Periferia. La periferia
è uno spazio geografico definito solo in senso negativo. Periferia
è tutto ciò che è fuori dal centro. Periferia è
il non-centro che però sta nelle immediate vicinanze del centro,
e che chi ha la sorte di stare nel centro vuole e deve rimuovere, allontanare,
in quanto essa è lì ad urlare appena possibile che non
tutto
sta nel centro stesso. Che c’è dell’altro, dell’altro che si agita,
moltitudini che premono molecolarmente e disordinatamente sulle mura della
fortezza, rese ormai fragili dall’esplosione prossima delle contraddizioni
che esse sono chiamate a contenere e reprimere.
Sia essa la città-fortezza, il pensiero-fortezza, il capitalismo-fortezza.
E per quanto dentro la fortezza tutti, coi loro saperi, i loro poteri, la loro violenza si impegnino quotidianamente a rimuovere le banlieues della postmodernità, a ricacciarne indietro le disperate offensive, a cancellarne il ricordo una volta che queste si sono infrante contro le mura, bene, nonostante tutto questo, qualcosa riesce a sfuggire ai guardiani della stabilità sociale, qualcosa si insinua all’interno, nascostamente, dal basso. E una volta dentro, questo qualcosa, queste voci dissonanti costituiscono un polo della contraddizione, dunque costituiscono la contraddizione.
Le metropoli occidentali del postfordismo, della cultura di massa, delle tecnologie avanzate, della produzione immateriale, del capitalismo globalizzato, delle 80 imprese ogni 1000 abitanti, delle autostrade elettroniche, dell’impresa virtuale, dei flussi finanziari in tempo reale, sono anche le periferie del lavoro precario, dei sans-papier, dei laboratori dove si lavora 12 ore al giorno convinti di essere imprenditori, della distruzione sistematica delle risorse dell’intelligenza collettiva, della dissoluzione del tempo di vita in una giornata lavorativa sociale indefinitamente prolungata, dell’identità territoriale, razzista e xenofoba come unica prospettiva di senso in grado di riempire i vuoti lasciati dal crollo del desiderio, dell’utopia, della socialità.
Metropoli che debordano di tracce di contraddizione, tracce che ci chiedono di essere ripercorse a ritroso, per penetrare le vite di chi quotidianamente, lasciandole sul terreno piatto del pensiero unico, della competizione, dell’indifferenza, della produttività, ci dichiara timidamente che è lì, presente, e che vive su di sè la frustrazione delle proprie aspettative, del proprio progetto di vita, del proprio desiderio, della propria intelligenza creativa. E queste tracce, spesso labili, ma comunque esistenti e non meno vere, meritano di essere approfondite, proseguite, ricomposte per ridare consistenza a un progetto e a una pratica di sovversione che è prima di tutto operazione di verità, di comunicazione e pratica della verità.
Al cospetto dei cantastorie del castello fortificato, soprattutto di quelli che cantano la fine della storia, non possiamo più solo tentare di dire la verità. Dobbiamo cominciare a fare la verità.
Contro la globalizzazione, il neoliberismo, contro il lavoro: non un mondo, ma molti mondi, non una storia, ma tante storie, non una soggettività, ma infinite.
Non banlieue, ma banlieues.
Abbiamo deciso di chiamarci banlieues perché siamo periferia, siamo non-luoghi; l’unico luogo riconosciuto è il centro: della periferia, geografica, economica o intellettuale che sia, si estorcono le risorse, si sussumono le creatività, si reprimono gli impeti di liberazione, ma non si opera mai un riconoscimento che rimetterebbe in discussione il potere stesso di riconoscere.
Non-luoghi del comando, non-luoghi della pacificazione con l’esistente, non-luoghi del pensiero unico, non-luoghi della sussunzione dell’intelligenza collettiva.
Come la banlieue siamo infrequentabili ai più, pericolosi, relegati ai margini pur avendo tanto da dire e da fare.
Come la banlieue, odio, incompatibilità ansia distruttiva, desiderio creativo, angoscia del non essere compresi, incertezza tra un esodo per cercare dell’altro, altrove, poi, e l’ennesimo tentativo di irruzione per riappropriarci di questo, qui, adesso.
Sono le macerie di cui la nostra banlieue è piena, residui di tentativi falliti di assalto al cielo delle possibilità, della liberazione, dell’intelligenza collettiva liberata dal lavoro, le macerie di immigrati in strada o in chiesa per essere cittadini, di albanesi gettati in uno stadio o in mare, sono queste macerie della nostra conflittualità, del nostro desiderio comunista mai morto che ci intimano di fermarci un attimo, di riflettere, di rimettere in discussione certezze e incertezze.
E’ dal dovere di parlarsi e parlare, di pensare e immaginare nuovi violenti assalti alla fortezza del potere costituito che nasce questa rivista.