|
|
|
|---|
|
GLI ESCLUSI COSTRUIRANNO LA NUOVA STORIA?Giulio Girardi
edizioni Borla |
Prologo di Rigoberta Menchú
Presentazione
Introduzione
Parte prima
Gli esclusi rompono il silenzio
di 500 anni
Capitolo primo
La Campagna «500 anni di
resistenza indigena, negra e popolare»»
Capitolo secondo
Il movimento continentale indigeno,
negro e popolare gestazione di un nuovo soggetto storico?
Parte seconda
Gli esclusi giudicano la civiltà
occidentale cristiana: sistema di dominazione, discriminazione
e morte
Situazione del continente: massacro
del popolo
Capitolo primo
Razzismo politico, economico ed
ecologico: colonialismo e capitalismo
Capitolo secondo
Razzismo culturale e religioso
Capitolo terzo
La contraddizione fondamentale:
capitale-vita del popolo
Capitolo quarto
Il razzismo, essenza della civiltà
occidentale cristiana
Conclusioni
Parte terza
Gli esclusi prospettano alternative
di civiltà
Capitolo primo
Autodeterminazione solidale e
progetto di alternativa globale
Capitolo secondo
Autodeterminazione solidale, cultura,
educazione
Capitolo terzo
Autodeterminazione solidale, politica,
legislazione
Capitolo quarto
Autodeterminazione solidale, economia,
ecologia
Capitolo quinto
Autodeterminazione e solidarietà
continentale
Capitolo sesto
Verso un'alleanza Intercontinentale
tra I popoli del Sud
Parte quarta
I credenti dalla parte degli esclusi:
nuovi orizzonti dell'ecurnenismo popolare
Capitolo primo
I
credenti nel Movimento indigeno, negro e popolare di Abya Yala:
l'«Assemblea del Popolo di Dio»
Capitolo secondo
Macroecumenismo, evangelizzazione,
disevangelizzazione
Presentazione
I. L'esperienza vissuta dell'Incontro: unità nella diversità
II. L'unità nella diversità, problema fondamentale dell'Incontro
III. uovi orizzonti aperti dal macroecumenismo
IV. Disevangelizzazione e liberazione:
il punto di vista degl'indigeni
V. vangelizzazione liberatrice o
disevangelizzazione?
Capitolo terzo
Scelta del poveri, dei popoli,
del popolo di Dio
Parte quinta
Gli esclusi: perno di un blocco
popolare planetario?
Capitolo primo
Dala prospettiva continentale
alla prospettiva mondiale
Capitolo secondo
Tra gli oppressi del Sud e del
Nord contraddizione o convergenza di interessi?
Capitolo terzo
Debito esterno del Sud o del Nord?
Conclusine
Gli esclusi costruiranno la nuova
storia?
Appendice
«Iniziativa Indigena per la Pace» e prospettive della solidarietà italiana
I. Precedenti storici dell'Iniziativa Indigena per la Pace
Il. Che cos'è l'iniziativa Indigena per la Pace?
III. Prospettive della solidarietà
italiana con l'iniziativa Indigena per la Pace
Premio Nobel per la Pace 1992
Con molta dedizione e professionalità, il maestro Giulio Girardi domanda se con la caduta del muro di Berlino e il «Crollo del comunismo», simboli della fine della guerra fredda, il capitalismo si sia consolidato definitivamente e si siano chiuse le porte di qualsiasi alternativa; o se, invece, abbia acquistato nuovo vigore il progetto di costruire per l'umanità un futuro diverso.
Per rispondere a questo interrogativo, è necessario partire dalle condizioni in cui vive l'immensa maggioranza della popolazione mondiale, dalle sue rivendicazioni, dalle sue lotte e speranze di un futuro migliore. La concentrazione dei poteri in poche mani condanna i poveri ad essere più poveri e rende più evidente l'urgenza di raffermare i sacri valori che diedero origine all'umanità: ciò che appunto noi, popoli originari del mondo, ci stiamo proponendo di fare. Contribuendo a tale obiettivo, il maestro Girardi ha compiuto un importante lavoro di sistematizzazione del pensiero elaborato specialmente dal movimento indigeno, negro e popolare.
Perché nonostante lo sterminio, la distruzione, l'esilio e la morte che hanno segnato questi 500 anni, noi popoli indigeni abbiamo contribuito costantemente ad arricchire l'identità del nostro grande continente, anche se le altre componenti della società non lo hanno riconosciuto. Il ricordo dei nostri antenati, il nostro pensiero e le nostre lotte hanno contribuito a rafforzare ed a far fiorire i più alti valori della comunità, il rispetto dei valori e dei diritti individuali e collettivi, cioè la vitalità e la validità dell'equilibrio come requisito indispensabile di un mondo giusto e pacifico.
Da molto tempo, noi indigeni e popoli originari di tutto il mondo, abbiamo iniziato ad unirci. Per rompere il silenzio, nella speranza di preservare le nostre culture e di difendere la nostra esistenza, ci siamo rivolti alle istituzioni internazionali, come l'Organizzazione delle Nazioni Unite ed abbiamo cominciato ad esigere il nostro posto. La prima volta che un dirigente indio si è presentato davanti ad un organismo intergovernativo per chiedere giustizia e riconoscimento dei diritti di un Popolo Indigeno è stato nel 1923, quando il capo Deskaheh chiese che il suo popolo fosse rappresentato in seno alla Società delle Nazioni.
A partire poi dalla metà degli anni settanta, un numero rilevante di fratelli indigeni cominciarono a sfilare dall'aeroporto internazionale di Ginevra, per cercare di aprire le porte dell'ONU. Cominciammo così la lotta diplomatica, esigendo che i governi rispettino le nostre vite, la nostra madre terra e tutti i diritti che ci appartengono.
Come frutto della nostra lotta e della solidarietà di molte istituzioni e di molti popoli, fu creato nel 1982 presso I'ONU il Gruppo di Lavoro sulle popolazioni indigene. Esso ha costituito fino ad oggi, per gl'indigeni, una tribuna internazionale senza precedenti. Per la prima volta abbiamo ottenuto uno spazio all'interno dell'ONU, nel quale abbiamo potuto sollevare i gravi problemi che dobbiamo affrontare: contribuire alla creazioni di nuovi rapporti tra i popoli indigeni e gli stati; partecipare all'elaborazione di norme internazionali, destinate a fornire un quadro giuridico alle nostre rivendicazioni ancestrali. Molti fratelli, indigeni e non, hanno impegnato la loro vita nello studio della legislazione internazionale, per cui oggi disponiamo di un «progetto delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni».
Undici organizzazioni indigene con statuto consultivo presso I'ONU hanno dato battaglia e coinvolto altri fratelli indigeni nella lotta all'interno delle Nazioni Unite. Per appoggiare e facilitare questa partecipazione, vari governi hanno deciso ed appoggiato la creazione del fondo di contributi volontari delle Nazioni Unite per le Popolazioni Indigene, che ha permesso di finanziare alcuni viaggi a Ginevra.
Sul piano della regolamentazione internazionale dei diritti dei popoli indigeni, si è conseguito la revisione della Convenzione 107. Essa è sfociata, nel 1989, nell'adozione della Convenzione 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, che possiamo considerare un primo passo per stabilire migliori rapporti fra Popoli Indigeni e Stati.
D'altro lato, nell'ottobre dello stesso anno, ha avuto inizio la Campagna continentale 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare, che rappresenta un grande precedente nella lotta per i nostri diritti in America, e che ha contribuito alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica internazionale ai nostri diritti e valori.
Per altro, nel nostro continente il problema dei diritti umani è lontano dall'essere risolto: mancano le condizioni minime perché la grande maggioranza possa vivere con dignità. Questa denuncia è stata al centro della Campagna 500 anni. Ma oltre che denunciare tali situazioni, la campagna ha significato per noi rompere il silenzio, lanciando un messaggio di vita e di speranza, e un appello alla necessità di una convivenza pacifica. Infine, la campagna ha rappresentato un momento di trasformazione nella mentalità della comunità internazionale.
In tale clima fu conferito il Premio Nobel per la Pace a una donna indigena del Quiché. Premio che per noi è stato un simbolo ed una conferma della validità delle nostre lotte e rivendicazioni.
Successivamente, si sono sviluppati gli sforzi di avvicinamento tra Popoli Indigeni e Stati, nel quadro ufficiale creato dall'assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando ha dichiarato il 1993 anno internazionale dei Popoli Indigeni, accogliendo finalmente una nostra rivendicazione, formulata sei anni prima. In tale contesto, noi indigeni abbiamo riaffermato non solo che siamo vivi, ma che, sebbene in questi 500 anni abbiano ammazzato milioni di indigeni, quelli che rimangono vivi chiedono oggi riconoscimento e giustizia, e vogliono essere artefici del loro destino.
Nell'anno internazionale sono stata nominata Ambasciatrice di Buona Volontà, con il compito di far conoscere all'opinione pubblica mondiale i problemi dei popoli indigeni. Ho avuto così la possibilità di conoscere diverse realtà dei miei fratelli indigeni e dei Popoli originari di America, d'Europa, d'Asia e di Oceania. Con amarezza ho dovuto constatare che l'impunità continua a far parte della nostra vita quotidiana.
Lungo il 1993, abbiamo tenuto due incontri al vertice dei Popoli Indigeni, uno a Chimaltenango, Guatemala, l'altro a Oaxtepec, Messico. Questi vertici fanno parte delle lotte dei popoli, in continuità con quelle che iniziarono i nostri fratelli indigeni vari decenni or sono.
Confrontando in questi incontri le nostre esperienze, abbiamo concluso che l'anno internazionale dei popoli indigeni, proclamato dall'ONU, aveva avuto un valore quasi solo simbolico. Abbiamo quindi deciso di indire un Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni, che l'assemblea Generale dell'ONU ha approvato nel dicembre del 1993.
Secondo questa risoluzione dell'ONU, il Decennio ha come obiettivo principale quello di rafforzare «la cooperazione internazionale per la soluzione dei problemi che debbono affrontare i popoli indigeni in sfere come i diritti umani, l'ambiente, lo sviluppo, l'educazione e la salute». Esso dovrà nello stesso tempo alimentare la discussione sui nuovi strumenti che permetteranno una piena e decisa partecipazione degl'indigeni alle decisioni che li riguardano.
Gli avvenimenti degli ultimi anni ci hanno rivelato più da vicino le gravi sofferenze in cui vivono tuttora ogni giorno i popoli indigeni di America, come anche i popoli originari, ricchi anch'essi di culture millenarie, di altri continenti. Sempre più decisi sono gli sforzi che facciamo per unire le nostre rivendicazioni come popoli indigeni con quelle delle minoranze in tutte le parti del mondo. Siamo tutti mobilitati dalla stessa indignazione di fronte alle violazioni dei nostri diritti inalienabili.
Oggi, quelli di noi che hanno partecipato ai due Incontri al Vertice hanno costituito la Iniziativa Indigena per la Pace, con lo scopo di contribuire attivamente, con metodi pacifici, alla lotta per il riconoscimento e il rispetto dei diritti dei Popoli Indigeni. Nel corso del 1994, anno preparatorio al Decennio, promuoveremo riflessione e deliberazioni per operare nel Decennio in modo efficace.
D'altro lato il movimento continentale Indigeno Negro e Popolare continua il suo impegno per rafforzare le alleanze strette durante la Campagna 500 anni. In questa prospettiva dev'essere valorizzato il Primo Consiglio Latinoamericano di organizzazioni contadine, tenutosi recentemente: esso si è proposto di elaborare alternative alle politiche neoliberali, che rendono sempre più intollerabili le situazioni dei nostri popoli.
Il movimento continentale e l'azione diplomatica sono le due braccia della nostra lotta. In questi anni abbiamo imparato a formare alleanze, a dibattere, a negoziare con dignità e ad impegnarci su vari fronti. Come rileva giustamente il maestro Girardi, la nostra lotta non è solo continentale, è mondiale, e continua a svilupparsi.
Nonostante il sorgere di altri «muri», quali il neofascismo e il razzismo, le nostre culture millenarie si stanno rafforzando ed offrono la possibilità di ricoprire dei valori quali il rispetto della natura, il rispetto dei popoli e degli individui, con tutte le loro implicazioni culturali, politiche, giuridiche, economiche, ecologiche, educative, ecc. La nostra proposta è presente nella grande diversità di movimenti popolari indigeni, a livello locale e internazionale, attraverso i quali ci affermiamo come soggetti attivi. La valorizzazione di questa faccia sconosciuta della storia dovrà permettere di costruire delle società multietniche e pluriculturali.
Il Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni, indetto dalle Nazioni Unite, non dev'essere solo l'occasione per continuare le lotte che abbiamo condotte per secoli. Dev'essere anche un'occasione per rinnovarle. Il Decennio Internazionale non sarà un fatto puramente simbolico, se tutti i popoli del mondo appoggeranno le iniziative dei Popoli Indigeni.
Questo libro è un appello ad ascoltare le rivendicazioni dei Popoli Millenari, per costruire con essi una nuova umanità ed un futuro armonioso. Raccomandiamo la sua lettura e diffusione agli stessi popoli indigeni, che vi troveranno fedelmente riflesso e sistematizzato il pensiero che stanno elaborando; ed ai settori della solidarietà internazionale, che sono decisi ad appoggiare le iniziative del nostro Decennio.
I 500 anni sono stati una lunga notte,
molto oscura. Ma non vi è oscurità che possa durare
indefinitamente. La notte deve terminare, l'aurora deve toccare
a sorgere.
Città del Messico, 4 maggio
1994
RIGOBERTA MENCHÚ TUM
Premio Nobel per la Pace
Fine della storia o nuovo
inizio?
La tesi di Fukuyama, che proclama la fine della storia, segnata dal crollo del comunismo e dalla vittoria definitiva del capitalismo, è stata vigorosamente respinta da tutti coloro che non condividono il trionfalismo delle sue impostazioni e l'ideologia che lo alimenta.
Tuttavia, nel dibattito non si è rilevato sufficientemente, accanto all'aspetto trionfalistico di quella tesi, il suo aspetto tragico. Perché affermare che la vittoria del capitalismo è definitiva, significa che l'organizzazione attuale, economica, politica e culturale del mondo non ammette alternativa; che le leggi del mercato si stanno imponendo con una logica così implacabile, che qualunque ipotesi di autonomia rispetto ad esse sembra il sogno di un visionario.
Ora, se è certo che la logica del mercato esclude dal potere, dalla cultura e dalla vita le grandi maggioranze dell'umanità, ciò significa che la vittoria del mercato coincide con la sconfitta della vita. Se è certo che la logica del mercato conduce inevitabilmente alla distruzione della natura e pertanto minaccia seriamente la stessa sopravvivenza della specie umana, la proclamazione della fine della storia significa la vittoria finale della morte.
La conquista dell'America, che per i conquistatori rappresentava il «nuovo mondo» ed apriva nella storia d'Europa una nuova epoca, ha costituito realmente, in larga misura, per i popoli assoggettati e sterminati, la fine della storia. La tappa attuale della conquista intende essere, nella prospettiva dei suoi protagonisti, la «soluzione finale» del problema della storia, il cui senso ultimo consisterebbe nella vittoria dei potenti e nella sepoltura delle loro vittime.
La Campagna 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare di Abya Yala, sorta nel clima polemico del V Centenario dell'invasione, propone un'analisi del sistema mondiale di dominio, che denuncia duramente la sua logica genocida. Tuttavia, la Campagna, trasformandosi in movimento indigeno, negro e popolare, decisamente orientato verso la costruzione di un nuovo futuro, sfida il fatalismo che percorre le sue analisi, proclamando che la nuova storia è possibile e che i suoi protagonisti saranno, paradossalmente, gli esclusi della storia anteriore.
Così, nello stesso momento in cui la cultura degl'imperi annuncia la fine della storia, la cultura dei popoli emergenti annuncia il suo nuovo inizio. Nello stesso momento in cui i ricchi e potenti lanciano al mondo un messaggio di disperazione, i poveri e deboli gli contrappongono un messaggio di speranza. Nello stesso momento in cui i vincitori di ieri si accingono a celebrare la sepoltura delle loro vittime, queste insorgono e proclamano il loro diritto alla vita. Questo contrasto suggerisce un'ipotesi, che ci sembra feconda. Come la conquista dell'America è diventata il paradigma del mondo moderno, imponendo a tutti i livelli la legge del più forte, così la resistenza indigena, negra e popolare potrebbe essere il paradigma di un nuovo mondo, fondato sul protagonismo del popolo e dei popoli.
La prima idea di questo libro è sorta in Nicaragua, nel clima della Campagna 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare di Abya Yala: Campagna che mi si presentò non solo come un movimento ricco di potenzialità politiche e culturali, ma anche come un laboratorio vivace, fecondo di idee, analisi, progetti e strategie,
Tuttavia, la prospettiva andò rapidamente allargandosi agli innumerevoli movimenti, comunità, gruppi, che senza essere ufficialmente coinvolti nella campagna continentale, erano però mobilitati per gli stessi obiettivi.
Una nuova svolta in questa mobilitazione ed un ulteriore allargamento dell'orizzonte fu provocato dalla concessione del premio Nobel per la Pace 1992 a Rigoberta Menchú: in effetti, con i due vertici dei popoli indigeni da lei convocati si compie il passaggio da un movimento continentale ad uno mondiale: «Avvicinandosi l'inizio del secolo XXI, dichiarava Rigoberta aprendo il II vertice, dobbiamo alzare con energia la nostra voce per esigere il riconoscimento dei diritti fondamentali dei popoli indigeni ed originari di tutto il pianeta. Fratelli, la lotta dei nostri popoli si pone ormai a livello mondiale».
Improvvisamente, per tante strade, gli esclusi rompono il silenzio di 500 anni e cominciano a parlare con la loro propria voce. Ma chi di noi, cittadini del mondo ricco e prigionieri della sua cultura, è disposto ad ascoltarli? Chi di noi pensa veramente che gli esclusi della nostra civiltà sono depositari di un'antica saggezza e portatori di una parola nuova per l'umanità? Chi di noi, discepoli di Gesù Liberatore, crede sinceramente che i poveri ci evangelizzano?
Questo libro è un tentativo di prendere sul serio un'impostazione così paradossale e così fuori moda. Di valorizzare il risveglio della coscienza indigena, negra e popolare e l'emergere di nuovi soggetti che segna questa fase della storia latinoamericana e mondiale. Di ascoltare ciò che gli esclusi di ieri hanno cominciato a dirci: mettendo in luce la coerenza e l'ispirazione profonda di dichiarazioni e intuizioni apparentemente disperse e frammentarie; cercando con essi la risposta agl'interrogativi drammatici che solleva la crisi attuale di civiltà; partecipando al loro fianco al conflitto cruciale del nostro tempo fra la vita e la morte.
Avranno interesse a leggere questo
libro, mi pare, solo quanti credono che il punto di vista degli
esclusi, emergenti alla coscienza e alla dignità di soggetti
storici, può essere realmente una fiaccola che brilla nelle
tenebre.
Centro Antonio Valdivieso, Managua, Nicaragua 12 ottobre 1993
Anno Internazionale dei Popoli Indigeni
GIULIO GIRARDI
Ha un futuro la mobilitazione del
'92?
A chi tenta un bilancio della mobilitazione provocata dal V Centenario, s'impone una prima constatazione: l'urgenza dei problemi vitali, con cui si stanno scontrando le grandi maggioranze indoafrolatinoameticane, non ha prodotto, come si poteva temere, un atteggiamento di indifferenza di fronte alle commemorazioni, ma piuttosto uno straordinario interesse a tutti i livelli. Per quale ragione? Perché il processo di coscientizzazione, che si è sviluppato nel clima del '92, ha portato molti a comprendere che questo non era un dibattito accademico, ma un conflitto di grande importanza politica, profondamente legato ai problemi della vita quotidiana.
Così che i grandiosi progetti di celebrazione, sponsorizzati dall'Europa, dagli Stati Uniti, dai governi latinoamericani e dalla gerarchia cattolica, hanno agito come un boomerang, provocando a livello di massa una reazione di rigetto, che si è progressivamente trasformata in una mobilitazione politica antagonista. Non solo in America latina, ma anche in Europa, specialmente in Spagna e in Italia (i due paesi più direttamente coinvolti nell'avventura di Colombo) si sono moltiplicate le iniziative di controcelebrazione e solidarietà, spesso strettamente collegate con la mobilitazione indoafrolatinoamericana.
Ora, sul terreno delle controcelebrazioni, il bilancio di questi anni si può considerare fondamentalmente positivo per l'America Latina e anche, in larga misura, per la Spagna e l'Italia. In effetti, nel dibattito culturale intorno al V Centenario, il punto di vista dei popoli oppressi, particolarmente degl'indigeni, è stato fortemente presente; l'eurocentrismo delle impostazioni tradizionali è stato vigorosamente contestato; una nuova coscienza planetaria ha cominciato ad affermarsi. I movimenti e gruppi impegnati in queste battaglie non s'illudono certo di aver provocato un'inversione di tendenza culturale a livello di massa, ma possono pensare fondatamente di aver seminato dubbi e inquietudini dove regnavano tranquille ed arroganti certezze.
Il Terzo Incontro Continentale della Campagna 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare valuta in questi termini la campagna stessa: «Con differenze regionali e per paesi, siamo riusciti a diffondere l'idea che la storia ufficiale di questi 500 anni è stata scritta dal punto di vista degl'invasori e dominatori e che era fondamentale riscriverla nella prospettiva della resistenza indigena, negra e popolare».
«La polemica che abbiamo innescato
ha fatto riflettere larghi settori della nostra società
sul nostro passato, la nostra realtà attuale e il nostro
futuro». «È stato così messo in questione
il carattere festivo che i governi avevano preteso di dare al
V Centenario e si è compiuta una rivalutazione e riscoperta
della nostra memoria storica e del ruolo della resistenza indigena,
negra e popolare nella nostra realtà multietnica, multinazionale
e pluriculturale. Si sono verificati così dei cambiamenti
nel significato di termini, simboli, nomi, identificazione di
popoli, di terre e dello stesso continente» (Managua, p.
17). Dopo una stagione culturalmente così vivace, s'impone
la domanda: ritengono questi gruppi e movimenti di aver assolto
il loro compito reinterpretando il passato o si sentono corresponsabili
della costruzione di un nuovo futuro? Per quanto riguarda l'America
Latina, la risposta è categorica: la fornisce, realmente
e simbolicamente, il salto qualitativo compiuto dalla Campagna
Continentale 500 anni, quando, in occasione del suo Terzo Incontro
Continentale ha deciso di trasformarsi in «movimento continentale
indigeno, negro e popolare».
La svolta politica del V Centenario:
il movimento continentale indigeno, negro e popolare
La mobilitazione suscitata dal V Centenario a livello culturale, educativo, politico, ecclesiale e teologico, sarà probabilmente considerata, nei prossimi decenni, una svolta nella storia dell'America Latina. Essa infatti ha rivelatoe provocato l'emergere di un «punto di vista» unitario a livello continentale nell'interpretazione della storia: il punto di vista della resistenza indigena, negra e popolare, decisamente contrapposto al punto di vista dei conquistatori di ieri e di oggi, e pertanto degl'imperi del Nord. Il punto di vista degli oppressi, che emergono alla coscienza di soggetti storici, si è imposto come fondamento non solo di una reinterpretazione della storia, ma di tutta la cultura.
Per altro, come abbiamo rilevato, la mobilitazione non si è limitata a reinterpretare il passato, ma ha colto l'urgenza di contrapporre al progetto neocolonialista del Nord, concretato nel «nuovo ordine mondiale», un progetto popolare di resistenza e di alternativa. È sorto così il «movimento continentale indigeno negro e popolare», la cui novità fondamentale consiste appunto nella sua ispirazione unitaria e popolare.
Questo movimento rappresenta, per le sue enormi potenzialità, uno degli avvenimenti politici più significativi degli ultimi decenni. Potrebbe infatti annunciare la nascita di un nuovo soggetto storico, di un blocco sociale popolare e continentale, antagonista rispetto al blocco imperiale del Nord. Un acuto osservatore della storia dell'Ecuador ha detto: «La storia moderna dell'Ecuador si divide in due parti: prima e dopo la sollevazione indigena». Si può forse oggi formulare un'ipotesi più generale: che cioè gli storici debbano un giorno dividere la storia moderna di Abya Yala in due grandi epoche: prima e dopo il movimento indigeno, negro e popolare.
Esiste però il rischio che questo potenziale non sia percepito dai militanti, distratti dagli avvenimenti più clamorosi che hanno scosso il mondo negli ultimi anni, cioè la dissoluzione del campo socialista e particolarmente dell'Unione Sovietica. Ma appunto, tutti coloro che non si rassegnano a considerare irrevocabile l'ordine mondiale genocida instaurato dal neoliberalismo trionfante dovrebbero prendere molto sul serio ciò che negli stessi anni è successo a livello popolare in America Latina.
Perché il «crollo del comunismo», salutato frettolosamente, in un primo tempo, all'Est e all'Ovest, come un processo di liberazione, si rivela ogni giorno di più come parte di un processo mondiale di restaurazione, per il quale le maggioranze popolari del Nord e soprattutto del Sud stanno pagando un altissimo prezzo di sangue. Tuttavia, se il processo di restaurazione, favorendo lo strapotere del Nord, ha indebolito sensibilmente i movimenti di resistenza e di liberazione del Sud, non è però riuscito a soffocarli. Ed è particolarmente come segno di questa sorprendente capacità di resistenza e rinnovamento, che la mobilitazione suscitata dal V Centenario acquista un interesse storico e politico eccezionale. Di qui l'urgenza di una riflessione collettiva, che, valorizzando il fervore della lotta culturale, si preoccupi di approfondirne le implicazioni politiche, ponendo in evidenza le energie che ha liberato, le potenzialità che esse nascondono per il futuro, le speranze che fondano.
Le potenze del Nord, celebrando il V Centenario della scoperta-conquista, hanno inteso rilegittimare l'impresa che aveva costituito il paradigma della modernità e pertanto rilanciare il progetto imperiale che essa aveva realizzato. Viceversa, la resistenza indigena, negra e popolare, respingendo le celebrazioni dell'impresa, aveva contestato radicalmente l'organizzazione del mondo da essa instaurata e le aveva contrapposto un progetto di società e di ordine mondiale, fondato sul diritto di autodeterminazione di tutti i popoli.
Esistono quindi solide ragioni
per pensare che il V Centenario possa rappresentare una svolta,
a livello ideologico e politico, nella storia del conflitto Nord-Sud,
che il movimento lanciato nel '92 possa segnare il sorgere di
un blocco sociale antagonista al blocco dominante del Nord; che
possa annunziare la gestazione di un nuovo soggetto storico, popolare,
continentale e planetario.
La nostra scelta metodologica:
nel cuore della crisi ascoltare gli esclusi che emergono come
soggetti
Per verificare questa ipotesi, vogliamo analizzare il movimento, cercando di mettere in evidenza la sua novità e il suo potenziale politico-culturale, di rottura e di alternativa. In questa ricerca, le nostre fonti principali saranno i documenti prodotti dallo stesso movimento, specialmente negl'incontri continentali e mondiali, che ne esprimono più chiaramente il carattere unitario.
Si tratta qui di un'opzione metodologica che non è puramente scientifica, ma politico-culturale. Privilegiamo i documenti prodotti dal movimento indigeno, negro e popolare non solo perché sono l'espressione più autentica di questa insurrezione della coscienza, ma anche e soprattutto perché essi trasmettono, nel cuore della crisi di civiltà che attraversiamo, il punto di vista degli esclusi, emergenti come soggetti.
Le polemiche provocate dal V Centenario lo hanno mostrato con tutta evidenza: le interpretazioni della storia di ieri e di oggi dipendono decisivamente dalla scelta di campo dell'interprete e quindi dal «punto di vista» che egli assume, quello dei vincitori o dei vinti. La cultura dominante e la sua interpretazione della storia sono elaborate dal punto di vista dei vincitori o dei più forti; cioè dei paesi del Nord, Europa e Stati Uniti, cui si aggiungono i loro alleati subalterni del Sud.
Al punto di vista dei vincitori si oppone quello dei vinti, o più esattamente dei resistenti. Esistono infatti, nell'attualità come nel passato, due classi di vinti: quelli che si sottomettono al vincitore, riconoscendo la sua superiorità, assumono il suo punto di vista, interiorizzano la sua cultura e la sua identità; e quelli che si ribellano e resistono, in forma violenta o non violenta.
Ora, la ribellione è anzitutto intellettuale. Essa implica il rifiuto del punto di vista del più forte, della sua cultura, del suo sistema di valori, della sua interpretazione della storia. Questo rifiuto si fonda sulla difesa, da parte dei resistenti, della loro identità, del loro punto di vista sulla conquista e la storia, della loro cultura.
Noi intendiamo qui schierarci dalla
parte della resistenza. Ci riferiamo a quella di ieri, ai 500
anni di resistenza indigena, negra e popolare; ed a quella di
oggi, rappresentata degnamente dai movimenti che si sono impegnati
a prolungare e rafforzare lo spirito di quella battaglia.
Perché scegliere il punto
di vista della resistenza indigena, negra e popolare?
Si tratta di una scelta di campo non solo morale e politica, ma anche intellettuale e culturale. A questo livello, schierarsi dalla parte della resistenza, significa affermare che il suo punto di vista è il più atto per avvicinarsi alla verità sul senso della vita e della storia; che nell'attuale crisi di civiltà sono gli esclusi emergenti come soggetti i più atti ad analizzare oggettivamente la situazione del mondo, a individuare i problemi di vita e di morte, a percepire le strade verso alternative di vita.
I popoli indigeni stanno prendendo coscienza del valore universale delle loro prospettive fondamentali, sintetizzate nella loro «cosmovisione»: «Crediamo che questo senso dell'umano e dell'ambiente non è valido solo per le nostre comunità e per i popoli indoamericani. Crediamo che questa forma di vita è una opzione, un'alternativa, una luce per i popoli del mondo, oppressi da un sistema imperniato sul dominio tra gli uomini, tra i popoli e sul dominio della natura: un sistema nel quale prevale l'individualismo, in cui i diritti dei popoli sono dichiarazioni incoerenti con la pratica e dove in definitiva si nega il loro diritto ad esistere, ad avere una propria cultura, all'autonomia ed all'autodeterminazione» (Quito, pp. 259-260). «Al tramonto del secolo XX, nel quale, si dice, la "civiltà" tocca il suo apogeo, i progressi tecnologici hanno superato tutte le previsioni, quando i due modelli che si contrappongono nel mondo non sono riusciti a risolvere i problemi dell'umanità e meno ancora a comprendere e risolvere i problemi dei popoli indi; le cosiddette potenze, che si vantano del loro sviluppo, hanno approfondito la disuguaglianza, l'ambizione, la crisi, la distruzione ecologica ed hanno posto in serio pericolo l'equilibrio del pianeta, sorge vigorosa con la sua responsabilità storica la posizione alternativa del popolo indio, frutto della sua chiara visione cosmica e della sua consistenza armoniosa con la natura» (p. 261).
Ma queste valutazioni hanno qualche fondamento teorico? Per parte mia, credo fermamente di sì. Da un lato infatti, il punto di vista dei dominatori del mondo non ci conduce a scoprire la realtà, ma a coprirla. Perché essi non si preoccupano dell'altro, dell'indigeno o del negro, nella sua diversità, la sua storia, la sua identità, la sua cultura, ma della sua sottomissione ed utilizzazione al servizio dei padroni. Non lo percepiscono come soggetto della sua vita e della sua storia, ma come oggetto della vita e della storia dei popoli «civilizzati».
Per questo Colombo non scoperse realmente quelle popolazioni e non ebbe mai interesse a farlo: di esse lo interessavano l'oro, le terre, la forza lavoro. Fin dal primo momento, egli ebbe l'intenzione di scoprire per conquistare.
Ora, fra questi due termini vi è contraddizione: il conquistatore è incapace di scoprire. La volontà di dominare l'altro diventa un ostacolo insuperabile per la sua conoscenza; provoca necessariamente un occultamento della verità.
Questo vale non solo per i conquistatori politici e militari, ma anche per i conquistatori spirituali, come quei missionari, che fecero del vangelo uno strumento di colonizzazione. Questo vale non solo per i conquistatori di ieri, ma anche per quelli di oggi: i paesi «più avanzati», nonostante il loro enorme capitale di scienza e di tecnologia, si trovano nell'impossibilità strutturale di risolvere i problemi dell'umanità, di farla uscire dalla sua crisi mortale, di garantire la sua sopravvivenza.
Invece, assumere il punto di vista degli oppressi resistenti sulla storia e la civiltà attuale significa in primo luogo fare propria la loro causa, perché essa è moralmente e politicamente giusta. L'opzione per la resistenza è un'espressione particolare e particolarmente importante dell'opzione per gli esclusi come soggetti. Ora la nostra ipotesi è che un atteggiamento moralmente e politicamente retto favorisce una ricerca intellettuale onesta della verità. Perché la conoscenza non è un'attività puramente intellettuale, ma di tutta la persona, con le sue opzioni e la sua passione. E l'emarginato ha interesse a smascherare la violenza della quale è vittima ed a far trionfare la luce. La scelta di campo per il movimento indigeno, negro e popolare, nella sua proiezione continentale valorizza il carattere unitario, transnazionale e planetario che segna la prospettiva più avanzata degli esclusi.
Ora l'opzione intellettuale per gli esclusi come soggetti non è valida unicamente nel dibattito sulla conquista, ma in tutto l'orientamento culturale. Uno dei contributi più importanti della riflessione suscitata dal V Centenario è appunto la scelta di campo culturale che esso ci ha imposto. E schierarsi dalla parte della resistenza significa rimettere in questione gran parte della cultura che è stata imposta a noi come agli indigeni, elaborata dal punto di vista dei conquistatori. Significa creare le condizioni di una conversione personale e planetaria.
Tuttavia, l'affermazione secondo cui il punto di vista degli esclusi come soggetti avvicina maggiormente alla percezione della verità sembra smentita da determinati fatti. Per esempio, la scelta di campo per gl'indigeni ha condotto spesso a falsare la realtà, idealizzando la storia e costruendo il mito del «buon selvaggio». Possono anche sorgere forti dubbi sulla validità di questo punto di vista, quando si ascoltano gl'indigeni che esaltano la storia dei loro antenati e presentano la loro cosmovisione come alternativa democratica e non violenta alla cultura occidentale, segnata dall'autoritarismo, la violenza e il razzismo. Non è forse questa l'idealizzazione di una storia, che non è stata esente da contraddizioni, autoritarismo, violenza e volontà di potenza?
Certo, affermando che il punto di vista degli esclusi come soggetti è più giusto e fecondo culturalmente, non vogliamo dire che esso conferisce l'infallibilità. Assumere questo punto di vista non dispensa in nessun modo dall'esercitare un rigoroso controllo critico su ciascuna delle nostre affermazioni. Ciò che vogliamo dire è che questo punto di vista ci dispone a cercare onestamente la verità ed a percepirla lucidamente.
In questa ricerca, la reazione alle mistificazioni e persecuzioni sistematiche di cui furono vittime per secoli le culture e religioni degl'indigeni e negri, porta con sé l'affermazione di un legittimo sentimento di autostima. Ma si comprende che possa anche condurre ad una sovraesaltazione. S'impone quindi al riguardo una vigilanza critica e autocritica, ispirata dalla convinzione che la migliore alleata della libertà è la verità.
Può inoltre aiutare nell'interpretazione
del discorso indigeno e negro l'ipotesi seguente. Quando gl'indigeni
o i negri di oggi presentano la loro cosmovisione, essi non stanno
facendo una pura ricostruzione del passato, ma stanno proponendo
la loro cosmovisione attuale, ispirata, certo, a quella dei loro
antenati, ma anche rinnovata e purificata lungo questi secoli
di oppressione e di resistenza. Per gli indigeni e negri, come
per noi, la prassi liberatrice diventa un luogo antropologico,
a partire dal quale la cultura e la religione vengono costantemente
criticate e rinnovate.
Che cosa significa concretamente
scegliere il punto di vista della resistenza indigena, negra e
popolare?
La risposta è contenuta, in parte, in ciò che abbiamo detto. Ma vogliamo esplicitarla e tradurla in una proposta concreta. Schierarsi dalla parte della resistenza significa fare proprie le sue scelte etiche, politiche e culturali, entrando così a far parte della resistenza. Significa quindi impegnarsi con essa nella scoperta del passato, nella reinterpretazione della storia, nella riscoperta delle culture, religioni, identità represse. Significa soprattutto schierarsi al suo fianco nella resistenza attuale e nell'impegno per la costruzione di un nuovo futuro.
Ora, per riempire di contenuti concreti l'impegno in questa storica impresa, bisogna capire ciò che per i movimenti in essa coinvolti significa la «resistenza» e quali sono i diversi fronti di lotta in cui essa si esprime. Il termine riguarda, certo, i 500 anni passati, ma, ancora una volta, soprattutto il presente e il futuro.
Per quanto riguarda il passato, si tratta di smantellare la leggenda rosa di una civiltà ed evangelizzazione pacifiche, per sottrarre alla dimenticanza tutte le lotte, armate e disarmate, che fin dal primo momento dell'invasione, e poi lungo i 500 anni, furono condotte dai movimenti indigeni, negri e popolari.
La scoperta di questa faccia della storia permette da un lato una valutazione più oggettiva, dal punto di vista dei vinti, di questi cinque secoli di «civiltà» ed «evangelizzazione»; e diventa d'altro lato una fonte d'ispirazione per le lotte del presente e del futuro.
Ed è appunto in relazione con il presente ed il futuro che si definisce fondamentalmente la resistenza. Perché non si tratta di una definizione formale, ma di un processo di ricerca ricca e diversificata, che dinamizza in questi anni tutto il continente.
Si può formulare al riguardo l'ipotesi seguente: il movimento di resistenza indigena negra e popolare è un laboratorio di ricerca per l'alternativa sui vari terreni della vita sociale. Ciascuno infatti dei movimenti e dei paesi coinvolti nel processo ha prodotto in questi anni, nel contesto polemico del V Centenario, documenti ed appelli, in cui esprime preoccupazioni, analisi, denunce, progetti, proposte strategiche, ecc.; e lo ha fatto in generale cercando di superare la prospettiva locale e congiunturale, per proiettare i problemi particolari su un orizzonte unitario e globale. Il movimento indigeno poi, coordinandosi ed esprimendosi a livello mondiale, ha impresso al laboratorio dimensioni mondiali. L'interesse particolare di queste prospettive deriva dal fatto che esse non sono applicazioni di un'ideologia, ma raccolgono esperienze, analisi, aspirazioni, intuizioni dei diversi movimenti popolari.
In questa fase storica, segnata dalla
crisi di certezze e dall'urgenza della ricerca di strade nuove,
sarebbe particolarmente importante sfruttare le ricchezze di questo
laboratorio, raccogliendo e inventariando tutta la sua produzione,
studiandola comparativamente, sistemandola, valorizzando gli stimoli
che essa fornisce per la riflessione e la pratica nel campo educativo,
economico, politico, giuridico, filosofico, teologico, ecc. Tuttavia
è certo che saranno realmente motivati a farlo solo coloro
che hanno fiducia nell'intelligenza indigena, negra e popolare:
che riconoscono effettivamente e non solo retoricamente il popolo
oppresso come soggetto potenziale dell'altemativa 1.
Le nostre fonti: le parole degli
esclusi
In questo libro, gl'indigeni, i negri ed i settori popolari non sono oggetti, ma soggetti. Il redattore non intende proporvi il suo proprio pensiero, ma ascoltare le voci degli esclusi e tentarne una sistemazione. Questo approccio metodologico ha imposto il ricorso incessante alla parola diretta dei protagonisti. Le stesse ripetizioni, che non abbiamo voluto evitare, ci sono perse significative come testimonianza della continuità e coerenza del pensiero che presentiamo.
Ci fonderemo quindi sui principali documenti continentali della Campagna 500 anni, del movimento indigeno, negro e popolare e dei popoli indigeni; inoltre sugli atti dei due vertici mondiali dei popoli indigeni: