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FECERO APPASSIRE I NOSTRI FIORI

Ubaldo Gervasoni

edizioni Quale Vita
277 PAGINE L. 30.000


INDICE


PRESENTAZIONE


Il Nicaragua è stato lo scenario di una storia dura, fatta di sudore e sacrifici, sin dai nostri avi, dai nostri indigeni in lotta contro l'oppressione colonialista, dal nostro popolo in difesa della propria indipendenza, contro la prima invasione yanquee del secolo scorso.

Fu quello stesso spirito rinnovato nella difesa della dignità nazionale che, nel corso di questo secolo, diede alla luce eroi nazionali come Beniamino Zeledón, Augusto C. Sandino, Carlos Fonseca, nella lotta che si prolunga fino ai nostri giorni e nella quale il popolo nicaraguense continua ad essere protagonista nella ricerca dell'uguaglianza e della sovranità.

Con l'abbattimento della dittatura di Somoza alla fine degli anni '70 si consuma la lotta degli oppressi e si converte in realtà il sogno di tanti eroi della patria. là con la Revolución Popular Sandinista, espressione di quella rivoluzione primordiale, rivoluzione di rivoluzioni, che il nostro popolo si fa eco dei propri diritti e della propria libertà.

In Nicaragua, negli anni ottanta, iniziammo un cammino politico orientato al Socialismo, avevamo un programma economico, sociale e politico che avrebbe permesso ai nicaraguensi di raggiungere un miglior livello di vita ed uscire dal sottosviluppo in cui stavano, alla ricerca di una democrazia piena. In quel periodo demmo il via a piani di sviluppo sociale, economico e agricolo per il beneficio popolare, sia nelle campagne che nelle città, arrivando così in tutti quei luoghi del Paese che erano stati storicamente emarginati.

Fu lo stesso popolo che fece suoi questi programmi e si impegnò nella loro realizzazione, riducendo cosi l'analfabetismo, la mortalità infantile, attuando l'educazione per gli adulti, il sistema di sanità nazionale, ampliando il ventaglio dell'educazione mediosuperiore, aprendo nuove fonti di lavoro, sviluppando l'agroesportazione e proponendosi molti altri obiettivi. È importante sottolineare che in questa pratica rivoluzionaria incamminata verso una società giusta e libera i nicaraguensi presero coscienza della loro lotta di classe collocandosi in questo contesto storico come protagonisti nel raggiungimento di quest'obiettivo. Nonostante ciò la nazione intera si trovò di nuovo coinvolta ed aggredita dalla politica interventista degli Stati Uniti d'America.

Nel Congresso Nordamericano si approvavano i fondi per la guerra, il presidente Ronald Reagan assumeva la direzione di quella politica aggressiva, per la quale non solo si bloccò l'economia del Nicaragua e si organizzò un esercito mercenario, ma si arrivò perfino ad azioni di terrorismo come: porre mine ai porti, utilizzare il narcotraffico, lo scandalo Iran-Contras; il tutto in un sforzo disperato dell'amministrazione Reagan per negare al popolo nicaraguense il diritto di costruire il proprio futuro.

Nonostante i costi imposti dall'aggressione nordamericana, i nicaraguensi si identificarono e difesero con limpidezza questo progetto rivoluzionario e nella pratica quotidiana lo rafforzarono, si retroalimentarono dello stesso e al contempo furono accompagnati e animati dalla solidarietà internazionale che, camminando con il popolo mano nella mano, offriva loro il proprio appoggio incondizionato e fermo.

È in questo contesto che fra tanti fratelli solidali Ubaldo Gervasoni condivide con noi la propria vita in questo lungo cammino della Rivoluzione, in questo peregrinare del Cristo lavoratore. Ubaldo è stato testimone e compartecipe della lotta del popolo nicaraguense, ha interiorizzato e scalato la via della vera uguaglianza e della giustizia condividendo il suo Vangelo con i campesinos.

FECERO APPASSIRE I NOSTRI FIORI non è solo la testimonianza di Ubaldo Gervasoni, è ancor più un incontro con donne e uomini rinnovati, pieni di rivoluzione, una umanità sofferente, denudata, perseguitata, violata in tutti i suoi diritti.

FECERO APPASSIRE I NOSTRI FIORI, grida Ubaldo, ma eccoci qui, sul piede di lotta, senza esser stati vinti, poiché abbiamo segnato una nuova tappa, e senza dimenticare le nostre radici, la nostra storia, la nostra propria coscienza ed i nostri morti, i morti del popolo che hanno dato la propria vita per un Nicaragua libero, governato con giustizia e democrazia.

DANIEL ORTEGA SAAVEDRA


SOCIALISMO

Abbiamo faticato tanto, creduto di costruire Socialismo, una società giusta e umana, abbiamo abortito uomini e società, ci hanno fatto abortire feti a gestazione avanzata, non vogliono farci vivere la nostra vita.

È giusto ed amaro riconoscerlo. Purtuttavia, amerò il Socialismo, riabbraccerò e feconderò la Storia, insisteremo, a costo di abortire ancora, fino alla quarta e alla settima generazione, fino alla nascita dell'Uomo Nuovo, fino a quando non rinasceremo noi stessi Uomini Nuovi.

Managua, 26 agosto 1991

CRISTIANESIMO

"Cristo, Cristo Jesus, identificate con nosotros; Cristo, Cristo Jesus solidarízate no con la clase opresora que esprime y devora la comunidad, sino con el oprimido, con el pueblo mio sediento de Paz.

Te alabo por mil veces por que fuiste rebelde,

luchando noche y dia contra la injusticia de la humanidad,

luchando noche y dia contra la injusticia de la humanidad".

Misa Campesina de Nicaragua, 1977

"Cristo, Cristo Gesù diventa uno di noi, Cristo, Cristo Gesù solidarizza, non con coloro che opprimono, spremono e divorano la comunità, ma con l'oppresso, con il mio popolo assetato di Pace.

Ti esalto mille volte perché sei stato ribelle,

lottando giorno e notte contro le ingiustizie dell'umanità,

lottando giorno e notte contro le ingiustizie dell'umanità".


INTRODUZIONE

PER CAPIRE

Quando una persona si sente in crisi e sola, quando un movimento ha perso consistenza sociale, quando un partito è troppo minoritario, quando un prete è scomunicato, quando un innamorato è abbandonato, cerca ulteriori prospettive, una nuova vita, una nuova compagnia, un'alleanza, uno schieramento, una nuova vita, un nuovo amore.

Così succede anche a me in questi tempi difficili a livello personale e sociale: scavo nella mia personalità, nella mia storia e nella nostra comune umanità per capire il mio passato e confrontarmi con gli avvenimenti che sconvolgono il presente e alcune prospettive che avevo coltivato.

Ricercando l'origine della mia famiglia Gervasoni, ho scoperto che si tratta di un casato di origine ghibellina che portava nel suo stemma l'aquila antipapalina in lotta con i guelfi papalini. Nel 1300 circa, al tempo di Dante Alighieri, ben più famoso "ghibellin fuggiasco", i miei avi dovettero fuggire tra le montagne impervie di Bergamo per sopravvivere al dominio e alle scorribande dei guelfi. Si salvarono così, scappando e stabilendosi in periferia montana.

Nelle scelte politiche ed ecclesiali, maturate gradualmente in un ventennio abbondante, mi sono ritrovato alle origini ghibelline della mia famiglia: "extra moenia, omnia salus" (fuori dalle mura è tutta salute), ossia vivo in periferia lontano e contro... per sopravvivere.

Nella biblioteca civica di Bergamo ho inoltre scoperto che due miei antenati di Bàresi, mio paese natìo, emigranti in Francia, nell'anno 1794 ritornarono al paese montano ed osarono piantarvi il Palo della Libertà della Rivoluzione Francese, di essa stavano respirando l'aria e l'ansia libertaria e popolare. Furono subito denunciati all'autorità civile della Serenissima Repubblica di Venezia (sembra che sia stato il prete del posto a fare la soffiata al vescovo), furono arrestati, condotti a Venezia ed impiccati. «Intanto anch'essi - sottolinea lo storico Bortolo Belotti (cfr. La storia di Bergamo e dei Bergamaschi) - erano serviti a qualche cosa, e questo successe proprio nelle ultime terre dei monti della Val Brembana dove sarebbe parsa impossibile una diffusione del nuovo pensiero politico e sociale. Bisogna riconoscere che, nonostante alcuni precursori da principio isolati, la popolazione bergamasca, fondamentalmente conservatrice, era estranea al movimento di idee destinato a sovvertire il mondo e a cancellare le ultime tracce dell'ingiusto privilegio feudale. La nobiltà dominava e il popolo ubbidiva. Ond'è che quando nel 1789, il popolo francese scrisse le prime parole della sentenza di morte del suo antico regime, le scrisse anche per la Repubblica Oligarchica di S. Marco».

Nella Biblioteca Marciana di Venezia, infatti, nel volume: I Giustiziati della Repubblica, ho visto che già dal 1808 si parla di "governo popolare".

Certamente in paese si era conservata la memoria storica di questo atto rivoluzionario, così sorprendente e così tragico per un paesino di montagna, per cui quando nel 1945 la Resistenza trionfò sul nazifascismo, alcuni paesani, sostenitori delle formazioni partigiane della resistenza, issarono di nuovo il Palo della Libertà con la bandiera tricolore e più in alto quella rossa. Probabilmente, pur essendo in fasce, lo vidi anch'io quel Palo, perché ero nato da appena sei mesi e la mamma mi portava alla Messa; infatti dicono che fosse piantato proprio nello stesso antico luogo, sul sagrato della chiesa. Il parroco, molto anticomunista, rimase arrabbiato a lungo, finché un giorno un ragazzino fu sorpreso a segarlo. Intervennero pronti i giovanotti i quali, togliendogli di mano la sega, la usarono su un muricciolo, spuntandola. Ma, nonostante queste eccellenti testimonianze, il mio paese e l'Italia stessa della Repubblica crebbero sotto l'insegna del "Dio, Patria democristiana e Famiglia".

Quando nel maggio 1988 la Segreteria di Stato del Vaticano mi inviò un telegramma di rientro immediato dal Nicaragua, perché considerato "Persona non gradita" alla gerarchia cattolica in seguito alle mie denunce fatte sull'assassinio di contadini e dello stesso mio sequestro subìto dai Contras, passai giorni e mesi di angoscia perché sapevo bene che cosa significasse la trasgressione di quell'ordine. Mi stavo giocando le scelte fatte finora: vivere il Vangelo dando voce al grido dei poveri e, nello specifico attuale, sostenendo la liberazione del popolo nicaraguense, guidata dal FSLN. Non avevo mai colto una contraddizione tra il cristianesimo e la rivoluzione, così almeno come io lo desumevo dal Vangelo; Gesù, infatti, per aver annunciato un Regno di Verità al popolo e in faccia ai potenti politici e religiosi, fu considerato un sovversivo e come tale crocifisso.

Quell'ordine del Vaticano mi portò molti problemi ed interrogativi. Che fare? All'inizio, preoccupato del mio futuro, fui quasi sull'idea di tornare in Italia ed ubbidire ai superiori, per evitare uno scontro, cercando di salvarmi in "calcio d'angolo", come vari altri preti o religiosi solidali con la rivoluzione. Furono invece i campesinos di Waslala, paesino montano dove abitavo, che si mossero contro il verdetto e, un giorno, riuniti in chiesa per la celebrazione, mi animarono e mi dissero: «Sei uno di noi, resta tra di noi». Quel giorno mi passò l'angoscia perché questo loro sostegno mi fece ancor più sentire parte di quel popolo nicaraguense tanto coraggioso e libertario. Al popolo del Nicaragua devo l'aiuto per la scelta più costosa della mia vita, una scelta che ancora oggi, dopo cinque anni, considero scelta di libertà.

Nel 1985 a papa Woytjla venne riconsegnata ufficialmente la "Bibbia della Conquista" da una tribù indigena: questo gesto non dovrebbe fare alcuna meraviglia, se abbiamo il coraggio di rileggere la storia dell'America come storia di 500 anni di genocidio, espropriazioni economiche culturali e religiose delle antiche civiltà precolombiane. Chi non si faceva battezzare era passato per la spada, chi entrava nelle miniere di oro e di argento, o lavorava come schiavo nelle "encomiendas" non usciva vivo. Così si legge in un testo Maya:

«Gli intrusi ci insegnarono la paura,

vennero per fare appassire i nostri fiori

perché solo il loro fiore potesse vivere».

(Chilan Balam)

Oggi, nonostante le apparenze, spesso ma non sempre avviene la stessa cosa, non solo a livello politico, economico, ma anche nel campo cattolico.

I cristiani latinoamericani, impegnati anima e corpo per la liberazione del proprio popolo, sono come tanti petali di un fiore, strappati uno per uno da una Roma, fondamentalmente eurocentrica e neocolonizzatrice. L'America Latina raccoglie il 50% dei cattolici del mondo e ne costituisce il punto di riferimento fondamentale per il futuro.

«Mi hanno tolto la speranza», ha lamentato - gettando la spugna - Leonardo Boff, uno dei più insigni teologi della liberazione, da anni inquisito dal Vaticano, nonostante tutta la protezione che riceve dalla Conferenza Episcopale Brasiliana. Possiamo immaginare che succede a tutte le altre umili persone religiose e laiche che, senza privilegi e protezioni, lavorano indefessamente nel Movimiento Popular per un cambiamento delle condizioni generali di vita, Il "Plan para las Americas" di George Bush e la "Nueva Evangelización" di papa Woytjla hanno coinciso in una visione liberista e neorestauratrice a livello politico e religioso per il 2000 in America Latina. Va comunque sottolineato, almeno in campo di politica vaticana, che il papato non gode più del potere che aveva 500 anni fa; la sua centralità teocratica ed europea è stata corrosa, dalla Riforma di Lutero alla Rivoluzione Francese, dalla Rivoluzione Socialista al Capitalismo secolarizzante. Cosa ci riserverà invece la nuova politica democratica degli Stati Uniti?

A tutte queste persone molto umili, ai miei antenati ghibellini, ai due compaesani impiccati per la libertà, agli indios ed ai cristiani in liberazione, ai campesinos di Waslala di Nicaragua, che hanno contribuito alla mia libertà, dedico con immensa gratitudine queste pagine di memoria come gocce di un fiume che tortuosamente va verso il mare.


UN ITINERARIO COMUNE

Questi scritti personali di una fase molto significativa della mia vita, dal 1985 al 1992, rappresentano, seppur in modo molto frammentato, tre momenti:

- l'entusiasmo del cambiamento, con dedizione appassionata;

- lo scontro con i contras e la gerarchia cattolica, fonte di angoscia;

- la ricerca dell'essenziale, tra amarezza e resistenza.

Alla luce della mia vita personale e degli avvenimenti accaduti in questo passato ventennio, mi pare sempre meno praticabile quella visione lineare della storia che mi avevano insegnato a scuola come successione evolutiva di fatti e civiltà, che hanno come fulcro la cristianizzazione totale dell'umanità.

Nella mia esperienza la Storia è fatta di scontri permanenti, di dominii prevalenti, di rivoluzioni vinte o perse, è fatta dal risultato dialettico di forze contrapposte, di culture emergenti, è fatta a strati temporali, come la lava vulcanica che fuoriesce dalle viscere della terra, cammina inesorabilmente non senza bruciare ciò che incontra sul cammino, si sedimenta gradualmente, contribuendo alla formazione della crosta terrestre.

Questo ventennio, infatti, è stato contrassegnato da grandi contraddizioni, rivolte, cambiamenti culturali, politici e tecnologici, crolli di regimi. Lo stesso progetto politico socialista, uscito dalle due guerre mondiali, non è riuscito nel suo obiettivo fondamentale: dare "unicuique suum", ad ognuno il suo, il giusto, secondo quanto aveva promesso alle folle degli sfruttati. Avevo visto il Socialismo come superamento della Rivoluzione Francese, che aveva beneficiato solo la borghesia ma non le folle popolari che avevano lottato e creduto in essa; Socialismo come applicazione popolare dei princìpi di "liberté, egalité, fraternité", come applicazione popolare della uguaglianza e della giustizia, come attributo della libertà. La caduta del Socialismo Leninista come partito fattosi Stato ha portato con sé la crisi dei Socialismi in genere con onda propagatrice dello stesso mare in tempesta. Lo stesso socialismo italiano è amaramente naufragato in un "mare di tangenti", ossia di disonestà e corruzione. Anche quanti erano meno allineati, più idealisti ed utopici, rivoluzionari, come i movimenti popolari di America Latina si son trovati coinvolti nella tempesta. Gli stessi partiti rivoluzionari di Nicaragua, di El Salvador, di Cuba sono dentro la crisi della sinistra internazionale. Eppure il loro è un socialismo diverso, con forti risorse culturali autoctone ( Sandinismo e Martinismo lo insegnano).

Ogni sorta di liberazione popolare nell'ambito dei Paesi Poveri viene ancora classificata dal capitalismo internazionale e dalla Chiesa Romana come "comunista", e deve essere sacrificata sull'altare dell'economia, della politica e della religione.

I tempi che stiamo vivendo ci impongono di ripensare il socialismo, cammino storico occidentale recente, che ha poco più di cent'anni di vita. I tempi planetari che avvicinano qualsiasi popolo, qualsiasi cultura, ci impongono di accogliere nel nostro bagaglio culturale e politico anche tante altre esperienze "socialiste" e comunitarie in atto. Il socialismo si propone valori umani nobili, ha una concezione altruista delle relazioni sociali, persegue la giustizia nella ripartizione delle risorse e dei diritti umani sociali, lotta per rompere le catene sociali tra persone libere e schiave, ricerca quindi una fondamentale uguaglianza nella dignità umana e mezzi necessari per vivere, concepisce la relazione tra le persone e tra i popoli come rapporto di solidarietà e scambio, non di concorrenza di merci e dominio conseguente. Noi tutti dal basso lo abbiamo inteso così; per questo socialismo abbiamo speso il nostro tempo, molti anche la propria vita, questo è stato il sogno che ha alimentato i nostri giorni e molte notti insonni.

Se poi qualcuno considerasse che questo mondo è il migliore e che lo sfruttamento umano è in diminuzione, lo invito a leggere i rapporti annuali delle Nazioni Unite sulla fame nel mondo e sui bambini (Rapporto sullo sviluppo umano, ONU 1992). Chi persegue princìpi umanitari non può "buttare l'acqua sporca con il bambino", dando ragione a quanti oggi, in gran coro, considerano felicemente morto il socialismo.

Come Cristoforo Colombo attrasse i "nativi" con gli specchi e poi li rapinò dell'oro e li rese schiavi, così il capitalismo attrae il pesciolino con l'esca e poi se lo mangia; in questo modo le multinazionali s'impossessano delle comuni risorse della terra, compresa l'opinione pubblica: e tutto ciò viene definito "democrazia".

Non avendo privilegi da difendere, ma solo traguardi umanizzanti da raggiungere, ritengo che vadano ricercate nuove piste, studiati nuovi mezzi per il raggiungimento graduale degli obiettivi fondamentali di sapore universale per gli sfruttati della terra.

Così come profeticamente molti anni fa Ignazio Silone si definì: «Socialista senza partito e cristiano senza Chiesa», così noi ci ritroviamo adesso: con molte macerie su cui ricostruire un nuovo mondo.

IL DISCORSO SUL METODO

Si può affermare che è finito il Socialismo e che sono finite le Rivoluzioni?

Ieri, in America Latina, Ernesto Che Guevara, Camilo Torres avevano aperto la via e dato la vita per rivoluzionare i rapporti di potere dominante ed avevano innescato la miccia di una nuova coscienza popolare tra gli indios e i campesinos, Paulo Freire ne aveva fatto una "pedagogia degli oppressi" del continente, mons. Romero si era convertito alla "voce di chi non ha voce", versando il sangue sull'altare del sacrificio. Oggi, gli stessi leaders guerriglieri ed i movimenti popolari propongono di "rivoluzionare la rivoluzione", le idee, i metodi più adatti per il governo di un popolo, non più "poder popular" con "las armas al pueblo", ma con il confronto politico e la presa di coscienza sociale dei poveri, in una parola con la lotta. nonviolenta, ben sapendo dei miraggi del benessere e dei tempi lunghi incalzati dalla tragica fame attuale de "las mayorias populares". La tragedia di America Latina di questo fine secolo sta proprio nelle speranze popolari che si allontanano e nella miseria che s'avvicina sempre più grande.

Come costruire una società socialista dopo il fallimento del modello sovietico, padre di molti altri socialismi marxisti e leninisti? Possiamo ancora pensare prioritaria la conquista del governo rispetto alla trasformazione della società civile e valida la statalizzazione dei mezzi di produzione, il centralismo leninista, lo stato poliziotto, il partito unico? La critica alla società sovietica ci porta all'autocritica, come dovere di revisione delle nostre idee, chiare o confuse che siano, comunque nell'ambito di una esperienza storica assai importante, costata sangue.

È necessario rivisitare le nostre passioni esistenziali con il metodo dell'intelligenza. Non è tardi. Come fare nostro, intendere, il grido degli esclusi ed organizzarne il riscatto?

Per rispondere a una domanda così complessa su cui intellettuali, politici ed economisti di sinistra si sforzano di offrire delle ipotesi, io preferisco entrare nell'analisi retrospettiva di quello che siamo stati e abbiamo contribuito a fare nel bene e nel male in questi anni passati, non inutilmente spero, come compagni di una sinistra di movimento e come cristiani di base. Anzitutto siamo nati politicamente e cattolicamente sull'onda giovanile della "contestazione" della società perfetta, sia come modello politico sia come modello religioso. Eravamo i figli della trasgressione. Sia la società civile che quella religiosa avevano visto in noi l'immenso bisogno di cambiamento, di democrazia partecipata e diretta, di fraternità cristiana. Oggi, mi rendo conto che il nostro disagio iniziale, la nostra contestazione successiva erano giusti, avevano un fondamento; purtuttavia non eravamo sufficientemente attrezzati per un viaggio "in parete" così impegnativo. Tra le intenzioni e il cambiamento c'era la pratica del nostro agire politico e cristiano, c'era tutta intera l'opposizione del "sistema", i mezzi decisamente insufficienti della nostra pratica politica, il coordinamento difficile tra i vari bracci del movimento, la coerenza stessa tra il dire e il fare, c'era insomma tutto lo "scarto" tra il desiderio e la realtà che portò risultati ben differenti da quelli sperati e coltivati. Credo tuttavia che, nonostante tutti i limiti del movimento, abbiamo contribuito alla trasformazione, almeno parziale, della Società Civile (socialismo di base) e del Cristianesimo (fraternità umana), valori che oggi hanno acquisito una certa qual cittadinanza, anche se in un contesto ben differente o addirittura opposto da quello sperato. Il nostro disagio generazionale, di fatto, ci ha portati a solidarizzare con quanti subivano, coscienti o no, le conseguenze dell'esclusione. Riconquistando alla vita sociale e lavorativa i portatori di handicap sia fisici che psichici, amandoli come soggetti di diritto uguale a noi, abbiamo contribuito alla chiusura di istituzioni statali e religiose segreganti ed alienanti la dignità di persone umane, abbiamo trasformato in relazione di giustizia quello che era di rifiuto, di fraternità quello che era pietà cristiana. Oggi, molti possono lavorare dignitosamente, avere una casa-famiglia ed occupare un ruolo nella società. Come lavoratori precari o giovani disoccupati abbiamo cercato di trasformare l'emarginazione nostra in creazione di forme di lavoro come le cooperative di servizi sociali, di lavoro artigianale o agricolo, dando valore al lavoro come "part-time", facendo un corretto uso del danaro, utilizzando il tempo libero come tempo della creatività individuale o collettiva, spesso a scopo culturale o a beneficio sociale. Sono nate con noi molte Cooperative di solidarietà ed Associazioni di volontariato. Negli anni ottanta abbiamo lavorato intensamente per la pace, contro la guerra fredda ed i suoi strumenti di dissuasione: armamenti convenzionali e nucleari, comunque folli, perché fondati sul principio : "si vis pacem, para bellum" (se vuoi la pace, prepara la guerra); abbiamo cercato di aumentare l'anelito per una convivenza pacifica e di solidarietà internazionale.

La democrazia "partecipata" è stato uno dei nostri primi obiettivi: con la formazione di comitati di quartiere, la scolarizzazione popolare, la creazione di centri culturali, la gestione partecipata dei servizi sociali e sanitari, la solidarietà tra i popoli, il volontariato giovanile. Volevamo portare l'attenzione dell'opinione pubblica e dei governi verso una visione planetaria, che andasse oltre la pura pratica del libero mercato e degli scambi commerciali e che innescasse nuovi valori di cooperazione tra i popoli, considerato l'abisso incolmabile tra poche nazioni ricche del nord e il resto del mondo.

Come "figli del Concilio Ecumenico" abbiamo creduto nel rinnovamento della fede e della chiesa voluto sia da papa Giovanni sia da molti profeti del popolo di Dio; abbiamo semplicemente creduto nel Vangelo ed operato con i segni dei tempi per il superamento della controriforma del Concilio di Trento e degli steccati frapposti da secoli tra cattolicesimo e religioni cristiane, ebraismo, islamismo e altre religioni, cultura moderna laica, socialismo ateo, e soprattutto la moltitudine dei poveri del mondo. All'interno della stessa chiesa respiravamo la pari dignità cristiana che nasce dal battesimo pur nel differente esercizio dei ministeri, agivamo più in nome della nostra coscienza che come subalterni ad una gerarchia, la quale aveva molta reticenza a mettersi in discussione ed in dialogo paritario con la società pluralista. Abbiamo fatto nostri alcuni mezzi e strumenti teorico-pratici come la libera ricerca biblica, scelte politiche autonome, opzione con e per i poveri, crescita di laicità, distinzione tra religione e democrazia cristiana, tra religione centralizzata e fede personale, costituzione di comunità cristiane di base, preti operai in tuta e con la zappa, dialogo e condivisione con i lavoratori. Questa nostra collocazione "profetica" ci è costata molto, in accuse e sospetti, sia tra i cristiani sia tra i compagni.

LO SCARTO

Il disagio generazionale, sentito sia a livello personale che giovanile in genere, premeva l'acceleratore per cambiare, ma i diseguali rapporti di forza con il sistema, l'inaccessibilità al "palazzo" (P. P. Pasolini), a fondamentale conservazione del benessere raggiunto da varie categorie sociali, la difficoltà a rapportarci con la politica di partito, la disorganizzazione del movimento variegato, lo scollamento sindacale dagli operai, la nostra stessa visione totalizzante della vita, di matrice comunista ma anche cattolica, non ci hanno permesso di realizzare la desiderata modificazione della società. Abbiamo fatto errori di metodo e di prospettiva. Abbiamo, per esempio, confuso la trasformazione dello Stato con la trasformazione della società, la conquista del governo con il controllo della nazione, come se tra queste realtà ci fosse una equazione diretta o addirittura una eguaglianza. Oggi, alla luce degli avvenimenti internazionali, del fallimento del sistema comunista dell'Est Europeo, dell'intreccio tra i diversi centri di potere di una società, possiamo ben riconoscere che la società civile ha il primato sullo Stato e ne è il motore trainante e "propedeutico", in un contesto democratico.

Ma quale società civile e quale democrazia?

La contrapposizione tra lo Stato imprenditore e provvedente di sinistra e proprietà privata di destra o la semplificazione dei rapporti sociali in rapporti di "classe", in termini di "amiconemico", o "compagno-non compagno" sono state insufficienti all'analisi di una società complessa. Infatti il nostro stesso concetto marxista di "avanguardia" del popolo si è rivelato una esperienza presuntuosa, spesso negativa rispetto ai complessi processi reali di cambiamento sociale in atto nei popoli e nello stesso movimento operaio. Credo che anche in America Latina le avanguardie rivoluzionarie stiano pagando lo stesso errore di metodo, poiché i rispettivi popoli, loro sostenitori all'inizio del cammino libertario, sono oggi restii a seguirle sulla lunga distanza. Il capitalismo ha molte armi dissuasive a disposizione. Ne è recente dimostrazione la corruzione del denaro, che ha coinvolto in scandali infiniti imprenditori e governanti italiani.

Un giorno, all'inizio degli anni settanta, mi sentii molto depresso e decisi di recarmi dal mio medico della mutua per avere qualche tonico antidepressivo. Ricorderò sempre l'osservazione acuta dell'anziano medico, con gli occhialetti tondi, seduto dietro il tavolino dell'ambulatorio: "Reverendo, lei pretende di raddrizzare le gambe ai cani". A vent'anni di distanza gli do atto che non era disfattismo quello, ma esperienza di vita; lo stesso Vangelo afferma che "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri a far parte del regno dei giusti".

Anche il filosofo Kant, afferma: "da un legno così storto di cui à fatto l'uomo, nulla di completamente dritto può essere costruito".

Le "gambe storte" o il "legno storto" non si addicono solo allo Stato padrone, ma alle istituzioni varie, allo stesso cittadino "storto".

Allora, la passione per il cambiamento ci assorbiva anima e corpo, oggi non ci impedisce di fare una analisi serena dei nostri limiti, ripensare le nostre scelte e quindi anche relativizzarle, ma certamente ci impedisce di buttar via il contributo positivo che abbiamo dato a questa società, ancora in piena trasformazione.

Lo "scarto" tra il dire e il fare, tra le intenzioni e la politica, tra il potere e la marginalità, tra le riforme e il vissuto quotidiano, tra lo Stato e il cittadino, tra la Costituzione e l'applicazione, tra l'etica sociale e la prassi consuetudinaria, costituisce l'ambito della coscienza sociale e della sfida politica a favore della democrazia.

RICOMINCIARE

L'immagine del "legno storto si oppone all'idea della perfezione ma non a quella della perfettibilità" (N. Bobbio). L'imperativo che ci si presenta non è tanto "se ricominciare" (purtroppo molti compagni hanno abbandonato il remo), quanto "come ricominciare". Credo che la nostra esperienza del passato sia un punto base di cui far tesoro. Nel ricominciare ognuno non è solo, si ricomincia "da tre". Sto facendo dell'ironia mancina, dispari su una operazione ridotta ai minimi termini, utilmente beffarda per introdurci più nel campo sperimentale e meno nel visionario. Dopo tutto quanto è successo intorno a noi e dentro di noi stessi, restiamo in tre: noi, il Socialismo, il Cristianesimo. Un proverbio bergamasco invita il contadino a comprendere la condizione invernale: "sota la sènder, brasca" ("sotto la cenere, brace"). Una sana riconsiderazione delle nostre risorse, una sana ridimensione dell'onnipotenza dello Stato e della chiesa, ci porta dalla certezza al dubbio, dai dogmi statalisti alla ricerca nella società civile, dalla imitazione fotocopiata di Cristo alla inquietudine cristiana, dallo scontro impari e diretto alla resistenza e pazienza costruttiva in questa nostra società così come è, opulenta e violenta.

Ricominciamo con passione e per amore per essere in grado di navigare in mare aperto su una imbarcazione piccola ma propria e non sulla scialuppa di una grande nave, accettando il rischio di affondare. Sentiamo in noi l'impegno etico sociale di trasformare ancora questo nostro mondo cosiddetto civile che arricchisce i pochi e affama i più. A duemila anni dalla nascita di Cristo, che lasciò il messaggio: "Ho compassione di questa folla che non mangia, sono venuto perché abbia la vita e l'abbia in abbondanza", oggi, ci chiediamo semplicemente, come uomini dell'occidente e ancor più come cristiani: "In mano di quanti sta l'abbondanza?". Per rispondere basta guardare in faccia gli immigrati in Italia dall'Africa, dall'Asia, dall'America Latina, o leggere il Rapporto delle Nazioni Unite e restare rabbrividiti sul come i pochi più ricchi si mangiano l'80% delle risorse del mondo.

È per davvero fallito in croce il progetto di Cristo? Personalmente resisto a riconoscere deceduta la fede, l'esperienza cristiana e tutto il progetto del socialismo. Lascio aperta la porta a un cristianesimo "da venire", "inedito", come sosteneva Ernesto Balducci, un cristianesimo che non ha trionfato con Costantino a Ponte Milvio, con i Crociati a Lepanto, con Pizzarro al Machu Pichu, con Bush nel Golfo né con il cardinale Obando y Bravo a Managua.

TRA RIVOLUZIONE SANDINISTA E CONTRORIVOLUZIONE

Ho sempre esaltato il Sandinismo come potere popolare in Nicaragua e come segnale di speranza per tutta l'America Latina, ancora sotto gli effetti della colonizzazione spagnola e del nuovo dominio statunitense. La rivoluzione mi dava l'esperienza reale, oggettiva del cambiamento, ed anche un non so che di gratificazione personale, ebbrezza e consolazione popolare; sentivo in me un giusto sapore di rivincita. In Nicaragua ci sentivamo dei vincenti, mi ero messo sul carro dei vincenti, per gioia non per profitto. Sperimentavo tra i campesinos delle campagne e gli obreros delle città che si poteva realizzare il sogno: "i primi saranno gli ultimi" non solo nel regno dei cieli, ma anche in terra, in politica ed economia. Provavo il gusto gratificante di sentirmi qualcuno, un piccolo ingranaggio del motore della storia di liberazione insieme ai contadini di Waslala con cui lavoravo, ai pochi operai dell'industria fatiscente, ai molti soldati delle nostre zone di guerra, ai vari dirigenti popolari, ai comandanti del FSLN, agli stessi cristiani rivoluzionari che trasferivano in azione sociale e politica i princìpi cristiani delle beatitudini. Costoro servivano giorno e notte la causa del proprio popolo nella costruzione di una nuova società, sacrificando spesso la propria vita in montagna per la difesa del Paese dagli assalti criminali dei contras.

Vivevo in condizioni materiali alquanto dure e in luoghi geografici molto impervi: per i campesinos era il normale vivere quotidiano, per me una scelta. Eppure quella vita non mi è pesata affatto, proprio per la passione con la quale mi dedicavo al campesino, bisognoso di tutto ma particolarmente di essere organizzato.

Progetti di solidarietà, sostegno reciproco, lavoro agricolo, rischi, paure e conforto, fedeltà evangelica e fiducia rivoluzionaria hanno rappresentato in quella fase un "unum" che dava un ricco significato alla mia vita.

Mi sentivo sicuro di me, eppure, rileggendo gli appunti di allora, mi rendo conto di essere stato troppo severo con i contras che incontravo nelle montagne; avevo una iniziale preclusione ideologica. Certo, erano soprattutto un esercito di nicaraguensi al servizio della politica degli Stati Uniti, assassini spesso di civili, compresi 13 cooperanti stranieri, distruttori delle riforme sociali e della proprietà cooperativa o statale. Parlando con loro, almeno finché la discussione e il confronto verbale fu possibile (perché poi venne il mio sequestro ordinato dall'alto) mi rendevo conto delle complesse motivazioni personali e sociali che li avevano portati alla clandestinità: erano quasi tutti giovani contadini, isolati e sprovveduti sugli avvenimenti nazionali e internazionali, quasi tutti analfabeti. Pur compiendo sequestri e violenze vivevano di paure, non si fidavano tra loro stessi, renitenti al servizio di leva si trasformavano in soldati permanenti, da sequestrati nei campi si trasformavano in sequestratori a loro volta, povera gente da macello al servizio come sempre dagli interessi di ex somozisti o ricchi latifondisti. Spesso lamentavano di aver subìto nella loro famiglia violenze da parte dei sandinisti e spesso la loro lotta armata era una vendetta personale senza alcun contorno politico. I contras avevano molti legami con il territorio in cui si muovevano, rapporti familiari, amicizie, amori notturni fugaci; c'era una fondamentale solidarietà tra loro e i campesinos del territorio, a volte per comune interesse e bisogni naturali, a volte per scelta politica antisandinista. In molte comunità la gente vestiva, calzava scarpe made in USA, i bambini dormivano in amache ritagliate nella tela bianca del paracadute che aveva portato armi e munizioni. Già nel 1987 scrivevo sul settimanale Com Nuovi Tempi che i contras avevano molte basi sociali in Nicaragua: da qualche italiano, ancor più presuntuoso di me, ero attaccato come uno che seminava confusione politica, quasi sostenitore dei contras. L'accerchiamento della politica sandinista incalzata dalla guerra di bassa intensità orchestrata dalla CIA, conduceva alla graduale dissoluzione del consenso alla rivoluzione soprattutto tra i contadini, i più colpiti dagli effetti negativi della guerra. Molti dovevano, contro volontà, abbandonare le proprie case, i terreni coltivati e sfollare in altre zone, anche all'estero; quanti restavano dovevano far buon viso ai rispettivi eserciti che operavano e spesso venivano coinvolti in atroci vendette per una "tortilla" data a soldati affamati. Nelle nostre montagne di Waslala l'esercito sandinista era molto più mal visto che i contras. Gli stessi giovani contras, nonostante ostentassero uniformi nuove, pertinenze dell'esercito nordamericano, armi molto efficienti, compresi i missili Red Eye che nullificarono l'uso degli elicotteri sovietici, vivevano in condizioni logistiche ed alimentari molto fatiscenti, non ricevevano spesso nessun salario, solo i comandanti beneficiavano dei dollari americani in proporzione al grado, e molti combattenti non vedevano prospettive di vittoria militare per cui disertavano.

Nel 1990, alla fine della guerra, almeno 1.500 contras consegnarono le armi in Waslala e restarono in zona perché erano di provenienza locale. Convivendo con loro in paese per necessità di cose, ancor più mi resi conto che la verità era molto più complessa di quanto avevo pensato, tagliando la realtà a fette secondo la polarizzazione del conflitto. Questa mia visione unilaterale l'ho pagata con l'assalto a Waslala e alla parrocchia da parte dei contras e dei dirigenti popolari locali della UNO, culminato con il saccheggio degli edifici e la nostra immediata espulsione dal paese. Quel 1 ottobre 1990 fu per me una sconfitta, una "Caporetto", un giorno amaro e umiliante: a rapporti di forza cambiati pagavo io l'esclusione sociale da loro vissuta per anni.

CRISTIANESIMO E RIVOLUZIONE

Non intendo ancora cambiare le scelte di campo per cui mi sono recato in Nicaragua solidarizzando tutt'oggi con il Frente Sandinista di Liberazione Nazionale, riconosco solamente che è possibile e utile, a volte, cambiare le proprie opinioni sul nemico, alla luce degli avvenimenti personali e nazionali, cosa difficile durante il conflitto imposto dai nordamericani.

Partii per il Nicaragua nel 1985 per conoscere al positivo e da vicino la Rivoluzione e i Cristiani rivoluzionari: riconosco che questo era un vestito adatto alla mia aspirazione. Ero un prete operaio; in Italia da dieci anni lavoravo in cooperativa nei campi e mi mantenevo così, in povertà, insieme con alcuni compagni ed alcuni handicappati fisici e psichici. In Nicaragua scoprii che i rapporti ecclesiali tra i cristiani rivoluzionari e la gerarchia erano aspri, mancava il dialogo e spesso le scelte delle comunità cristiane e dei religiosi solidali erano represse. Fu così che mi trovai "sospeso a divinis" dal Vaticano per motivi politici ben immaginabili. Nella sua tesi di laurea in scienze politiche all'Università di Milano «I rapporti tra Stato nicaraguense, Chiesa e Vaticano», Marco Sironi analizza acutamente questi motivi, il mio specifico caso e più in generale il problema nazionale.

Lo scontro violento e diretto con i prelati cattolici è ciò che è contenuto nella seconda parte del diario. La durezza di quelle mie dichiarazioni sottace due atteggiamenti: mi sentivo nel giusto, dalla parte del Vangelo e mi sentivo ferito negli ideali cristiani che cercavo di condividere. Sicurezza ed angoscia sono forse le parole che meglio esprimono questa fase della mia vita. A quattro anni dall'epilogo dello scontro tra due forze impari, a risentimenti superati, sottolineo di non essere affatto pentito della mia condotta, sia nei confronti dei campesínos sia dell'autorità ecclesiastica. Mi sembra poi che sia stata una scelta coerente con il significato globale che volevo dare alla mia vita.

Siamo stati molti nella chiesa cattolica a lavorare per la sua trasformazione, "rinnovamento" voluto da papa Giovanni; abbiamo dato gli anni migliori della nostra esistenza appassionata ad una chiesa che volevamo più profezia che istituzione, più povera che ricca, più sposata alle classi subalterne che a quelle dominanti, più in ricerca che da ricetta, più ecumenica che romana. Forse, al momento attuale e con questo pontificato di Woytjla, il nostro contributo non è servito molto, anzi dopo le prime novità conciliari è riapparsa l'inquisizione contro coloro che pensano, contro i teologi, le comunità di base, contro quanti sono "comprometidos" (impegnati) nelle lotte di liberazione nel mondo oppresso e con particolare insistenza contro il Movimiento Popular dell'America Latina.

Quando diventiamo adulti cerchiamo di capire, interpretare, guardare in faccia la realtà circostante; sbirciamo nello specchio della coscienza, così cerchiamo di diventare saggi, creatori, diamo un significato nostro alle cose e alle persone. Con questo nasce la nostra identità, con la scoperta dell'altro e del diverso nasce la pluralità, quindi spesso la trasgressione dell'ordine costituito, liberando un nuovo orizzonte. Questo rapporto dialettico con il vecchio ordine provoca a volte intolleranza, a volte inquisizione e violazione. Già nei miti dell'antica Grecia la diversità appare come elemento di rottura dell'equilibrio, fonte di contraddizione (Dioniso è il dio della contraddizione e provocazioni. "Anticamente lo specchio è stato tramandato anche dai teologi come simbolo della adeguatezza alla perfezione dell'universo. Perciò dicono che pure Efeso fece uno specchio per Dioniso e che il dio, guardandovi dentro e contemplando la propria immagine si gettò a creare tutta la pluralità." (Proclo, Commento al Timeo di Platone, 33b).

La sfida alla perfezione dell'universo diventa motivo di violazione: i difensori dell'ordine costituito (i Titani) violano chi ricerca una differente perfezione ed equilibrio del mondo (Dioniso viene sbranato), ma trovano anche chi (Atena) solidarizza con gli oppressi facendo propria la memoria di loro (Atena salva il cuore che pensa). "Tutte le parti di Dioniso furono frantumate, dice Orfeo, dagli altri dèi separatosi (i Titani), mentre il solo cuore rimase indiviso per la previdenza di Atena: difatti solo il cuore che pensa lasciarono e in sette lacerarono tutte le membra del fanciullo, dice il teologo riguardo ai Titani" (Proclo 35a), "dalla fuliggine dei vapori che si levarono da esse, sedimentata in materia, nacquero gli uomini... difatti noi siamo parte di Dioniso. Dioniso è causa di liberazione, è anche liberatore, e gli uomini spingeranno in processione ecatombe perfette... bramando la liberazione dai progenitori scellerati" (Olimpiodoro, Commento al Fedone di Platone 61c e 82a).

Chi è Dioniso oggi? Chi sono i Titani oggi? Chi è Atena?

TORNANO I FANTASMI DEL PASSATO?

Dall'ecatombe di 53.000 nicaraguensi per difendere la libertà del Nicaragua venne la caduta democratica del Frente Sandinista con le elezioni del 25 febbraio 1990. Fu uno shock tremendo, generale e personale: vidi molte lacrime sul volto di molti compagni. Si realizzò così il piano nordamericano di distruggere la Rivoluzione Popolare Sandinista, una delle poche "diversità" politiche nei paesi impoveriti dal capitalismo.

Per me, nel giro di pochi mesi, alle sanzioni ecclesiastiche si era aggiunta la caduta del fiore più bello dell'America Latina. "Nicaragua, Nicaraguita, la flor màs linda de mi querer". (Nicaragua, piccola Nicaragua, il fiore più bello del mio amore). Incominciava ad appassire uno dei miei amori più preziosi, anche perché più costoso. Stava anche appassendo la dignità di un popolo così meraviglioso, vestito di povertà? Credo di no; ricordo benissimo la stessa sofferenza e dignità di rivoluzionario sconfitto con cui il presidente Daniel Ortega, tremendamente sconvolto e impreparato a tale verdetto popolare, con gli occhi insonni di un'alba triste, rassegnò le dimissioni in favore di un altro fiore, quello un po' laccato per la verità, di Violeta Chamorro.

Nel mio diario appaiono dei vuoti incredibili, proprio per la acuta crisi personale e sociale. Nicaragua, stupita di se stessa si fermò, e nel silenzio assoluto delle città, si trovò a voltar pagina: dalla guerra verso la pace, la cosa bella per la quale aveva votato, ma anche da un sistema progressista-sandinista a uno conservatore borghese.

Il mio collaboratore brasiliano Helio, al pari di molti altri cooperanti internazionalisti, abbandonò il Paese, sfiduciato. Io stesso non riuscivo a digerire il rospo; mi recai il 24 marzo a El Salvador, per celebrare il 102 anniversario dell'assassinio di mons. Romero, vescovo e martire, profeta del suo popolo oppresso; ma all'aeroporto mi diedero un permesso di sole 24 ore, solo per il fatto di provenire dal Nicaragua. Sapevo che in questo paese martoriato dalla guerra e dalla oligarchia sempre sostenuta con le armi degli Stati Uniti, la situazione era durissima e di repressione continua, da poco uno squadrone della morte aveva assassinato nella notte 5 gesuiti e le 2 donne di servizio.

In quei giorni non ero ancora in grado di fare delle analisi spassionate del "caso Nicaragua", perciò non scrivevo nessuna lettera agli amici della solidarietà italiana, peraltro assetati di notizie. A maggio mi recai in Brasile, per un Corso di Form ed Analisi Congiunturale dell'America Latina per dirigenti popolari, presso la sede del CESEP (centro di ricerca dei Teologi della Liberazione) in Sào Paulo. Lì, grazie a un mese di studi insieme con gli altri amici provenienti da tutto il continente, mi resi conto della recessione popolare generalizzata imposta dal mercato internazionale. Anche in Brasile il movimento popolare aveva perso la corsa alla presidenza della repubblica con il proprio candidato Ignazio Lula del Partido dos Trabagladores.

Credo proprio che sia finita l'epoca guerrigliera, stiamo in un nuovo contesto politico internazionale; anche se il Frente Sandinista tornerà al potere, dato che rappresenta ancora il 40% dell'elettorato, non sarà più quello che è stato così come presumo sarà per il Frente Farabundo Martí para la Liberación de El Salvador, dopo aver firmato nel gennaio 1991 l'atto di pace. Lo stesso Comandante Joaquin Villalobos disse al primo congresso del FSLN che i partiti rivoluzionari devono avere "il coraggio di rivoluzionare le proprie idee".

POESIA COME RESISTENZA

La terza ed ultima fase del mio diario è appunto un'espressione di questo vuoto di prospettiva politica. È possibile ancora qualche speranza di cambiamento? Intuisco che ci si dovrà attrezzare per una prospettiva di lunga resistenza. Sul piano personale, nella ricerca di ridefinirmi appaiono con più insistenza i silenzi, anche su Dio, le contemplazioni malinconiche, le contraddizioni sociali, l'amore, alcune persone significative ed alcuni valori spirituali e sociali essenziali. Tutto ciò rappresenta il mio diritto a sognare, ma anche la mia consistenza di uomo che ha sempre un cuore per amare: se stesso, le persone, la vita, i sogni stessi.

Amore è una virtù dell'anima, forse la più tortuosa, la più difficile, la più cristiana, un imperativo categorico per essere degni di esistere, ma anche un accaduto travolgente, entusiasmante, umano ed eterno, che dà senso sostantivo alla nostra esistenza, il regalo della vita che si rinnova ogni giorno. L'amarezza di certe pagine e la ricerca della mia forma di esistere in questo mondo, e l'amore tanto difficoltoso dipinto in varie occasioni, è la ricerca dell'essenziale, la riscoperta del movente profondo della mia umanità che, guardata nello specchio, privilegia di sé l'uomo che ama (Poetica) all'uomo che pensa (Logica), per vivere in questi tempi difficili imposti dal modello occidentale, dove è più facile amare piante ed animali che i propri simili, uomini per la maggior parte immiseriti, alcuni culturalmente dai soldi, la maggior parte economicamente dalla fame. I soldi vincono la guerra ma non la tenerezza fra i popoli, come ho sperimentato tra i Nicaraguensi.

Se logico si considera un sillogismo classico, fatto di Tesi Antitesi e Sintesi, mi considero parte dell'Antitesi, dell'opposizione non solo intellettuale ma soprattutto sociale. Mi sento parte di questa società civile, sì, ma in antitesi a chi vuole dimostrare per forza che questa è la società migliore.

L'essere nato e cresciuto cristiano mi lascia indelebile il segno culturale dell'appartenenza, nonostante tutto, così com'è per un ebreo o un islamico. È un'appartenenza sofferta la mia, di angoscia, ma non di negazione: un sole eclissato è pur sempre un sole esistente, e ci sono anche altri soli, altre galassie, altre civiltà che possono illuminare. Il cristianesimo che appare è solo una parte, l'altra resta spesso velata o si svela quando muoiono i crocifissi, allora si squarcia il velo ipocrita del Tempio, per intravedere la realtà così come è, senza infrapposti incensi odorosi.

INTERROGATIVI

L'altro ieri mi avevano insegnato a pensare e vivere il cristianesimo con senso di trionfalismo e predilezione. Ieri pensavo e vivevo con senso di possibile trionfalismo un cristianesimo alternativo fatto da folle di poveri. Oggi porto in me con più umiltà e dolore alcune delle sofferenze del fallimento. Cosa ci aspettiamo dal futuro: un baratro, un avvenire, una rivelazione, una sorpresa, una lotteria, nulla?

Continuo a vivere l'avventura della vita per capire e cambiare me stesso, vivo in questa società per contribuire al suo cambiamento, sapendo coscientemente di essere una goccia di quella lava inquieta, in movimento, che stratifica la crosta terrestre, cioè la storia umana in divenire.

Questo mio atteggiamento vissuto e pensato costituisce un mio limite o è un elemento dinamico? È l'espressione dell'erroneo disagio di un disadattato o è ricerca di nuove forme di vita?

Esiste una continuità nella mia vita che cambia?

Il crollo di alcuni socialismi, specialmente di stampo occidentale ci impone di scartare il Socialismo?

Il fallimento del Cristianesimo occidentale elimina la possibilità di credere e sperare da cristiani?

Vivere con passione significa perdere la ragione?

Fuori dall'Occidente tecnologico, nel mondo non sono possibili alternative più umanizzanti?

Ecco, la poetica mi risulta essere l'espressione più confacente a questi miei quesiti di uomo che vive con passione l'avventura della vita. Con queste riflessioni cerco di ripensare me stesso alla luce del mio passato, dell'esperienza del cristianesimo e del socialismo, in un contesto politico-economico mondiale governato da un sistema che accumula e accomuna lo sviluppo con una enorme disumanizzazione su tutta la terra, mentre si impone per assurdo come "il migliore".

Finché c'è vita c'è speranza nelle alterne vicende umane.

Ubaldo Gervasoni