FRANCIA
CRONOLOGIA
POVERTA'
MISERIA
GORZ

1) FRANCIA 1998. ARCIPELAGO CHOMEURS

Fine Novembre 1997. Un gruppo di disoccupati aderenti al sindacato francese CGT chiede al governo un regalo per Natale. Un regalo di tremila franchi (poco più di novecentomila lire). Meglio un regalo, forse, e non un premio, come pure si è detto, dal momento che quei tremila franchi non potevano certo gratificare nessun aumento di produttività, nessuno straordinario, nessuna fedeltà agli obiettivi di un'impresa ristrutturata. Chi ha un lavoro può chiedere un premio. Chi un lavoro non l'ha deve accontentarsi di un regalo. Ma è qui che in realtà occorre fare chiarezza. Chiedere un premio ha significato per i disoccupati francesi di Marsiglia rivendicare e non mendicare. Dietro la mendicanza c'è la speranza nell'altrui pietà; dietro la rivendicazione c'è la sicurezza del proprio aver ragione. I disoccupati che per primi hanno avviato la mobilitazione francese occupando la sede dell'Assedic (organismo che in Francia gestisce l'erogazione dei sussidi di disoccupazione) avevano ragione. E lo sapevano. A partire da quel primo atto di lotta, un susseguirsi di episodi analoghi, che ha portato le lotte verso altre città francesi, sino ad investire direttamente la capitale. Lungo il percorso nuove ragioni si sono affiancate a quella originaria, dando alla mobilitazione un respiro sempre più ampio, decisamente più ampio di una richiesta di denaro una tantum. Al premio di Natale si è associata la richiesta di un aumento stabile e consistente (1500 franchi) dei minimi sociali e dei sussidi. Per tutti e subito. E non basta, perché a questo si aggiunge poi la rivendicazione dell'accesso al Reddito Minimo d'Inserimento per tutti coloro che non avendo ancora compiuto i venticinque anni non ne hanno attualmente diritto. Il movimento cresce, si moltiplicano le manifestazioni, le occupazioni, le dimostrazioni di piazza; l'estensione geografica della protesta arriva a coprire, nell'arco di pochi giorni, praticamente tutto il paese. Ovunque iniziative di lotta, occupazioni di altre sedi dell'Assedic, di altri luoghi simbolici. Ma, elemento sicuramente ancora più rilevante, agli originari disoccupati si aggiungono soggettività diverse ed ulteriori. Agli esclusi per definizione, i disoccupati appunto, esclusi dal lavoro e dunque da questa società, corpo e anima di un'emarginazione sociale universalmente condivisa, svincolata da specifiche determinazioni di tempo e di spazio, si associano gli esclusi per deduzione, quelli emarginati a metà, emarginati potenziali; o forse emarginati tra qualche anno. Il movimento coinvolge ora anche i sottoccupati, i lavoratori intermittenti, quelli precari e stagionali, infine quelli stabilmente (si fa per dire) occupati. E a questo punto sale sul palcoscenico della protesta come coprotagonista chi nelle lotte dei disoccupati ha finora rimediato solo un ruolo di comparsa: il sindacato. Anzi, i sindacati. Confederali e autonomi, compreso quello dei quadri. Un variegato assortimento di forze sociali le quali, per ora forse solo in Francia, prendendo finalmente atto dell'erosione del proprio ruolo storico di rappresentanti della classe operaia garantita, scendono in piazza al fianco di chi, secondo la gretta politica istituzionale, forza sociale non è, nè tantomeno controparte contrattuale, ma solo fardello, peso morto e un po' parassitario, cattiva coscienza da allontanare. E non è consentito pensare che il coinvolgimento del soggetto sindacale abbia potuto in qualche modo pregiudicare la radicalità delle rivendicazioni, o prima ancora dei metodi di lotta. In altre parole, non si può dire, in questo caso, che il sindacato stia cavalcando il movimento per ricondurlo alla compatibilità coi canali istituzionali e contrattuali di mediazione del conflitto sociale. Lo dimostra da un lato l'innalzamento del livello dello scontro, prodottosi a seguito dello sgombero da parte della polizia delle sedi già occupate dell'Assedic, che ha portato all'occupazione della Borsa di Commercio di Parigi e, pochi giorni dopo, dell'Ecòle Normàle Superiéur (uno dei più prestigiosi istituti universitari francesi); dall'altro il fatto che, ben lontani dal rivedere la piattaforma rivendicativa iniziale dopo l'ingresso del sindacato, gli autorganizzati francesi hanno rilanciato la lotta, estendendola ai temi del diritto alla casa, dell'immigrazione (è ormai costante la presenza dei Sans Papiers), del diritto alla formazione. Questo movimento sta esprimendo allora, e forse prima di tutto, una capacità di superamento delle tendenze corporativistiche: di quelle tendenze distruttive che il potere costituito alimenta continuamente, consolidando la propria riproduzione al crocevia degli scontri generazionali tra pensionandi e giovani disoccupati, tra stabili e precari, tra "cittadini" e immigrati, tra centri e periferie.

2) MOVIMENTI FRANCESI '80-'90. PRIME RICOMPOSIZIONI

Non è possibile tentare una lettura del movimento degli chomeurs francesi di questi giorni che vada al di là dei resoconti giornalistici, per individuarne gli aspetti politicamente innovativi, se non lo si inserisce a pieno titolo nel contesto del più ampio ciclo di lotte che ha investito la Francia a partire dai primi anni '80. Parliamo di ciclo di lotte, e non di singoli ed isolati episodi di protesta, perché emergono aspetti comuni e costanti in questi movimenti; caratteri dell'azione politica, degli obiettivi praticati, delle soggettività coinvolte, che denunciano il prodursi di una profonda trasformazione delle coordinate classiche dei movimenti. L'inverno del 1983 è attraversato dal movimento Beur: in centomila manifestano a Parigi contro il razzismo di stato. I soggetti che animano le mobilitazioni sono fondamentalmente immigrati di seconda generazione, che abitano le periferie, le banlieues di Parigi, in condizioni di profonda miseria: in breve tempo agli immigrati di seconda generazione si affiancano gli operai di seconda generazione. Dalla rivendicazione del diritto al soggiorno, a condizioni di vita dignitose per la popolazione immigrata, risulta sorprendentemente facile a questo movimento compiere il salto verso una unanime richiesta di egalité (uguaglianza). I frutti del sostegno operaio agli immigrati saranno raccolti appena due mesi dopo, quando i beurs lotteranno solidali al fianco degli operai della Citroen minacciati di licenziamento. Tre anni dopo, siamo nel 1986, esplode la rivolta studentesca contro il disegno di legge Devaquet, di riforma del sistema universitario. Contemporaneamente il ministro Pasqua propone l'inasprimento delle misure repressive contro l'immigrazione clandestina, favorendo inopinatamente la ricomposizione di un fronte unico studenti-immigrati, che attraverso lotte anche violente otterrà il ritiro dell'una e dell'altra proposta di legge. Contro l'ennesimo tentativo di reintrodurre misure di contenimento dell'immigrazione clandestina si mobiliteranno, anni dopo, i Sans Papier. Anche loro incontrando, nella lotta, soggetti diversi, cittadini francesi in possesso forse di regolari documenti d'identità, ma come loro deprivati di una effettiva cittadinanza. Nel Marzo 1994 sono nuovamente gli studenti ad animare le rivolte. Lottano contro il CIP (contratto d'inserimento professionale), misura proposta dal governo Balladur, che prevede una retribuzione diminuita del 25% per coloro che svolgano per la prima volta un'attività lavorativa. Fra gli studenti, questa volta nei cortei ci sono i casseurs, i soggetti socialmente emarginati che popolano la desolazione delle banlieues francesi. Saranno protagonisti di una violenza diffusa che gli studenti accetteranno, e che porterà al ritiro della proposta del CIP. Il bilancio della manifestazione nazionale del 31 Marzo (a proposta di legge già ritirata), sarà di 200 auto bruciate o distrutte e altrettanti negozi saccheggiati. Nel Dicembre 1995, è la proposta di riforma della sicurezza sociale avanzata da Juppè a far scattare la protesta. Si prevedono riduzioni dei sussidi, tagli alle spese sociali, l'aumento dei contributi per le pensioni, grandi privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici, un ridimensionamento complessivo delle garanzie sociali. Protagonisti della lotta saranno i lavoratori dei servizi pubblici, dai trasporti alle telecomunicazioni, alle poste, etc. In questa occasione, a solidarizzare con loro ci saranno gli utenti stessi, i quali non si lasceranno convincere dal "crumiraggio medianico" operato sistematicamente da televisioni e giornali, e sapranno andare al di là dei disagi quotidiani sofferti a causa delle mobilitazioni in atto. Non un gesto di insofferenza, non una protesta nei confronti di una lotta che ha paralizzato il paese, ma che i cittadini francesi sentono in grande maggioranza (il 63% secondo sondaggi attendibili) giusta e motivata. L'operazione politica di corporativizzazione dell'utenza dei sevizi non passa. Ci si sente cittadini prima che utenti.

3) NUOVE SOGGETTIVITA' PER ALTRI MOVIMENTI

I movimenti francesi che hanno attraversato gli anni '80 e '90 costituiscono secondo noi le prime espressioni della conflittualità che proviene da una rinnovata composizione di classe. Questi movimenti si offrono al tempo stesso come superamento e come anticipazione. Superamento, per i soggetti che li animano, per gli strumenti politici che utilizzano, per le istanze sociali che avanzano, delle lotte operaie sviluppatesi in ambiente fordista; anticipazione, dagli stessi punti di vista, delle lotte che verranno, delle ricomposizioni sociali e politiche che si intravedono all'orizzonte del postfordismo. Nella frammentazione, nell'atomizzazione sociale, nella gerarchizzazione delle soggettività lavorative, nella violenta discriminazione tra soggetti del lavoro e soggetti del non-lavoro che il capitale alimenta, questi movimenti hanno trovato risorse inesauribili di solidarietà, di reciproco sostegno, di unità nelle lotte. Se il potere costituito fissa in una dimensione statica le differenze sociali, le distinzioni lavorative, le discriminazioni nella possibilità di accesso alle garanzie, riproducendo così la coazione alla difesa della propria posizione, alla resistenza corporativa per non perdere il poco che ancora si ha, i coordinamenti di lotta hanno evidenziato l'utopia concreta di una lettura opposta, dinamica del contesto sociale. Una lettura che è già atto politico, in quanto è capacità di cogliere le trasformazioni in atto nella loro tragica prospettiva totalizzante, per la quale, ad esempio, le politiche che danneggiano i disoccupati non possono che precarizzare ulteriormente le garanzie degli occupati, per la quale il deterioramento delle condizioni di lavoro dei dipendenti pubblici non può che peggiorare i servizi e limitarne ulteriormente la fruizione. E questo vuol dire anche cogliere le tendenze in atto in una dimensione temporale, in forza della quale la condizione attuale di chi è escluso anticipa quella futura di chi oggi si crede incluso. Sono, questi, i movimenti della precarietà, dell'insicurezza sociale dispiegata, ma anche dei corpi e dei saperi messi al lavoro e sfruttati, che in quanto tali rifiutano una pratica di conservazione e di resistenza (la quale taglia fuori chi non ha niente da conservare), a favore di un immaginario di conquista, di riappropriazione, di estensione, di prosperità contro la scarsità. Sono movimenti che si costituiscono in senso autonomo, dal basso, dotandosi della forma organizzativa minima e indispensabile, quella del coordinamento, adottando un metodo assembleare che è rifiuto programmatico della delega, presa d'atto della povertà della rappresentanza. Non si chiudono pregiudizialmente al sindacato e al partito: dimostrando piena consapevolezza del lento morire dei soggetti storici di organizzazione della classe operaia, ne utilizzano strumentalmente i canali, le strutture, le risorse, ma sempre mantenendo totale estraneità ad essi rispetto alle rivendicazioni e agli strumenti di lotta. Sono, se si vuole, lotte sul salario, ma che si sviluppano in un contesto e su basi del tutto nuove, perché si distendono sulla transizione continua dal salario al reddito, dall'occupazione al non-lavoro, dall'assistenzialismo alla cittadinanza piena. Alla base delle lotte degli studenti c'è la rivendicazione di una funzione sociale, di una centralità economica che politicamente si fa ansia di partecipazione e rifiuto della volgarità del dominio; lo stesso vale per il movimento delle infermiere dell'88. Il salario, in questo modo, si rappresenta quasi come volgarizzazione, ad uso dei politici, di un tentativo di comunicare qualcosa di molto più profondo: il bisogno di farsi sentire e di sentirsi socialmente presenti, centrali. Emergono figure sociali che camminano sul confine stretto tra l'inclusione e l'esclusione: precari, flessibili, soggetti delle nuove forme del lavoro. Ed è l'angosciosità di un limite sempre valicabile verso l'esclusione, di una porta aperta sul nulla, sulla negazione del diritto ad esistere, sulla periferia a stimolare un moto di insubordinazione di massa. Si chiede reddito, si chiedono garanzie, si chiede una cittadinanza diversa, una cittadinanza compiutamente sociale. Si rifiuta un diritto all'esistenza subordinato ad un lavoro che non c'è, che significa in realtà un dovere di esistere per valorizzare il capitale, un tenersi pronti ad accettare il peggio. E' rimesso radicalmente in discussione il rapporto lavoro-reddito. Il capitale svincola il primo dal secondo. Si inizia a pensare la possibilità di svincolare definitivamente il secondo dal primo; di slegare il reddito dal lavoro per agganciarlo su basi paritarie al diritto ad un'esistenza dignitosa, al benessere, al consumo anche. E' sul rifiuto di un potere che scheda, segmenta, misura, discrimina, sfrutta, esclude, che i Sans Papier incontrano gli studenti, è sullo stesso terreno che i beurs incrociano gli operai licenziati, che i lavoratori pubblici trovano solidali i cittadini francesi. Sia chiaro, non si può dire che le istanze condotte da questi movimenti, compreso quello dei disoccupati di questi giorni, siano istanze di sovversione sociale, di rivoluzione, di presa del potere. Ma sono le istanze di una "rivoluzione ragionevole", destinata forse a diventare violenta nel momento in cui gli stati nazionali avranno esaurito ogni potere di mediazione del conflitto, di riassorbimento dell'incompatibilità attraverso una misurata gestione delle risorse che favorisce la rottura dei fronti di contestazione. E' sul contesto europeo che si proiettano le ultime mobilitazioni, tra le quali le marce europee contro la disoccupazione sono esempi importanti, primi tentativi di un superamento politico e sociale di confini ormai solo geografici. L'incompatibilità di quello che si richiede con i parametri di Maastricht è radicale. Perché è radicale l'incompatibilità tra diritto al reddito garantito, alle garanzie, alla cittadinanza piena, e il neoliberismo. Sul terreno dell'Europa sociale, del reddito di cittadinanza, della riduzione radicale dell'orario di lavoro, della libera mobilità delle persone prima che dei capitali, si stanno lentamente e faticosamente riordinando i tasselli di un mosaico di soggettività e movimenti che daranno voce e corpo ad un progetto alternativo di società E' in atto uno stravolgimento del rapporto tra centro e periferia. Le periferie non sono più separate, distanti, invisibili perché occultate da chi ha interesse a far credere che non esistano. La condizione della periferia investe ormai la vita di ognuno. La desolazione dello spazio escluso si fa strada come monito negli interstizi delle vite di chi è provvisoriamente nel centro. Non si può più fingere di non vedere, di non sentire, di non esserci: l'impoverimento dei corpi fa coppia con l'immiserimento dell'esistenza. E' potenza costituente, cioè progettuale, sociale, cooperativa quella che sta agitandosi nel sottosuolo di questa società vecchia, opprimente, discriminatoria. Contro la precarizzazione dell'esistenza, la distruzione del desiderio, la negazione del diritto di immaginare un futuro possibile di garanzie, di socialità, di vita, le lotte francesi costituiscono esempio tangibile della possibilità di opporre un rifiuto. E' la dignità che insorge contro chi la calpesta E i grandi viali alberati del centro di ogni capitale europea potrebbero non essere sufficienti a contenere le moltitudini di uomini e donne che vorranno riversarsi nel centro dopo essersi incontrati agli incroci delle strade strette di ogni periferia d'Europa. Moltitudini in fuga dallo sfruttamento, dall'umiliazione, dalla povertà e dalla miseria verso la riappropriazione della ricchezza sociale, del sapere sociale, della libertà, dell'esistenza.

Collettivo Redazionale Banlieues


LE LOTTE. LE DATE

11Dicembre'97: All'appello del comitato dei disoccupati della CGT alcuni senzalavoro occupano diverse sedi dell'Assedic a Marsiglia e nel Bouches-du-Ròne per chiedere il versamento di un premio di Natale di 3000 franchi;

15-22Dicembre'97: Tre associazioni (AC!, APEISS, MNCP) sostenute da diversi sindacati del Gruppo dei Dieci, CFDT in lotta e il settore finanze della CGT, organizzano una settimana di azioni sul tema "Urgenza sociale";

17Dicembre'97: Le associazioni di disoccupati occupano la Pyramide del Louvre a Parigi;

18Dicembre'97: Martine Aubry annuncia una rivalutazione del 3% della Allocation de solidarietè specifique (ASS) per i disoccupati, che non era più stata aumentata dal Luglio'94; la ministra riceve il Comitato dei Disoccupati della CGT;

20Dicembre'97: I rappresentanti di differenti associazioni si riuniscono a Parigi per lanciare l'Appel du Louvre, che chiede al governo una "conferenza contro la disoccupazione, la precarietà e l'esclusione";

2Gennaio'98: Occupato il centro comunale d'azione sociale di Nanterre;

3Gennaio'98: La ministra del lavoro francese annuncia nuovi stanziamenti per aumentare l'indennità di disoccupazione (cinquecento milioni di franchi). Secondo i disoccupati questi fondi erano già dovuti nel bilancio del '97. Il ministro dei trasporti concede buoni gratuiti sui mezzi pubblici della regione di Parigi per i disoccupati (1400 franchi l'anno). Convocata per il 14 Gennaio una manifestazione nazionale a Parigi;

4-5-6Gennaio'98: Agli sgomberi di alcune sedi occupate e alle imputazioni per "occupazione illegale" delle sedi dell'Assedic di Nantes contro alcuni leaders di AC! e della CGT locali, si risponde con nuove occupazioni e comizi in tutta la Francia;

7Gennaio'98: Manifestazioni in 60 città della Francia (5000 dimostranti sia a Parigi che a Marsiglia). Oltre alle associazioni di disoccupati vi prendono parte lavoratori in lotta (ferrovieri, dipendenti delle poste e telecomunicazioni, operai metalmeccanici). Il consiglio d'amministrazione dell'Unedic proclama che sbloccherà dodici milioni di franchi per i sussidi (quattro franchi per disoccupato: 1200 lire!);

10Gennaio'98: Dopo il riconoscimento e la legittimità data al movimento degli chomeurs e la concessione di un miliardo di franchi, gli agenti della CRS, con mandato del governo, sgomberano le sedi occupate. Indette per il 13 Gennaio manifestazioni di protesta: i disoccupati continuano a chiedere il "premio di Natale" di 3000 franchi e l'aumento dei contributi;

12Gennaio'98: La ministra del lavoro Aubry accetta di discutere con le associazioni dei disoccupati la "Legge contro l'esclusione" che il governo presenterà a Marzo: prevede aiuti per la casa, una serie di misure per il lavoro, il reinserimento degli esclusi nei circuiti lavorativi; i disoccupati chiedono l'estensione del Reddito minimo d'inserimento anche ai giovani sotto i 25 anni, e l'aumento dei "minimi sociali", cioè dei vari sussidi;

13Gennaio'98: Giornata di azione nazionale, promossa dalla CGT e dalle varie associazioni con cortei;

14Gennaio'98: Centomila invadono Parigi. In testa al corteo: i Sans Papiers;

20 Gennaio'98: "I fondi per gli aumenti richiesti dai disoccupati non ci sono. E soprattutto è inammissibile la richiesta di un aumento che avvicinerebbe i minimi sociali ai minimi sindacali: deve permanere una differenza tra chi è disoccupato e chi si alza tutte le mattine per andare a lavorare"; a queste affermazioni provocatorie di Jospin, gli chomeurs promettono di rispondere con la lotta.

La lutte continue...


POVERTÀ

La povertà è una bestia strana che spalanca la bocca e ti morde il culo, e non contenta sorride beffarda dietro una vetrina lucida traboccante di merci. E' desiderio frustrato, quando va bene, mentre quando va male è bisogno insoddisfatto. E' ciò che ti costringe a lavorare dodici ore al giorno nel sottoscala di uno stabilimento tessile del sud, per cinquemila lire a ora, è quello che ti ha fatto accettare un lavoro simile ed è ciò che ti rende "felice" di non perderlo. E' quella cosa che convince un popolo ad ammucchiarsi su vecchie bagnarole semigalleggianti pagando cifre stratosferiche per attraversare un pezzo di mare oltre il quale c'è un sogno. E' quella cosa che può far pagare quel sogno con la vita. E' vivere nelle tendopoli ai confini delle ricche capitali della modernità, possibilmente in silenzio, con la gratitudine di essere tollerati e la coscienza di costituire un problema. E' dover tacere davanti a un padroncino lercio e volgare che ti impone uno straordinario massacrante con l'arroganza di un tiranno cui tutto è dovuto. E' povertà quella che ti costringe ad accettare la precarietà come condizione esistenziale, la flessibilità come filosofia di vita, l'etica del lavoro come "vestito buono" dello sfruttamento. E' l'inspiegabile paradosso che obbliga una donna con quattro figli ad occuparsi del figlio di qualcun'altro, che impone a uno scrittore di romanzi di catalogare libri altrui, che porta un chitarrista blues a fare piano-bar per una festa di giovani Rotaryani. Povertà sono i letti di cartone sotto i portici, le bidonvilles brasiliane, i ritmi di lavoro a Singapore, ma sono povertà anche il 30% degli abitanti degli Stadi Uniti d'America che non possono pagare un sistema sanitario privato, gli ottocento milioni di disoccupati e sottoccupati uniformemente distribuiti anche nei paesi più industrializzati, sono i sedicimila impiegati espulsi negli ultimi tre anni dalla Siemens, colosso tedesco dell'elettronica, sono i trentamila lavoratori del settore delle telecomunicazioni buttati fuori dopo il reenginering della NTT giapponese, i cinquantamila dipendenti estromessi dal ciclo produttivo della ABB, megaproduttore svizzero-svedese di generatori elettronici e sistemi di trasporto; e sono altri milioni di operai, impiegati, quadri intermedi espulsi da altre imprese del nord del mondo grazie alle ristrutturazioni tecnologiche degli ultimi anni, idonee a fare aumentare produttività e fatturati in percentuali stratosferiche. Povertà è quella che si affaccia troppo spesso su questa cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia e contribuisce a farcela odiare. Povertà, ma enorme ricchezza anche, sono i Sans Papiers e gli chomeurs francesi che oltre la cinghia hanno scelto di stringere i denti e i pugni, che oggi invadono la Francia intera da Marsiglia a Parigi, dalla costa all'entroterra, dalle banlieues ai centres e la fanno tremare. Povertà e ricchezza, povertà e potenza, povertà e postmodernità... Povertà perché in Francia con un reddito minimo di tremila franchi si vive poveri, ma anche ricchezza, potenza e soprattutto prefigurazione di qualcosa di nuovo. Perché è ricco un movimento che sceglie di attraversare e farsi attraversare da soggettività diverse per storia, posizione sociale, bisogni, rivendicazioni...benché accomunate dal medesimo disconoscimento di cittadinanza e spaventate dallo stesso spettro dell'esclusione; sia essa una realtà, un pericolo, o anche solo una possibilità sempre più concreta. Perché è potente un movimento che attraverso una lettura dinamica del contesto sociale risulta capace di superare il corporativismo e, conservando la radicalità delle rivendicazioni e dei metodi di lotta, riesce a guadagnare consenso e a farsi riconoscere attraverso l'incredibile potenza della comunicazione simbolica. E la forza simbolica e comunicativa delle occupazioni della borsa di commercio prima, dell'Ecòle Normale Superieur poi, eguagliano in importanza l'estensione delle occupazioni delle sedi dell'Assedic poi sgomberate. Perché prefigura qualcosa di nuovo un movimento che cogliendo l'erosione dei soggetti storici di mediazione istituzionale del conflitto da un lato, e le modalità di ristrutturazione del paradigma produttivo dall'altro, si autorganizza e rivendica un reddito svincolato dal lavoro e sufficiente a garantire una cittadinanza sociale piena intesa come diritto ad esistere. E allora, quando la povertà finisce di smaterializzarsi nella dimensione astratta della "fame nel mondo" con cui il cinico immaginario occidentale ha ben imparato a convivere, quando le frontiere di questa povertà diventano mobili, dinamiche, tanto impertinenti da erodere come termiti la compattezza e la salda uniformità dei centri, allora i guardiani della stabilità devono blindare le porte o bendarsi gli occhi. Ciò detto, se è vero oggi che chi semina miseria raccoglie rabbia, come l'esperienza francese sembra dimostrare, potrebbe anche essere vero domani che una rabbia molecolare e multiforme, mobile e nomade, contagi simbolicamente la società di chi ha seminato quella miseria.


MISERIA

La miseria è inquantificabile, non esistono grafici che ne descrivano la crescita o il tipo di incremento, mancano tabelle che testimonino la sua distribuzione, non ci sono strumenti che la rendano leggibile come dato. La miseria, intesa come noia, malessere, come prodotto della decadenza di questo sistema produttivo, come asservimento di ogni capacità creativa, la miseria produttrice dei tragici paradossi di quest'epoca, la miseria come frutto maturo dell'alienazione è completamente priva di un apparato linguistico che la esprima attraverso segni convenzionali: la miseria non è indicizzabile. La miseria della vita quotidiana che si offre tangibilmente nella condizione di passività (passività del consumatore nel finto campo della libera scelta, passività dello spettatore innanzi all'opera d'arte, passività del credente innanzi al suo dio) fonda la comune ed unitaria condizione di sofferenza dell'uomo nel capitalismo. D'altro canto si conviene abbastanza semplicemente sul fatto che chi non è direttamente interessato da condizioni oggettive di povertà, cioè chi non è direttamente impegnato in una quotidiana lotta per la sopravvivenza, è colui il quale può percepire, con maggiore facilità, la brutalità della miseria. Questo non comporta un'automatica riduzione della lotta contro la povertà ad un livello propedeutico o sindacale, concentrando sul piano della miseria gli aneliti rivoluzionari e le più alte esigenze di trasformazione dell'esistente, anche perché, già oggi, è riscontrabile, rispetto ad alcune figure sociali emergenti, un interessante accavallamento della battaglia sul reddito, non come difesa del reddito stesso ma come offensiva nella formula di un reddito sganciato dal lavoro, e della coscienza della miseria come consapevolezza del disconoscimento delle capacità creative e del sapere, di un sapere spesso in eccesso in rapporto alle specifiche utilizzazioni. Quest'intreccio lascia intravedere il cruciale problema dell'esistenza di una povertà della miseria e di una miseria della povertà. Ma la miseria non è semplicemente uno stato determinato, la logica conseguenza di una vita colonizzata prepotentemente dalla merce e dal consumo, di un tempo frazionato in atomi scissi e impermeabili, la miseria è anche uso ideologico della miseria ed è consumo della miseria. Il "miserabilismo", lo stile di vita bohèmien, costituisce in questo senso una delle più comuni forme di alienazione indotte dall'ideologia della miseria, laddove la perdita dell'identità produce l'innalzamento della propria sofferenza a canone, a paradigma esistenziale, produttore di ulteriore sofferenza. Questo cancro, che altro non è se non la scimmiesca riproposizione di esperienze e forme di ben più alto valore intrinseco, può rappresentare nell'attuale sistema, sempre più fondato sulla centralità di un sapere direttamente produttivo, un grave pericolo, una pericolosa spirale di celebrazione del disagio e della precarietà. Tanto più se si tiene conto che la figura del "miserabile", dell'escluso, del bohèmien postmoderno, del libertino interinale, ricopre nelle produzioni artistiche cosiddette da avanguardia, il ruolo del protagonista. Centralità della miseria, quindi, dominio ideologico dell'esclusione, ribaltamento delle prospettive, dittatura dei miseri sempre più simili a quegli amanti della letteratura latina troppe volte giocati da Eros: ricchezza della miseria. Non esiste miseria dell'uomo, perché la miseria è tutto ciò che l'uomo non è, è negazione dell'uomo in quanto tale. La miseria è l'oblio dell'uomo che si dimentica di sé, è l'idolo che ha sostituito il dio ed è, insieme, il dio sceso sulla terra. La lotta contro la miseria è lotta che passa attraverso la liberazione dell'uomo dal lavoro, ma la lotta contro la povertà è al fine lotta dell'uomo per il ricordo di sé. In questa misura la dialettica ha sempre a che fare con l'uomo, perché è promessa di un pieno ed autentico ritorno dell'uomo. E infine miseria delle contraddizioni di un paradigma economico sempre più centrato sull'agire comunicativo e sempre meno disposto a liberare completamente il potenziale di comunicazione dei soggetti produttivi, misere contraddizioni di un sistema che ha elevato la dicotomia arte-vita alla ben più esplosiva opposizione sapere-vita. Sono numerose le concentrazioni simboliche della miseria: tutto ciò che ricorda una mancanza, tutto ciò che obbliga a un dovere, tutto ciò che, con la sua sola presenza, impone lo svolgimento di un obbligo, tutto ciò che non permette il movimento o peggio lo rende frenetico. Scuole, chiese, università, vetrine, città sono i ricchi vessilli di un mondo misero.

Mercoledì 14 Gennaio 1998, oltre trecento persone hanno occupato l'Ecòle Normale Superieur di Parigi rivendicando l'accesso al reddito per seguire una formazione esteso a tutti. Il movimento dei disoccupati e dei precari occupa il simbolo dell'establishment intellettuale francese, l'istituto universitario in cui gli studenti, oltre ad una formazione di alta qualità, ricevono 7500 franchi al mese. Questa occupazione ricorda che Parigi non è solo la riva sinistra della Senna e che la Francia non è solo Parigi


Miserie del presente. Ricchezza del possibile di André Gorz

Bisogna imparare a cogliere le chanches non realizzate che dormono nelle pieghe del presente. Bisogna voler impadronirsi delle chanches, impadronirsi di ciò che cambia. Bisogna osare rompere con questa società che muore e che non rinascerà più. Bisogna osare l'esodo. Non bisogna attendersi nulla dai trattamenti sintomatici della "crisi", perché non vi è più crisi: un nuovo sistema che abolisce massicciamente "il lavoro" si è strutturato. Questo restaura le peggiori forme di dominio, d'asservimento, di sfruttamento costringendo tutti a battersi contro tutti per ottenere questo "lavoro" che abolisce. Non è questa abolizione che bisogna rimproverargli: è di pretendere perpetuare come obbligo, come norma, come fondamento insostituibile dei diritti e della dignità di tutti, questo stesso "lavoro" di cui esso abolisce le norme, la dignità e l'accessibilità. Bisogna voler osare l'esodo dalla "società del lavoro": essa non esiste più e non ritornerà. Bisogna volere la morte di questa società che agonizza affinché un'altra possa nascere sulle sue rovine. Bisogna imparare a distinguere i contorni di questa altra società dietro le resistenze, le disfunzioni, le impasse di cui si compone il presente. Bisogna che il "lavoro" perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell'immaginazione di tutti: bisogna imparare a rivolgere al lavoro uno sguardo differente: non pensarlo più come ciò che si ha o non si ha; ma come ciò che facciamo. Bisogna riappropriarsi del lavoro.

Le polemiche che ha suscitato il libro di Jeremy Rifkin sono significative. Ciò che egli chiama "la fine del lavoro" annuncia la fine di ciò che tutti hanno preso l'abitudine di chiamare "lavoro". Non si tratta del lavoro in senso antropologico o filosofico. Non si tratta del lavoro della partoriente, né di quello dello scultore o del poeta. Non si tratta del lavoro come "attività autonoma di trasformazione della materia", né del lavoro come "attività pratico-sensoriale" mediante la quale il soggetto si esteriorizza producendo un oggetto che è la sua opera. Si tratta senza equivoci del "lavoro" specifico proprio del capitalismo industriale: del lavoro che è in questione allorché si dice che una donna "non lavora" quando dedica il proprio tempo alla cura dei propri figli; e che ella "ha un lavoro" quando dedica anche una sola frazione del suo tempo ad allevare bambini altrui in un asilo nido o in una scuola materna.

Il "lavoro" che si ha o non si ha può non avere alcune delle caratteristiche del lavoro inteso in senso antropologico o filosofico. Di fatto è nella maggior parte dei casi privo del carattere definitorio teorizzato da Hegel: non è l'esteriorizzazione (Entäusserung) mediante cui un soggetto si realizza iscrivendosi nella materialità oggettiva di ciò che crea o produce. I milioni di impiegati o di tecnici che "lavorano" davanti allo schermo non "realizzano" nulla di tangibile. La loro attività pratico-sensoriale è di una estrema povertà, i loro corpi e la loro sensibilità sono messi tra parentesi. Il loro "lavoro" non è una "messa in forma appropriativa" del mondo oggettivo", benché possa pervenire ad una messa in forma quale effetto mediato molto lontano. Per i "lavoratori" dell'immateriale come per la maggior parte di coloro che forniscono servizi, i "prodotti" del loro lavoro sono evanescenti, vengono consumati nello stesso tempo in cui sono compiuti. E' raro che questi "lavoratori" possano dire: "Ecco ciò che ho fatto. Ecco la mia opera. Questa è opera mia". Odio i mistificatori che, in nome della definizione filosofica o antropologica del lavoro, giustificano il valore di un "lavoro" che ne è la miserabile negazione. A voler negare "la fine del lavoro" in nome della sua necessità e della sua permanenza in senso antropologico o filosofico, si dimostra il contrario di ciò che si voleva provare: è precisamente nel senso della realizzazione di sé , della "poièsis", della creazione di un'opera che il lavoro scompare più rapidamente nella realtà virtuale dell'economia dell'immateriale. Se si desidera salvare e perpetuare questo "vero lavoro", è urgente riconoscere che il vero lavoro non è più all'interno del "lavoro": il lavoro come poièsis, che si fa non è più (o lo è sempre più raramente) all'interno del "lavoro" socialmente inteso, che si ha. Non è invocando il suo carattere antropologicamente necessario che si dimostrerà la necessaria perennità della "società del lavoro" . Al contrario: bisogna uscire dal "lavoro" e dalla "società del lavoro" per ritrovare il gusto e la possibilità del "vero" lavoro. Alla sua maniera (che non è la mia) Rifkin non dice nulla di diverso: egli afferma che il "lavoro" , di cui annuncia la fine, dovrà essere sostituito da attività aventi altre caratteristiche.

Il "lavoro" che il capitalismo nella sua fase ultima abolisce massicciamente è una costruzione sociale; è per questa ragione precisamente che può essere abolito. Perché si dice che una donna ha un lavoro quando insegna in una scuola materna e che non ne ha quando alleva i propri figli? Perché la prima è pagata per quello che fa, mentre la seconda no? (...) Perché il "lavoro" è definito in partenza come un'attività sociale, destinata a iscriversi nel flusso degli scambi sociali che coinvolgono l'intera società. La sua remunerazione attesta questo inserimento, ma non è questo l'essenziale: l'essenziale è che il "lavoro" assolve una funzione socialmente identificata e standardizzata nella produzione e riproduzione della società intera. E per assolvere ad una funzione socialmente identificabile, deve esso stesso essere identificato da competenze socialmente definite che mette in opera sulla base di procedure socialmente determinate. Deve, in altri termini, essere un "mestiere" o una "professione": vale a dire l'applicazione di competenze istituzionalmente attestate secondo procedure omologate. Nessuna di queste condizioni è soddisfatta dalla casalinga: il suo lavoro non si integra all'interno del processo del lavoro sociale; non è assoggettato a procedure omologate, istituzionalmente controllate (o controllabili) nella loro conformità alle norme professionali; non è soggetto a criteri pubblici in materia di orari e di efficienza. In breve non si colloca nella sfera pubblica, non risponde a bisogni socialmente definiti, socialmente codificati. Non più del lavoro dello schiavo o del servo personale al servizio dei desideri esclusivi del suo padrone. Non più del lavoro di creazione, artistico o teorico.

Il creatore, teorico o artista, non "lavora" (non ha un lavoro) se non quando dà dei corsi o delle lezioni che rispondono a una domanda pubblicamente e socialmente determinata; o allorquando esegue un ordine. Lo stesso vale per tutte le attività artistiche, sportive, filosofiche, ecc. il cui fine è la creazione di senso, la creazione di sé (di soggettività), la produzione di conoscenza.... La creazione non è socializzabile, codificabile; essa è essenzialmente trasgressione e nova creazione di norme e codici, solitudine, ribellione, rifiuto e contestazione del "lavoro". Essa non può essere un "sostituto del lavoro" (come suggeriva Bernard Perret) incaricato di perpetuare la società del lavoro. A causa della omologazione delle competenze, delle procedure e dei bisogni che implica, il "lavoro" è un potente mezzo di socializzazione, di tipizzazione, di standardizzazione, che reprime o limita l'invenzione, la creazione, l'autodeterminazione individuale o collettiva di nuove norme, competenze e bisogni. E' per questa ragione che il riconoscimento sociale di nuove attività e competenze rispondenti a nuovi bisogni ha sempre dovuto essere imposto dalle lotte sociali. La posta in gioco è sempre stata, almeno implicitamente, politica: bisognava far retrocedere il potere della società (...) sugli attori sociali per affermare il potere e i diritti di questi su quella. La facilità con cui il neo-liberalismo si è imposto a partire dalla fine degli anni settanta trova in ciò una delle sue ragioni: il rifiuto sempre più diffuso, anche all'interno della classe operaia, della tipizzazione propria del fordismo e della "dittatura sui bisogni" propria del burocratismo dello stato sociale: i "cittadini" erano diventati degli "amministrati", avevano dei diritti solamente nella misura in cui il loro "caso" individuale era previsto da una classificazione prestabilita e da una nomenclatura ufficiale dei bisogni. La soluzione collettiva dei problemi collettivi, la soddisfazione collettiva dei bisogni collettivi venivano così scartate e i legami di solidarietà vissuta rotti da una individualizzazione metodologica che andava a rafforzare il dominio dell'apparato di Stato sui cittadini trasformati in "clienti" di questo .

In teoria (ma solo in teoria) l'abolizione massiccia del "lavoro", la sua destandardizzazione e demassificazione post-fordiste, la destatalizzazione e sburocratizzazione della protezione sociale avrebbero potuto o dovuto aprire uno spazio sociale ad una fioritura di attività autorganizzate e autodeterminate in funzione dei bisogni percepiti e pensati. Questa liberazione del lavoro e questo allargamento dello spazio pubblico non hanno avuto luogo: avrebbero presupposto la nascita di una civiltà, di una società e di una economia diverse, che mettessero fine al potere del capitale sul lavoro e alla supremazia della rimuneratività finanziaria. Ora la destandardizzazione, la demassificazione e la deburocratizzazione postfordiste perseguivano lo scopo opposto: sostituire alle leggi che le società-Stato si danno, le "leggi" anonime del mercato; grazie al gioco non ostacolato di queste "leggi", sottrarre il capitale al potere del politico; frenare le classe operaie ribelli abolendo il "lavoro", ma al contempo continuando a fare del "lavoro" la base dell'appartenenza e dei diritti sociali, la via obbligata per la stima di sé e degli altri. Si è così aperta una nuova epoca nella quale ciò che poteva servire a liberare gli uomini e le donne dai bisogni e dalle servitù , è stato rivolto contro di loro asservendoli e deprivandoli. Sono così riapparse le stesse forme di sottoproletarizzazione, di miseria fisiologica, di "vagabondaggio" e di "brigantaggio" che avevano accompagnato la nascita della manifattura capitalistica alla fine del XVIII secolo. E' così che le condizioni di vita del "terzo mondo" sono ricomparse nel "primo mondo". Lo "sviluppo" delle produzioni che valorizzano il capitale ha indebolito il lavoro di sussistenza che non lo valorizza, costringendo centinaia di milioni (non esagero) di rurali del "terzo mondo" ad andare ad ingrossare le bidonvilles di gigantesche concentrazioni urbane. E' così che nello stesso tempo, la massa, senza precedenti nella storia, di capitali ha ottenuto dei tassi di profitto senza precedenti nella storia; che questi capitali sono riusciti a far produrre volumi crescenti di ricchezza facendo sempre meno ricorso al lavoro, distribuendo sempre meno salari, e pagando sempre meno imposte (o non pagando alcuna imposta) sui benefici e cessando perciò stesso di finanziare i costi sociali e ambientali indotti dalla produzione, il costo delle infrastrutture di cui quest'ultima ha bisogno. E' così che la riproduzione materiale e culturale delle società entra in crisi e che si diffondono su tutti i continenti anomia, barbarie, guerre "civile" più o meno larvate, paura del crollo della civiltà e implosione dell'economia mondializzata e finanziarizzata, nella quale il denaro produce denaro, senza vendere o acquistare nulla che non sia denaro. Il denaro è diventato un parassita che divora l'economia, il capitale un predatore che saccheggia la società. L'uno e l'atro, grazie alla mondializzazione del mercato libero da regole e vincoli, si emancipano dagli Stati e dalle società, sostituendo alle società-Stato la non-società assoluta e agli Stati-nazione uno Stato "virtuale" senza territorio, né frontiere, né distanze, né cittadini: lo Stato-mondiale del re-denaro. E' così che infine il capitale realizza la propria essenza ideale di potere assoluto che non ammette né condivisioni, né vincoli. Separato dal mondo della vita e delle realtà sensibili, sostituisce ai criteri del giudizio umano l'imperativo categorico del proprio accrescimento e sottrae il suo potere ai poteri umani: il suo Esodo è riuscito.

Il capitalismo è riuscito, così facendo, a superare la crisi del modello fordista. Vi è riuscito impadronendosi di un mutamento tecnico-scientifico che lo oltrepassa e di cui è incapace, come mostra Jacques Robin, di assumerne la portata storica e antropologica . Il capitalismo ha largamente dematerializzato le principali forze produttive: il lavoro (e non siamo che all'inizio di questo processo) e il capitale fisso. La forma più importante di capitale fisso è ormai il sapere accumulato e reso immediatamente disponibile dalle tecnologie dell'informazione, mentre la forma più importante di forza lavoro è l'intelletto. Tra intelletto e capitale fisso - vale a dire tra il sapere vivo e quello incorporato nella macchina- la frontiera è ora indefinita. Il capitalismo post-fordista fa proprio lo slogan di Stalin: "L'uomo è il capitale più prezioso". "L'uomo" viene sussunto nel processo di produzione come "risorsa umana", come "capitale umano", capitale fisso umano. Le capacità specificamente umane vengono integrate nello stesso sistema insieme all'intelletto inanimato delle macchine. Egli diventa cyborg, mezzo di produzione nella sua totalità, fin nel suo essere-soggetto, ovvero al tempo stesso capitale, merce, lavoro. E nella misura in cui non vi è possibilità di uso delle sue capacità nel sistema di valorizzazione del capitale, egli è rifiutato, escluso, considerato non esistente. L'uomo-il-capitale-più-prezioso non è uomo, se non può funzionare come capitale. E' in questo contesto che si colloca il problema posto da Lester Thurow: "Come può funzionare il capitalismo quando il capitale più importante, il capitale-sapere, non ha più un proprietario?" . Il capitalismo offre al momento due risposte parziali e provvisorie: 1. "L'impresa individuale" , all'interno della quale "l'uomo" tratta se stesso come capitale e si autovalorizza in quanto tale. E' il caso dell'elite of knowledge workers, come la definisce Rifkin, che costituisce una frazione di quel 4% di americani attivi che guadagna complessivamente quanto la metà (51%) di tutti coloro che percepiscono un salario. Robert Reich la descrive come "una piccola élite di americani prosperi all'interno di un paese di lavoratori sempre più pauperizzati. I membri di questa tribù di nomadi high-tech hanno più cose in comune tra di loro che con i cittadini dei paesi dove svolgono le loro attività. Essi si ritireranno all'interno di enclave sempre più isolate dal mondo e le loro zone di attività non assomiglieranno in nulla al resto dell'America" . 2. La seconda soluzione è quella proposta dalle grandi imprese: esse si appropriano del "capitale umano" ripristinando rapporti pre-capitalistici, quasi feudali, di vassallaggio e di appartenenza. (...) Il capitalismo non eviterà il suo crollo, afferma Thurow, se non cambia in profondità, se non propone un "grande progetto", "un'idea convincente di un avvenire migliore", "l'idea di un bene superiore comune all'intera società". Ma questa idea, aggiunge, non esiste da alcuna parte, "è la sinistra che la deve fornire". Bisogna dunque salvare il capitalismo contro la sua stessa volontà? Ciò è possibile? Non c'è nulla di meglio da fare? Possiamo rispondere al suo Esodo mediante un nostro Esodo verso terre che egli non controlla? Vi sono per questo Esodo strade praticabili sia nei paesi ricchi che in quelli periferici, quelli che annoverano attualmente 800 milioni di disoccupati totali o parziali e nei quali 1200 milioni di giovani arriveranno sul "mercato del lavoro" nei prossimi venticinque anni?

Alcuni di noi, all'inizio degli anni sessanta, distinguevano le riforme subalterne da quelle rivoluzionarie . Le prime assumono l'urgenza di rimediare alle disfunzioni della società esistente, le seconde partono invece dall'urgenza di oltrepassare la società esistente per andare verso una società diversa che è in gestazione e che fornisce alle azioni il loro senso e il loro scopo ultimo. Il compito della politica è quello di definire degli obiettivi strategici intermedi il cui perseguimento risponda alle urgenze del presente, ma prefiguri al contempo la società altra che chiede di venire alla luce. (...) A. Gorz, Misères du present. Richesse du possible, Galilée, Paris, 1997, pp. 11-20 (Nei prossimi mesi il volume verrà pubblicato dalla Manifestolibri)

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- Chiuso in redazione il 22/01/98 in Bologna