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Giorno nero per Silvia Baraldini

Lucio Manisco

Dove sono e quali gli "spiragli di speranza" dopo il pronunciamento della Parole board? L'amara verità è che la giustizia Usa non ha cambiato idea

I L CLIMA era quello del processo alle streghe di Salem, la procedura giudiziaria quella fatta oggetto di feroce satira da Gilbert e Sullivan nell'operetta musicale Trial by Jury e sul verdetto, spietato quanto scontato, solo il ministro di grazia e giustizia Giovanni Maria Flick è riuscito a intravedere uno spiraglio di speranza. Non lo hanno certo intravisto il presidente della Consulta Giovanni Conso, il magistrato Giuseppe Di Gennaro, osservatori per il governo italiano, e tanto meno Silvia Baraldini e il suo avvocato difensore Elizabeth Fink.

Se si è trattato di un semplice equivoco, che peraltro ha ispirato i commenti ottimistici di qualche nostro quotidiano, esso sembra sia nato dall'erronea lettura di una decisione collaterale presa dall'"examiner" Raymond Essex, il magistrato afro-americano che ha presieduto i lavori della "Parole board", della commissione per la revisione delle pene nel penitenziario di Danbury, a cui aveva fatto appello la Baraldini dopo quattordici anni di carcere per ottenere la "libertà su parola" e l'automatica espulsione dagli Stati uniti.

Raymond Essex aveva rivelato che agli effetti degli statuti penali statunitensi la ricorrente era stata collocata nella "categoria B", quella che esclude il rilascio in libertà prima di avere scontato l'intera pena e che concerne i colpevoli di reati gravissimi come le stragi, gli omicidi plurimi e gli assassini più efferati. Dato che né le imputazioni né il dispositivo della sentenza menzionavano reati del genere il magistrato ha corretto l'errore trasferendo la Baraldini nella categoria inferiore, quella numero 7, ma con un "deliberato esecutivo" che ha anticipato il rigetto del ricorso dell'interessata, ha escluso nel caso specifico i benefici e le attenuanti previsti dalla nuova qualifica, l'accesso cioè alla "libertà su parola". Come se non bastasse, ha ammonito la controparte a "non farsi false speranze" su quella che era una pura e semplice rettifica di categorie. Giudizi e valutazioni queste che peseranno sull'esito di eventuali nuovi ricorsi della nostra connazionale alla "Parole board".

Questi bizantinismi hanno turbato non poco Conso e Di Gennaro, e il loro turbamento è diventato sgomento di giuristi quando hanno ascoltato il pubblico ministero del Distretto sud di New York, Elliot Jacobson, elaborare e argomentare le tesi che imponevano il massimo rigore nei confronti della nostra connazionale e il prosieguo della sua detenzione almeno fino all'anno 2008. Jacobson, già pubblico ministero contro due coimputate della Baraldini, Marilyn Buck e Matulu Shakjur, nel processo del 1983 ha sostenuto che, anche se era vero che Silvia non aveva partecipato a una sanguinosa rapina contro un furgone blindato Brinks, nel corso della quale erano rimasti uccisi due poliziotti e una guardia giurata, e che pertanto questo gravissimo reato non figurava negli atti della sua incriminazione, la sua corresponsabilità in quelle uccisioni era fin troppo evidente. Perché mai? Perché la "ricorrente" - ha spiegato il pubblico ministero - era stata riconosciuta colpevole di aver preso parte ai preparativi di un'altra rapina che poi non ebbe luogo e pertanto aveva una "foreseble knowledge", una presumibile conoscenza dell'altro ben più grave crimine. Sembra che la replica in inglese di Giuseppe Di Gennaro sia stata molto ferma e articolata, soprattutto quando ha delineato i limiti dei reati associativi e della appartenenza ad associazioni a delinquere lì dove mancano prove o indizi di una partecipazione personale a fatti di sangue come quelli menzionati da Jacobson.

Le argomentazioni di Di Gennaro e di Conso non hanno scalfito la certezza dell'"examiner" sulla continua pericolosità della Baraldini che, qualora venisse rimessa in libertà, riallaccerebbe rapporti con quattro latitanti e altri non meglio identificati gruppi eversivi, decisi più che mai a rovesciare governo e istituzioni. La sua relazione e il suo parere avverso alla libertà su parola verranno inoltrati alla "National Parole board" di Washington che tra tre o quattro settimane ne confermerà la validità senza entrare nel merito.

Poi ci saranno il ricorso dell'avvocata Elizabeth Fink e un suo appello-denuncia per "habeas corpus" a un tribunale federale del Connecticut, lo stato dove la Baraldini è detenuta. Negative le previsioni sull'esito di queste iniziative legali così come sembra sia stato negativo il risultato di un incontro avuto da Conso e da Di Gennaro con Mary Jo White, giudice federale del Distretto sud di New York.

E allora c'è da chiedersi cosa abbia motivato quello "spiraglio di speranza" intravisto dal ministro Flick nei più recenti sviluppi della vicenda Baraldini. Presumibilmente i due magistrati italiani gli hanno riferito i fatti e i loro giudizi inequivocabili sull'intransigenza e sulle aberrazioni giuridiche di cui hanno preso atto nella saletta del penitenziario di Danbyrty. E' vero, la speranza è l'ultima a morire, ma quando viene sbandierata ai quattro venti contro l'evidenza dei fatti, le sue ragioni diventano sospette e comunque alternative a piani di azione concreta: "Si deve continuare a lavorare - ha aggiunto Flick - con lo stesso impegno con cui abbiamo lavorato finora tutti". E' proprio su questo impegno che ci permettiamo di avanzare qualche riserva. Non possiamo fare il processo alle intenzioni, ma possiamo e dobbiamo citare alcuni precedenti. L'ultimo rigetto della richiesta italiana di trasferire Silvia Baraldini in un carcere italiano come previsto dalla Convenzione di Strasburgo risale al 22 febbraio dello scorso anno: è stato tenuto in un cassetto per un mese circa prima che ne desse notizia il Dipartimento di giustizia Usa.

Giovanni Maria Flick sottolineò l'opportunità di attendere l'esito delle elezioni presidenziali del novembre scorso prima di presentare una nuova richiesta a Washington. Trascorsa questa scadenza e incalzato da alcune interpellanze parlamentari disse che era necessario far passare una anno come desiderato dagli Stati uniti. Poteva quindi inoltrare la richiesta il 23 febbraio, ha invece fatto trascorrere altri tre mesi, anche se ha detto che avrebbe preferito attendere l'esito del ricorso alla "Parole board". Sempre in attesa di questo evento, ha rifiutato di far ricorso all'art. 23 della Convenzione di Strasburgo che prevede un'eventuale mediazione amichevole della Commissione per gli affari penali del Consiglio d'Europa. Poi ha preferito non firmare una comunicazione ufficiale del governo alla "Parole board Commission", lasciando questo compito al suo direttore Generale Giorgio Lattanzi.

Ha inoltre sempre rifiutato di ricevere l'avvocato della Baraldini durante le sue frequenti visite a Roma, e non ha predisposto alcun preparativo necessario a un eventuale anche se improbabile buon esito dell'udienza di Danbyry: per esempio, non ha mai contattato il ministro alla giustizia degli Stati uniti, la signora Janet Renno, e a eccezione di una breve missione a Washington ai primi di aprile di Di Gennaro, non ha mai telefonato o incontrato il "Chairman", signor Simpson, il magistrato Duffy che si oppone al rilascio di Silvia, o gli altri personaggi che hanno assunto posizioni di analoga intransigenza.

Non si tratta di interferenze, ma di atti permessi e dovuti, in altre circostanze e in altri paesi, compiuti da ministri come quello spagnolo o da capi di governo come l'indiana signora Ghandi. Del caso Baraldini hanno parlato invece a Madrid con il segretario di Stato Albright, Prodi e Dini: secondo quanto riferito dalla Farnesina si sarebbero fatti latori dell'interesse del parlamento e dell'opinione pubblica italiana alla soluzione del caso.


Articolo tratto da il manifesto del 17 Luglio 1997