CON UN BACIO PICCOLISSIMO

di Fabio Bo

Jeffrey

Anche in Italia la storia d'amore tra Jeffrey - che ha scelta la castità per paura dell'Aids - e Steve, sieropositivo: come nelle più classiche commedie americane, la vicenda si conclude con un sorprendente lieto fine.

Come nel tenero finale di Insonnia d'amore i due innamorati, che non riuscivano a volersi bene, s'incontrano e si dichiarano in cima all'Empire state building, il simbolo di New York.«Lui» indossa un impeccabile tuxedo e «lui» una T-shirt su un paio di attillati jeans neri: sono entrambi molto attraenti.Nel corso di tutto il film si sono piaciuti, si sono cercati, inseguiti e rincorsi senza mai amarsi (o toccarsi), si sono evitati con imbarazzo e parlati con disagio, hanno avuto da ridire l'uno dell'altro.Finalmente lassù, nell'alto dei cieli, tra le nuvole del sentimento, si scambiano il loro primo bacio.Un bacio è solo un bacio. Ma un bacio cinematografico può essere un vessillo, una bandiera, un esempio.Lo fu quello focoso di Albert Finney in Domenica maledetta domenica. Lo fu quello ispido di Brad Davies in Querelle. Lo fu quello disperato di Tom Hanks in Philadelphia.Ed è ora il turno di Jeffrey e Steve, due newyorkesi qualunque, gay, belli, palestrati e (un po') stereotipati, protagonisti di Jeffrey, opera prima di Christopher Ashley, tratta da un off-Broadway di Paul Rudnick.Il film - l'anteprima italiana ebbe luogo durante la scorsa edizione del GayFest di Torino; ora è distribuito nei circuiti nazionali grazie alla Bim - è una commedia che affronta con umorismo la tragedia dell'Aids, una commedia sofisticata congegnata alla maniera "eterosessuale" come se si trattasse di una screwball con Doris Day e Rock Hudson, e levitante in un mondo, tra musical e sogno, irreprensibilmente (e ironicamente) politically correct, dove essere - ed apparire - gay, per se stessi e per gli altri, è la norma.Genitori audaci che consigliano al loro rampollo di frequentare discoteche e indossare magliette aderenti per rimorchiare meglio, madri orgogliose d'avere «un figlio lesbico transessuale non ancora operato», preti cui piacciono sesso e musica, passanti partecipi che, per strada, prendono parte attiva alle schermaglie amorose tra i due protagonisti, balletti e coreografie con cowboy in abiti discinti, una sfilata dell'orgoglio omosessuale con agguerrite minoranze dentro la minoranza ("bisessuali panasiatici" e "gay neri repubblicani").In questo microcosmo un po' surreale e grottesco si dipana, però, una storia solo apparentemente (e inizialmente) allegra e disinibita.Il buon Jeffrey, attore un po' sfigato che si guadagna da vivere facendo il cameriere, ha promesso a se stesso di soprassedere con il sesso per paura dell'Aids e, con fatica, si mantiene casto e illibato. Ma le tentazioni abbondano.E la più abbondante (viste le forme fisiche compatte e solide con le quali si presenta, o meglio "appare") si chiama Steve, un istruttore di palestra che lo corteggia spudoratamente, un "Mr Right" cui nessuno, nemmeno un gay cieco, potrebbe dire di no.L'ossessionato Jeffrey vacilla, ma a scoraggiare definitivamente la sua disponibilità è proprio l'affascinante pretendente, quando gli comunica con schiettezza di essere sieropositivo.Nessuno è perfetto. Dubbi, paure, piccole codardie, fughe, fobie e finzioni incalzano la coscienza tormentata e innamorata di Jeffrey almeno fino a quando, superati i pregiudizi (e, ahimè, anche quelli interni alla comunità...) e morto di Aids un amico carissimo, i sentimenti trionfano.Con quel bacio gaglioffo stampato in cima all'Empire. Nessuno è "positivo": l'amore è più forte d'ogni deficienza, sia essa immunitaria o preconcetta la miglior prevenzione contro ogni virus, dell'Hiv o dell'ignoranza, è una buona razione di libero romanticismo.Strambo e divertente, autoironico e rilassante, cinico e beffardo, Jeffrey non ha avuto vita facile, nella fase della sua progettazione.Solo dopo che Sigourney Weaver ha accettato di prendervi parte (a tariffa sindacale) in un piccolo ruolo cucito a misura su di lei (è una fantastica, odiosa evangelista new age che irretisce una platea di fedeli adoranti), il film ha guadagnato credibilità e molti attori e produttori, fino ad allora scettici, hanno dato la loro disponibilità.Compresi i due protagonisti, entrambi eterosessuali ma ben disposti anche verso quel liberatorio bacio finale che aveva fatto storcere il naso a molti candidati (gay e non; per molti attori interpretare un gay è ormai un gesto nobile, ma non al punto da baciare un altro uomo): Steven Weber è l'indeciso Jeffrey, Michael T. Weiss, il fusto con un'anima grande e un corpo mozzafiato, uno Steve poco propenso all'autocommiserazione e all'ipocrisia.Ma nel cast ci sono altre piacevoli sorprese. Nel ruolo d'un acido ma generoso arredatore d'interni recita Patrick Stewart, nientemeno che il capitano Jean-Luc Picard della serie Star Trek - The next generation, recentemente "uscito fuori" negli Usa.E poi Olympia Dukakis nelle vesti della mamma più che tollerante, e Nathan Lane - già "amichetto" di Robin Williams nel remake americano de Il vizietto - in quelle del prete simpaticamente molestatore.Non solo. Nel film due altre seducenti star fanno capolino: la New York "gay" di Washington Square, di Barney's, del Chelsea Gym e di Sheridan Square con le sue statue e una sosia somigliantissima di Madre Teresa di Calcutta che, caritatevolmente, soccorre Jeffrey quando è aggredito da una gang di giovani omofobi e che, poi, con altrettanta umana indulgenza e con autentico spirito di "sorellanza", accompagna al piano quel bacio scacciacrisi tra i due piccioncini.
 
 
 
 
Impossibile (e sconsolante) censire i film, i documentari, le testimonianze, i corto e lungometraggi che, in questi tragici anni di passione, hanno raccontato la tragedia dell'Aids. 
Ci limitiamo ad elencarne alcuni, non i più importanti (lo sono tutti) ma quelli più significativi, quelli decisamente accentrati sulla fiction. 

Indubbiamente Philadelphia (1994) è stato il film che ha aperto i varchi di Hollywood e del cinema più commerciale alla tematica, anche se l'opera di Jonathan Demme, in qualche modo, prende spunto dall'Aids per affrontare altri argomenti (l'amore, la diversità). 
Infranto il tabù, da quel momento in poi molti sceneggiatori e registi hanno inserito la malattia (o personaggi malati) nei plot, a cominciare da Forrest Gump

Ma i due film di finzione che, forse, in assoluto per primi parlarono di Aids furono Parting glances di Bill Sherwood (1986), dove il protagonista scopre che il suo ex amante ha contratto il virus e torna da lui, e Una gelata precoce, un film per la Tv di John Ermanche che raccontava la sieropositività d'un giovane e aitante yuppie (Aidan Quinn). 

È del 1986 anche Once more, un melò assoluto di Paul Vecchiali nel quale il personaggio principale, alla costante ricerca d'amore, scoprendosi malato, dice «io non muoio di Aids, io vivo di Aids». 

Negli anni Novanta i film sul flagello, di pari passo col progredire "reale" dell'epidemia, si moltiplicano. 
Dalla Francia tre furibondi film-verità autobiografici che, tragicamente, allacciano in una morsa mortale, arte e vita, cinema e morte: Sotto il cielo di Parigi (1991) opera prima e ultima di Michel Béna, ucciso dall'Aids a soli 41 anni, a pochi giorni dalla data in cui il film veniva presentato alla Mostra di Venezia; il duro e sgradevole Notti selvagge (1992) di Cyrill Collard che se ne va, annientato dal male, poco dopo l'uscita della pellicola nelle sale; La pudeur ou l'impudeur, nel quale Maureen Mazurek ha montato il materiale lasciato da Hervé Guibert (sceneggiatore de L'homme blessé, amante di Michel Foucault) che aveva documentato con la videocamera automatica le sue ultime settimane di vita. 

Dagli Stati Uniti nel 1990 arriva il piccolo e indipendentissimo Che mi dici di Willy? di Norman René (recentemente morto di Aids) che rievoca il propagarsi della malattia dai suoi inizi, tallonando le reazioni, prima indifferenti poi via via sempre più terribili, d'un gruppo di amici belli, bianchi e benestanti. 

Sempre americano è The living end (1992) di Gregg Araki, un road movie che segue due uomini innamorati, uno dei quali sieropositivo, nel loro amore impossibile. 
Convenzionale ma commovente è, inoltre, Our sons, di John Erman, incentrato su due mamme (interpretate con partecipazione da Julie Andrews e Ann Margret), madri di due figli amanti, uno dei quali infettato. 

Due pellicole molto diverse fra loro si rifanno addirittura alle origini del virus. 
Con toni un po' troppo ufficiali e confezionatissimi And the band played on (1993) di Roger Spottiswoode, tratto dal controverso best seller di Randy Shilts, popolato da un discreto numero di star (Richard Gere, Ian McKellen, Phil Collins). 
Con atmosfere surreali e grottesche, quasi scherzando sui cosiddetti "paziente zero", (Gatan Dugas, uno steward canadese), è invece Zero patience (1993) di John Greyson dove "Miss Hiv" ha una vocina in falsetto. 
Senza dimenticare il bellissimo Amazing grace (1992) dell'israeliano Amos Gutman (anch'egli morto di Aids), dall'Europa si alza, dignitosissima, la voce di Derek Jarman (ci ha lasciati nel 1994 a 52 anni) che già in Angelic conversation (1985) prendendo spunto dai sonetti di Shakespeare rendeva omaggio ad un amico morto e che, con Blue (1993) dirige, probabilmente, il film più radicale sull'Aids: 76 minuti monocromatici, ispirati all'artista concettuale Yves Klein, accompagnato da brani del suo stesso diario letti fuori campo. 

Rosa von Praunheim, dalla Germania, oltre a vari documentari (Silence = Death, Positive) è autore, nel suo stile provocatorio, di Un virus non ha morale (1986) commedia anarchica e densa di humour nero. 

In Italia assai toccante è il mediometraggio Partners (1990), di Giovanni Minerba e Ottavio Mai (anch'egli morto di Aids), che racconta gli effetti della malattia nella vita quotidiana.

And the band played on 
And the band played on 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Che mi dici di Willy? 

Che mi dici di Willy?
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Once more 

Once more