelamente alla crescita del "neutralismo", dovevano progressivamente creare una maggioranza che, formalmente "non allineata", era in realtà ostile ai disegni egemonici degli Stati uniti, ritenuti la principale potenza "neocoloniale".
Il rovesciamento della situazione raggiunse l'apice nel corso degli anni '70, in particolare quando l'Assemblea, a gran danno di Washington, definì il sionismo "una forma di razzismo e di discriminazione razziale", dopo essersi pronunciata a favore di "un nuovo ordine economico internazionale". La reazione degli Stati uniti, su questo come su molti altri terreni, fu estremamente vivace sotto la presidenza di Ronald Reagan.
Washington, denunciando la "tirannide della maggioranza", chiese che il peso del voto dei membri dell'organizzazione relativo al bilancio fosse misurato sulla base dei contributi versati per il bilancio medesimo (1). L'amministrazione statunitense decise di ridurre il proprio apporto dal 25% del bilancio al 20%, fino a quando la propria richiesta non fosse stata accettata. Inoltre, impose ritardi e trattenute nei pagamenti, provocando una grave crisi finanziaria.
La seconda svolta Parallelamente, il divorzio politico tra Washington e l'organizzazione si accentuava, in particolare con la condanna dell'Onu al blocco dei porti del Nicaragua nel 1984, e in seguito al bombardamento statunitense della Libia nel 1986.
Ma gli Stati uniti, benché l'Assemblea abbia riconosciuto loro nel 1986 un diritto di veto de facto sull'utilizzazione del bilancio, proseguivano nel braccio di ferro finanziario, dopo aver fatto un importante versamento di arretrati nel 1987. La guerriglia continuava nel 1988, con il rifiuto di accogliere Yasser Arafat a New York, che obbligò l'Assemblea a spostarsi a Ginevra per ascoltare il leader palestinese. Ebbe una fiammata all'inizio della presidenza di George Bush: l'Assemblea condannò l'intervento delle truppe Usa a Panama nel dicembre del 1989.
Sotto la spinta della diplomazia sovietica diretta da Gorbaciov, i segni di un cambiamento si moltiplicavano. Il presidente Reagan, alla fine del suo secondo mandato, aveva già preso coscienza della possibilità di riattivare il ruolo dell'Onu in direzione conforme agli orientamenti statunitensi. Ma il Congresso, reticente a seguirlo su questa strada, gli rifiutò i mezzi per pagare gli arretrati che gli Usa dovevano all'organizzazione. E tuttavia il cambiamento continuò a seguire il suo corso, in particolare con gli interventi dell'Onu nel regolamento pacifico dei conflitti che opponevano, per procura, gli Stati uniti all'Urss sul continente africano. Le due superpotenze accettarono l'intervento di osservatori delle Nazioni unite con fini di supervisione: Mosca in Afghanistan, a partire dal 1988, per il ritiro delle proprie truppe, e Washington in America centrale, dal 1989, per la smobilitazione dei "contras" in Nicaragua.
Due fattori accelerarono questa seconda svolta, molto più drastica della prima, nelle relazioni tra Washington e l'Onu. In primo luogo, sicuramente, l'agonia dell'Urss, che ha comportato un cambiamento radicale nei rapporti tra i due supergrandi. Il "multilateralismo", che per Washington non ha mai significato altro che la formazione di coalizioni militari sotto l'egemonia statunitense, di preferenza con l'avallo dell'Onu, diventava di nuovo una prospettiva plausibile tanto più attraente per il fatto che l'interventismo unilaterale degli Stati uniti aveva ricevuto un forte colpo dalla guerra del Vietnam.
L'altro fattore, congiunturale, sarà la crisi del Golfo, conseguenza dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq il 2 agosto 1990. Costituirà in un certo senso il banco di prova della fine della guerra fredda e del nuovo "multilateralismo": per la prima volta, le grandi potenze condannavano all'unanimità uno dei grandi stati del terzo mondo, arrivando persino a decretare contro di esso un blocco navale e ad autorizzare la cacciata delle sue truppe "con tutti i mezzi necessari". Per la prima volta dal 1950, quando l'Urss aveva boicottato il Consiglio di sicurezza per solidarietà con la Cina continentale, l'articolo 42 della Carta che prevede il ricorso alla forza militare era di nuovo invocato, ma questa volta con l'avallo del Cremlino e l'astensione consenziente di Pechino.
George Bush comprese molto in fretta i vantaggi che avrebbe potuto trarre dalla compiacenza manifestata da Mosca nei suoi confronti, fin dall'inizio della crisi. Il "multilateralismo" era così destinato a diventare una pietra miliare dell'impresa di marketing politico realizzata dall'amministrazione Bush per "vendere" la guerra che stava preparando all'opinione pubblica statunitense e al Congresso.
In quel "momento unipolare" (2), la copertura dell'Onu era paradossalmente più utile alla Casa Bianca per fini di politica interna che per i possibili benefici militari derivanti dalla partecipazione degli alleati. Il principale problema dell'interventismo era quello della legittimazione agli occhi degli statunitensi stessi: a questo riguardo, il consenso espresso dall'Onu, tanto più prezioso perché inedito, dava un apporto decisivo (3).
Altro interesse, e non certo minore, della copertura dell'Onu: legittimare il mezzo scelto da Washington per evitare l'altro grande ostacolo all'interventismo statunitense: il problema del finanziamento di uno sforzo militare massiccio in un periodo di deficit di bilancio colossale e di indebitamento netto degli Stati uniti. La soluzione fu la partecipazione alle spese degli alleati più ricchi: monarchie petrolifere del Golfo, Giappone, Germania ecc. Il segretario di stato, James Baker, si distinse talmente in questo esercizio, da meritare il soprannome di "madre di tutti i raccoglitori di fondi" (mother of all fundraisers) da parte di due esponenti eminenti del think tank della diplomazia statunitense (4). In effetti, la "colletta" fu consistente: 53 miliardi di dollari, ampiamente sufficienti per coprire le spese del Pentagono, se non addirittura permettergli qualche guadagno.
L'intervento in Somalia deciso da Bush nel dicembre 1992 in modo inabituale, giusto prima di cedere il posto al suo successore, eletto contro di lui si inscriveva in una logica di conservazione di ciò che appariva come la principale conquista di questa era in via di conclusione: il rinnovamento della capacità morale degli Stati uniti a intervenire militarmente, agendo sotto la bandiera dell'Onu. Il presidente, lasciando a Clinton il compito di gestire un'operazione già in corso, esorcizzava in un certo senso il passato di oppositore alla guerra del suo successore (5). Il tema scelto sembrava prestarsi a meraviglia, dal punto di vista del consenso internazionale e della legittimità, agli occhi dell'opinione pubblica statunitense (6). Il risultato finale è stato però tutto il contrario del previsto.
Cattiva gestione dell'intervento o errata definizione dei compiti? Come sia, nel marzo 1994, quando le truppe statunitensi lasciavano la Somalia, la patologia del Pentagono si era arricchita di una "sindrome somala", andata ad aggiungersi alla "sindrome di Beirut" e alla "sindrome vietnamita", che rimane ancora molto forte (7). Sindromi che hanno inibito qualsiasi tentativo statunitense di inviare delle truppe in Bosnia, mettendo così in rilievo il carattere eccezionale del conflitto del Golfo, dove la configurazione del terreno si era prestata, come da nessun'altra parte, alla guerra elettronica.
L'intervento statunitense ad Haiti nel settembre del 1994, anche se vicino al modello creato nel 1990 coalizione dominata dagli Stati uniti sotto copertura Onu evidenziava più i problemi legati alla riproduzione di questo modello che la sua efficacia. Sapendo che si trattava di un paese molto vicino alle coste statunitensi, la cui situazione ha delle ricadute dirette sulla vicina superpotenza, non resta che stupirsi per l'ampiezza della resistenza che l'amministrazione Clinton ha dovuto fronteggiare al Congresso e nell'opinione pubblica prima di imboccare questa strada. Una resistenza che lo ha spinto a negoziare un compromesso con la giunta prima dell'intervento.
In realtà, il vento dell'"isolazionismo" sembra vincere negli Stati uniti da almeno due anni a questa parte. L'entusiasmo "internazionalista" suscitato dalla guerra del Golfo è stato altrettanto effimero della promessa del "nuovo ordine mondiale" che l'aveva accompagnata. La fine della guerra fredda ha piuttosto nutrito l'idea, molto diffusa tra gli statunitensi, che il loro paese, dopo aver portato il principale fardello della lotta anti-comunista, adesso deve godere di un riposo ben meritato. Di conseguenza, la nuova luna di miele tra Washington e l'Onu, inaugurata da Bush, è stata troppo breve per cancellare l'eredità di due decenni di litigioso divorzio. E, come nel corso degli anni precedenti, le difficoltà si traducono in problemi finanziari. Washington si nasconde dietro la bandiera dell'Onu, quando questo le fa comodo, e lo fa tanto più volentieri quando l'intervento delle sue truppe è finanziato dagli altri con il pretesto del "multilateralismo". In questo tipo di interventi, inquadrati dal capitolo VII della Carta, le truppe statunitensi agiscono sotto propri comandi, senza doversi piegare a utilizzare simboli come il casco blu. Ma quando gli Stati uniti devono contribuire al finanziamento di unità a cui non partecipano o di cui non controllano il comando come è il caso delle forze di "mantenimento della pace" che agiscono sotto comando Onu continuano a frapporre difficoltà per i finanziamenti (8). Risultato: gli arretrati dovuti dagli Stati uniti all'organizzazione internazionale oltrepassavano già 1,5 miliardi di dollari al 31 agosto 1994, cioè alla fine del precedente esercizio finanziario, due terzi dei quali dovuti per operazioni di "mantenimento della pace".
Il nuovo "unilateralismo" Il Congresso "introvabile" eletto nel 1994 non può che aggravare lo stato delle relazioni tra l'Onu e il paese che ne ospita la sede, tanto più che Clinton è poco incline a condurre battaglie su questo terreno. Inoltre, da allora, la volontà statunitense di togliere l'embargo sulle armi alla Bosnia, fortemente maggioritaria al Congresso e, per un certo periodo, condivisa dal governo, si è scontrata con il rifiuto di altre potenze del Consiglio di sicurezza. Washington è stata costretta persino a ricorrere al veto, il 17 maggio scorso, su una questione che riguardava Israele: era la prima volta dal 1990.
Certamente, tra la retorica "isolazionista" e spesso demagogica dei leader della destra repubblicana trionfante, e gli interessi "pesanti" di un paese sempre più sensibile a ciò che succede nel resto del mondo, c'è una contraddizione che non manca di raffreddare, o anche di correggere, le passioni dei primi. A riprova di ciò, per esempio, il National Security Revitalization Act, adottato dal nuovo Congresso, e attraverso il quale quest'ultimo cercava di imporre al presidente il proprio avallo prima di porre truppe statunitensi sotto comando Onu, è stato in realtà sensibilmente attenuato.
Brent Scowcroft e Arnold Kanter, due membri eminenti dell'amministrazione "internazionalista" di Bush, hanno sottolineato in un articolo l'originalità di ciò che chiamano "il nuovo unilateralismo". Contrariamente all'isolazionismo tradizionale, questo non nega l'interdipendenza fra gli Usa e il resto del mondo, ma riflette "il fatto di non essere disposto ad assumersi il pesante compito di esercitare la leadership internazionale, e di essere incline non solo a condividerne il peso con altri, ma addirittura a sbarazzarsene. Per semplificare, il nuovo unilateralismo sottintende un approccio in politica estera in base al quale gli Stati uniti si occuperanno del mondo fino a quando dovranno farlo, ma lo faranno soltanto a modo loro, secondo un proprio calendario e a determinate condizioni" (9).
I due autori criticano la miopia del "nuovo unilateralismo" che scoprono negli atti dell'amministrazione Clinton, in particolare nella minaccia di non tener conto delle risoluzioni dell'Onu per quanto riguarda gli embarghi che interessano l'Iraq e la Bosnia. Giudicano questo atteggiamento dannoso agli interessi degli Stati uniti, in particolare per ciò che riguarda l'organizzazione internazionale: "Quando Washington seleziona e sceglie tra le risoluzioni del Consiglio di sicurezza quelle che vuole rispettare, invece di esercitare la propria leadership per ottenere le azioni dell'Onu di cui gli Usa hanno bisogno, indebolisce un prezioso strumento di politica estera".
I termini del dibattito interno all'establishment riguardo alla politica da seguire nei confronti delle Nazioni unite sono dunque ben definiti: utilizzare l'organizzazione à la carte, a seconda dei bisogni statunitensi, oppure dirigerla in modo conseguente per fissarne il menu. In un periodo in cui vengono proposti numerosi progetti di riforma dell'Onu che, senza l'appoggio degli Stati uniti rimarranno delle vane chimere è bene ricordarsi cosa Washington vuole fare dell'organizzazione.


note:
*Professore, Università Parigi VIII
torna al testo (1) Nel 1988, 107 stati membri contribuivano al 2% del bilancio, mentre in 15 ne finanziavano l'84,5%. All'interno di questo secondo gruppo, il contributo degli Stati uniti era stato ridotto dal 31,5% al 25% del bilancio nel 1972.

torna al testo (2) L'espressione è di Charles Krauthammer, editorialista statunitense un tempo molto ostile all'Onu e ormai cinicamente favorevole alla sua utilizzazione quando questo serve agli interessi degli Stati uniti.

torna al testo (3) Sul "voltafaccia" degli Stati uniti e, più generalmente, sull'evoluzione dei loro rapporti con l'Onu fino all'arrivo di Clinton al potere, cfr. l'eccellente lavoro di Robert W.Gregg, About Face? The United States and the United Nations, Lynne Rienner Publishers, Boulder, Colorado, 1993.

torna al testo (4) Graham Allison e Gregory F.Treverton, Rethinking America's Security: Beyond Cold War to the New World Order, Norton, New York, 1992.

torna al testo (5) Si è parlato molto dell'opposizione del giovane Clinton alla guerra del Vietnam, ma molto meno del fatto che, diventato governatore dell'Arkansas, ha presieduto il Democratic Leadership Council (blocco dei democratici fuori del Congresso), favorevole nel 1990 all'intervento militare contro l'Iraq.

torna al testo (6) Il Giappone, una volta di più, è stato il principale finanziatore dell'intervento in Somalia: 100 milioni di dollari di contributi (il 91% del totale) al primo fondo specializzato creato per la forza di intervento unificata.

torna al testo (7) Nel vocabolario del Pentagono, la "sindrome di Beirut" designa la paura di attentati, come quello che è costato la vita a 241 "marines" in Libano il 23 ottobre 1983.

torna al testo (8) Gli Stati uniti dovrebbero contribuire per il 30% al finanziamento delle attività di mantenimento della pace che comportano la presenza di caschi blu. Chiedono che la loro parte venga ridotta al 25%.

torna al testo (9) "Going it Alone and Multilateralism Aren't Leadership", International Herald Tribune, 4-5 febbraio 1995.
(Traduzione di A.M.M.)
Articolo tratto da Le Monde Diplomatique dell'Ottobre-1995, inserto mensile de il manifesto