CANENERO

settimanale anarchico - 25 ottobre 1996 - numero 36

questo giornale non ha prezzo e non teme imitazioni

copertina canenero 36

Belgio
Camomillo
Carcere
Cronaca della rivolta
Feuilleton
Lampi
Lilla
Lumaca
Nicaragua
Pazienza
Pizzo
Sogno
Sudore
Te possino da' tante cortellate
Teramo
Viaggio senza tempo

CANENERO - Casella Postale 4120 - 50135 Firenze -Telefono e Fax 055/631413

Tenuto conto della forma agile del giornale, i contributi scritti non devono superare lo spazio di una cartella, spazio 2. La redazione si chiude alle ore 22 di ogni lunedì, tranne che per notizie dell'ultima ora di particolare rilevanza. Le spedizioni partono mercoledì sera e arrivano a destinazione entro venerdì.

Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n. 18/89 del Tribunale di Cagliari


Belgio

Ci sono notizie che è impossibile commentare. Di fronte ad avvenimenti particolari ogni parola rischia di risultare inutile, difettosa, parziale o fuori luogo, a meno che chi la proferisca non appartenga alla categoria dei giornalisti per cui parlare è null'altro che un modo per sbarcare il lunario.

Questa difficoltà di pronunciarsi è tangibile, per esempio, in merito a quanto sta accadendo in Belgio dopo la scoperta dello scantinato dove sono stati rinchiusi, violentati ed uccisi numerosi bambini. Apprendere che esistono esseri umani capaci di fare ciò e - cosa ancora più sconvolgente per taluni - che vengono aiutati e protetti da uomini delle istituzioni, ha provocato nella popolazione una reazione di rabbia come da parecchio non si vedeva.

Noi tutti sappiamo bene che, quando l'indignazione sale, gli animi si scaldano e il sangue ribolle, le parole cominciano a perdere il loro significato, o per lo meno quella forza persuasiva che solitamente vi attribuiamo. In balìa dell'emozione e senza più fiducia nelle capacità espressive, si rimane ammutoliti. In silenzio, come i trecentomila partecipanti alla manifestazione di protesta svoltasi domenica scorsa. Ed anche chi questo silenzio non lo volesse proprio accettare, si ritroverebbe comunque a sbattere contro quel muro di indignazione refrattario ad ogni ragionamento, ad ogni argomentazione.

Forse non è questo il momento migliore per dire certe cose. Forse bisognerà attendere tempi migliori, in cui l'emergenza del momento non ottenebri la mente dei più, paralizzandola dall'orrore. Oppure no. Oppure è proprio questo il momento più adatto per dirle, certe cose, prima che fatti del genere vengano portati alla luce anche altrove (come si è già verificato in Svizzera), creando quel clima di linciaggio e di sospetto che preclude a priori ogni considerazione critica.

Ma come dire ciò che nessuno oggi vuole udire? Ad esempio, come affermare che la pedofilia, intesa come l'amore per i bambini anche nella sua sfera sessuale, non comporta necessariamente il loro stupro? Che la sfiducia dimostrata verso le istituzioni è priva di significato se poi si invoca a gran voce il giudice a cui è stata tolta l'inchiesta?

E che dire del padre che ha tagliato la gola all'uomo condannato a due anni di prigione per aver violentato sua figlia e poi scarcerato? Lo si liquida semplicemente come il cittadino risentito per la parsimonia punitiva dei tribunali, lo si “comprende” in quanto genitore ferito, o lo si può portare come esempio di un possibile superamento dello stesso concetto di Diritto? E tutti quei lavoratori in sciopero, quei blocchi stradali, quelle scaramucce con la polizia, che cosa sono: la richiesta di un funzionamento più corretto dell'esistente o l'inizio di una sua definitiva critica? E la sensibilità verso le varie questioni morali, più diffusa di quella verso la questione sociale, come si può interpretare?

Tutte domande a cui bisogna dare una risposta. Accontentarsi di gridare che i bambini non si devono toccare o indignarsi perché le istituzioni non sono affidabili significa solo evitare il problema.

Aldo Perego


Camomillo

A Roma in questo periodo stanno confluendo un sacco di anarchici provenienti da tutta Italia.

Un mese fa, su ordine di un pubblico ministero in cerca di facile gloria, circa trenta nemici dell'autorità sono stati presi “in custodia” a Rebibbia, un carcere della periferia cittadina. Per protestare contro la tracotanza e lo spirito di rivalsa di quei magistrati che hanno deciso di privarli della libertà, uno di loro ha cominciato uno sciopero della fame e della sete a oltranza.

Ma Sabato scorso questi anarchici non erano i soli a respirare l'aria della città eterna. A loro se ne sono aggiunti altri, ospiti questa volta della libreria internazionale Il manifesto, dove si sono recati per chiacchierare - insieme a comunisti, marxisti e storici - di Camillo Berneri, “un anarchico tra Gramsci e Gobetti”, come recita il titolo del convegno promosso, oltre che dal quotidiano di via Tomacelli, dal centro studi libertari di Milano e dalla Rivista storica dell'anarchismo di Pisa, in collaborazione con la libreria romana Anomalia.

Meno male, meno male che ci sono ancora anarchici disposti a ripulire il buon nome dell'anarchia dalla pessima fama che alcuni scalmanati vorrebbero attribuirle. Già lo stesso manifesto, nel dare la notizia degli arresti di un mese fa, aveva fatto premurosamente notare come gli investigatori concedessero “un po' troppo facilmente un'unica motivazione ideologico-politica ad azioni che sembrano quelle di una banda di criminali comuni”. Ma ci voleva proprio un bel convegno organizzato tutti insieme per dissipare gli ultimi dubbi, per riportare infine un po' di serenità.

A questo proposito va detto subito che la scelta non poteva cadere su un soggetto migliore. Quale anarchico più di Camomillo Berneri poteva portare su un terreno comune anarchici e personaggi come Valentino Parlato, Goffredo Fofi (che sta curando una antologia di scritti di Berneri), Enzo Santarelli? Figuri del genere non potevano di certo restare insensibili al fascino esercitato dall'esponente di punta del revisionismo anarchico, e dalle sue inquietanti definizioni di Anarchia - “quella società nella quale l'autorità tecnica, spogliata di ogni funzione di dominio politico, viene a costituire una gerarchia concepita e realizzata come sistema di distribuzione del lavoro” - e di Libertà - “il potere di obbedire alla ragione”.

“Anarchico sui generis” - così amava definirsi - Berneri si batté come un leone per far uscire l'anarchismo dalla nebbia dell'utopia a colpi di realtà. “Meglio il male attuale che uno peggiore” era il grido di battaglia che lo accompagnò per tutta la vita e a cui rimase sempre fedele. E fu questo senso della misura a fargli salutare nel 1918 il regime bolscevico, disprezzare l'astensionismo che liquidava come “cretinismo”, collaborare con i liberali alla Gobetti, fare cenni di simpatia a una parte del mondo cattolico, del quale condivideva la considerazione della donna come sposa, procreatrice e angelo del focolare. Ed era sempre questo profondo senso del Dovere - che Camomillo identificava con Dio - a fargli scrivere parole piene di cauta assennatezza sulla necessità del denaro e sull'ineluttabilità del carcere, nella consapevolezza che bisogna sempre giungere ad un “compromesso tra l'Idea e il fatto, tra il domani e l'oggi”.

Berneri venne ammazzato a Barcellona durante le giornate del maggio Ô37, in piena rivoluzione spagnola, ed il suo martirio gli valse la santificazione da parte della venerabile Chiesa anarchica. Che poi i suoi assassini fossero proprio quei comunisti di cui Parlato, Fofi e compari tessevano le lodi fino a poco tempo fa, questo è un particolare davvero trascurabile.

Resta il fatto che solo lui - Camomillo Berneri, l'anarchico che candidamente soleva sostenere come “un minimo di autorità sia indispensabile” - poteva diventare il tratto d'unione fra stalinisti e anarchici, il miscredente che con la propria eresia - proprio come Gobetti e Gramsci - non fa altro che alimentare il dogma.

Ma sì, diciamolo pure: in fin dei conti, questi magistrati hanno perfettamente ragione. Ci sono anarchici e “anarchici”. Alcuni sono cattivi e giustamente stanno in carcere. Altri invece, fra cui vale la pena ricordare alcuni relatori di questo convegno - Claudio Venza, Gianni Carrozza, Giampietro Berti - sono buoni, talmente buoni da poter godere della stima di tutte le persone dabbene di questo mondo.

Un brindisi a Camomillo quindi. E in culo agli “anarchici” in galera.

Penelope Nin


Carcere

Carcere delle Vallette a Torino, 24 settembre: un ventiquattrenne accusato di spaccio si impicca in cella. Stesso carcere, 26 settembre: un sieropositivo si uccide in cella. Carcere di Rebibbia a Roma, 9 ottobre: un ragazzo sieropositivo muore per complicazioni nell'ospedale dove era stato trasferito d'urgenza. Stesso carcere, 12 ottobre: vi viene trasferito un altro malato terminale di Aids ospite in una struttura d'accoglienza

Carcere di Bad'e Carros a Nuoro, 21 ottobre: continua la protesta dei detenuti, che attualmente non hanno la possibilità di usufruire di colloqui e permessi di ogni genere, a causa della mancanza di un magistrato di sorveglianza. La cosa non fa notizia, i giornali la circoscrivono nello spazio di un piccolo trafiletto, nella migliore delle ipotesi.

L'elenco potrebbe continuare a lungo. Morire in carcere, morire di carcere è divenuto ormai un evento quotidiano, tanto che difficilmente i giornali spendono più di qualche riga al riguardo, e non si vede perché dovrebbero fare altrimenti. Tutti sappiamo che finire in carcere vuol dire sparire nel buco nero della società civile, essere dimenticati, diventare oggetto di paura. Il cittadino comune considera l'uso del carcere come punizione, come vendetta senza ritorno, come rivalsa verso gli ex potenti e famosi.

Lontano da noi nello spazio, invisibile, immobile nel tempo infinito, il carcere rimacina le vite di coloro che incarnano problemi che non possiamo, non vogliamo affrontare e che solo l'Istituzione può risolvere con polizia e carcere.

Negli ultimi anni la gente ha razionalizzato la propria volontà decisionale incrementando - paradossalmente - la propria voglia di ferocia verso i “colpevoli”; atteggiamento questo che facilita parecchio il compito dello Stato. A Torino, ad esempio, dopo i disordini pseudo-razziali dell'estate scorsa il Comandante dei carabinieri era intervenuto per dire al popolo che “Non si può risolvere tutto con la repressione”, invocando l'intervento preventivo di strutture educative sul territorio. Con ciò, se nessuna ignominia riesce a scuotere quella gente, figuriamoci l'entusiasmo che può suscitare un carcere “vero”, di quelli che funzionano senza contraddizioni, senza morti, che sfornano esseri recuperati al bel vivere della società civile. Quando gli orrori di cui ancora i (pochi) giornali parlano saranno superati, il carcere-modello apparirà, probabilmente, quello in stile S. Patrignano, recentemente celebrato con grande fasto: una via di mezzo tra caserma, comunità, prigione, scuola, supermercato e ospedale.

La questione verrà così progressivamente spostata verso l'ambito educativo, preventivo e assistenziale, che legittima il dominio della nostra società verso i più deboli attraverso mezzi apparentemente più innocui, al punto da sembrare strumenti di solidarietà.

E l'odierno abbrutimento carcerario si proietterà, in modo forse meno violento ma in sostanza sempre più efficace, nei sistemi di repressione verso chi rifiuta di adeguarsi, di partecipare, di aderire, di diventare un semplice numero da incasellare nella macchina societaria.

Mario Spesso


Cronaca della rivolta

13 ottobre - Torino. Una macchina bruciata e lievi danni alle strutture, sono il risultato dell'esplosione di un ordigno posto davanti alla caserma dei Carabinieri di San Salvario. La notizia è stata resa pubblica solo dopo cinque giorni.

15 ottobre - Roma. Centinaia di bigattini, i vermi bianchi usati per la pesca, hanno invaso corridoi e aule del liceo Pasteur, gettati nella notte da ignoti. Già nei mesi passati altre scuole della capitale sono state fatte oggetto di lanci di vermi.

15 ottobre - Perugia. é iniziato il processo contro un gruppo di giovani, accusati di aver pesantemente disturbato il lavoro e la tranquillità di un giudice romano, “con schiamazzi, rumori molesti, urla, clacson, bestemmie e manifestazioni oltraggiose verso i defunti”. Non solo. Sono accusati anche di aver bruciato il citofono della casa del magistrato, di aver provato ad investirlo con un motorino e di averlo colpito con lanci di arance.

15 ottobre - Firenze. Dopo aver importunato una zingarella, gli agenti del Nucleo di prevenzione crimine ci provano con un extra-comunitario e gli chiedono i documenti. Lui non ci sta e volano ceffoni.

16 ottobre - Bari. Il pentito esce, sotto scorta, dall'aula della Corte d'assise, dopo essere stato insultato dagli imputati e dai loro parenti; prima però, viene preso a scarpate dagli accusati.

20 ottobre - Londra. Gli invadono il giardino e scavano una grossa buca. Così, un gruppo di minatori e di ambientalisti ha inteso dimostrare all'ex vicepremier britannico Michael Heseltine cosa significa avere miniere a cielo aperto sotto casa.

20 ottobre - Firenze. Un quattordicenne, con due amici, si è impossessato dell'auto di un'assistente sociale della Casa Famiglia nella quale è ospite. L'ha abbandonata quasi subito, ma per prendere quella del coordinatore dello stesso Istituto.


Feuilleton

(Dall'interrogatorio di Namsetchi Mojdeh, 8 maggio 1995)

“La casa di Tesseri dove è stata tenuta sequestrata la Silocchi, si trova in ApriliaÉ La casa era composta da tre camere da letto, due bagni, ed una sala da pranzo con angolo cottura comunicanti. La donna sequestrata si trovava in una delle tre camere da letto ed esattamente nella camera dell'ex moglie di Tesseri e cioè di C.L. Dico questo perché so che l'altra stanza da letto era quella occupata da Tesseri e che io conosco bene, mentre la terza camera da letto, più piccola, che era occupata dalla figlia del Tesseri che all'epoca aveva 12 anni. Io ho conosciuto questa bambina di nome V. Io però la bambina non l'ho mai incontrata in quella casa, mentre la C.L. l'ho vista per la prima volta durante il sequestro.

Io ho visto che all'epoca del sequestro C.L., P.A. ed O.C. dormivano tutti e tre nella stanza di V. Anch'io durante questo periodo ho dormito in quella casa nella stanza di Tesseri, però soltanto per un paio di notti. Comunque io durante il giorno non sono stata mai in casa. Come ripeto io mi sono fermata soltanto due notti per dormire insieme a Tesseri. é stata in queste occasioni che io ho potuto vedere che nella casa, oltre a C.L. ed a P.A., vi era anche quell'altra donna di cui ho parlato e che poi ho saputo essere la Mirella Silocchi. La Silocchi l'ho vista sempre in compagnia di qualcuno. La prima volta l'ho vista con C.L. mentre la stava portando nella stanza di cui ho già parlato; un'altra volta l'ho vista nel cortile della casa insieme con C.O.; un'altra volta ancora l'ho vista mentre saliva a bordo della macchina, mentre la portavano via. Non l'ho mai vista né legata né imbavagliata. Era una donna di circa 40-45 anni, magra, non alta, con i capelli rossi che però erano tinti, portava degli occhiali da vista leggermente scuri. Non so dire che abiti indossasse. Non sono in grado di descriverla meglio perché in tutte e tre le volte l'ho intravista sempre per pochi attimi. Non l'ho mai sentita parlare. Non ho mai visto quella donna in fotografia né ho mai visto la sua fotografia su giornali e/o in televisione. Oggi se vedessi una sua fotografia sarei in grado di riconoscerla”. (I suddetti “fatti” sarebbero accaduti quando la “pentita”, allora quindicenne, aveva conosciuto Carlo Tesseri)


Lampi

Prosegue lo sciopero della fame e della sete di Salvatore Gugliara. Non si hanno notizie certe riguardo la sua salute; pare che sia già stato ricoverato in infermeria. Il suo indirizzo, come quello degli altri compagni detenuti nella sezione maschile del carcere di Rebibbia è il seguente: Via Raffaele Majetti 165, 00156 ROMA. La sezione femminile è in via Bartolo Longo 72.

* Intanto si stanno svolgendo in questi giorni gli interrogatori di tutti gli altri anarchici indagati, da parte dei ROS di Roma.

* A Trento, il prossimo 7 novembre, si svolgerà l'appello contro Jean, Antonio, Carlo e Christos accusati di aver compiuto due rapine a Ravina di Trento. In primo grado sono stati condannati - tra una carica e l'altra della polizia contro i compagni che volevano assistere al processo -, grazie alla gentile collaborazione della “pentita”, a 6 anni e mezzo e a 7 anni di reclusione.


Lilla

Per ricordarci di tenere la testa a posto, pena un severo castigo, alcuni solidali camerati fascisti hanno pensato bene di inneggiare alle galere da destinare agli infami anarchici, modificando alcune scritte apparse nei punti più caldi della boriosa Trieste italianissima.

Dal canto nostro, approfittando del tiepido e soleggiato pomeriggio autunnale, giovedì 17 ottobre ci siamo presi la briga di riaccendere quei messaggi con lo spirito gioiosamente anarchico che li contraddistingueva, eliminando le imbecilli parole e i simboli nazifascisti con nutrite pennellate di vernice lilla - un fantasioso richiamo allo stile di Praga, che si addice alla tradizione mitteleuropea tanto decantata dai mummificati intellettuali austroungarici senza Sissi.

Ma, giunti nella controllata piazza Oberdan, una simpatica biondina agente della Digos ha chiamato la Polizia municipale, per non sporcarsi le mani col passionale color; i soliti conflitti d'interesse hanno portato digossini, vigili e sbirri a scontrarsi nell'arena per il piacere di Cesare. Almeno questa volta non c'entra il solito zelante cittadino anonimo: questo odioso personaggio, forse confuso dal fatto che “normalmente El Comùn cancèla le scrìte”, è rimasto impegnato in chissà quale altra faccenda, e non si è sentito infastidito dalla pittoresca scampagnata.

Alla fine la nostra improvvisata ci è costata una momentanea deviazione alla centrale dei vigili e una ridicola segnalazione per il reato di “imbrattamento”, nonché la sopportazione della rituale domanda delle guardie istupidite: “Non potevate usare un colore più neutro?”.

Che volete farci, è davvero un bel vizio quello di fare e decidere per sé, incuranti dei confini, sordi ai rimproveri.

Au revoir ici, n'importe où (A. Rimbaud)

Igor


Lumaca

Questi sono i tempi della velocità. Non solo i treni super veloci, gli aerei; non solo le navicelle spaziali che violano gli abissi stellati. La velocità la viviamo ogni giorno, è entrata nelle nostre esistenze, ci passa accanto e ci sfila innanzi senza neanche darci il tempo di coglierla. La velocità è il segno della tecnologia, è l'indice di quel flusso di elettroni, di quello spostamento di particelle invisibili che, tra cavi e centraline, si trasforma in valanga di informazioni. La velocità è il momento in cui il rame, la sabbia, il vetro si fanno spettacolo, si fanno dominio.

Le lumache, si sa, veloci proprio non sono; sono lente, eternamente pedinate da una scia di bava. Sembra, poi, che niente abbiano a che fare con la modernità e con il potere. Anzi; ancora oggi si racconta, in una Valle sperduta, che il tiranno - uscito al galoppo dal suo castello arroccato su di un dirupo - morì scivolando sulle lumache.

E nel Liechtenstein, qualche giorno fa, le trasmissioni televisive sono state interrotte proprio da una lumachina che, lenta lenta, si era insinuata in una presa di corrente, provocando il fatale corto circuito.

Addio immagini sullo schermo: la velocità tiranna, ancora una volta, è scivolata su di una lumaca.

R.T.


Nicaragua

Che delusione! Sono in parecchi, oramai, nella sinistra più a sinistra in Italia, ad ammainare la bandiera rossa e nera del Nicaragua sandinista. No, compagni nicaraguensi, così non va. Dove sono le chitarre armate di una volta, dove sono i baschi, le divise grigio-verdi, i preti guerriglieri, dove sono i teologi della liberazione, dov'è andato a finire il sombrero di Sandino?

Perché, dovete sapere, nell'ultimo periodo il Fronte sandinista - che prese il potere dopo la rivoluzione del lontanissimo 1979, tra gli applausi degli spettatori rivoluzionari di mezzo mondo - per prepararsi alle nuove elezioni presidenziali ha chiesto l'ammissione all'Internazionale socialista. E l'ha ottenuta.

Non solo: i rappresentanti del Fronte hanno già stipulato qualche accordo con le banche, un tempo odiatissime, di Washington. Hanno ben specificato, nel loro programma elettorale, di voler tutelare la proprietà privata - tanto che a candidato vice-presidente hanno piazzato un grosso allevatore - e, ciliegina sulla torta, hanno promesso qualche ministero ad alcuni ex contras. In più, negli ultimi tour elettorali, Ortega, il candidato presidente, si è presentato biancovestito parlando di Dio.

Non ci si capisce più niente, compagni sandinisti. Voi, che per dieci anni siete stati la bandiera della lotta degli oppressi contro l'imperialismo statunitense, che per dieci anni e per migliaia di morti vi siete massacrati con i contras filoamericani, voi che eravate l'ultima speranza di chi sognava ancora la rivoluzione, voi ora in giacca e cravatta nel cuore dell'Impero, a tavola con i nemici di sempre?

Il sombrero di Sandino si è un po' sgualcito e non ci fa più sognare il vostro paese lontano, la vostra rivoluzione tra campi di mais, laghi e vulcani.

Certo, ci vuole un po' di buon senso. Con un vicino di casa così potente come gli Stati Uniti non è neanche pensabile di avere una linea differente e poter sopravvivere; certo, il paese è straziato, dilaniato da dieci anni di guerra. Ma che c'entra? Questi discorsi possono valere per noi, rivoluzionari occidentali: noi sì, ci possiamo permettere di proteggere il nostro futuro tranquillo con le armi spuntate del buon senso. Il vostro compito, invece, è allestirci il balletto rivoluzionario.

Ma in fondo ne abbiamo passate tante. Prima la Russia , poi la Cina, il Viet-Nam, Cuba: rivoluzioni finite in tragedia, trasformate subito in politica. Anche in Nicaragua lo spettacolo è terminato, siamo ai titoli di coda. Per fortuna ora c'è il Chiapas, la sua selva e il suo comandante: li studieremo, li applaudiremo, ci commuoveremo. Li succhieremo fino all'osso, capaci come siamo di trasformare ogni esplosione di vita lontana in quello spettacolo che tanto ci serve per metterci a posto le coscienze.

S.V.


Pazienza

Molti degli equivoci a proposito della gestione democratica del potere nascono, a mio avviso, dall'ambiguità del concetto di consenso. Un ragionamento ormai diffuso tra un buon numero di anarchici è quello che segue.

Quando il fondamento della società del dominio era visibilmente la brutalità della forza, le pratiche di rivolta risultavano evidenti, nel loro significato, agli sfruttati. Se questi non si ribellavano era proprio perché il ricatto della polizia, e quello della fame, li costringeva alla rassegnazione e alla miseria. Contro quel ricatto, quindi, occorreva agire con determinazione. Oggi, invece, le istituzioni dello Stato godono della partecipazione, per quanto pilotata, delle masse, poiché una pressante operazione di condizionamento le ha rese consenzienti. Per questo motivo, la rivolta deve essere spostata sul piano della delegittimazione, dell'erosione graduale e allargata del consenso. Di conseguenza, è a partire da quelle piccole zone in cui la presenza dell'autorità è delegittimata, per così dire messa fra parentesi, che si può far crescere un progetto di trasformazione sociale. Diversamente, la ribellione diventa un agire fine a se stesso, nel migliore dei casi un inutile e incompreso gesto di testimonianza, nel peggiore un contributo alla repressione e un pericoloso allontanamento dai bisogni reali degli sfruttati. Questa mi sembra la sostanza di un discorso che, di volta in volta, viene agghindato in mille modi diversi.

Tutto questo ragionamento si basa in realtà su un falso presupposto, cioè sulla separazione di consenso e di repressione. Che lo Stato abbia bisogno di entrambi questi strumenti di controllo è chiaro e credo che nessuno incorra nel banale errore di negarlo. Ma rendersi conto che il potere non può reggersi solo con la polizia, o solo con la televisione, non basta. Ciò che importa è comprendere in che rapporto polizia e televisione stanno tra di loro.

Legittimazione e coercizione appaiono condizioni diverse solo se si considera il consenso una sorta di apparato immateriale che plasma la materialità del comando; in altri termini, se si ritiene che la produzione di un determinato atteggiamento psicologico - quello, appunto dell'accettazione - sia altrove rispetto alle strutture dello sfruttamento e dell'obbligo che su un simile atteggiamento si fondano. Da questo punto di vista, che una tale produzione avvenga prima (come preparazione) o dopo (come apologia) è irrilevante. Ciò che interessa è che non avviene contemporaneamente. Ed è proprio qui che si colloca la separazione di cui parlavo.

In realtà, la divisione tra la sfera interiore della coscienza e quella pratica delle azioni esiste solo nella testa - e nei progetti - dei preti di ogni colore. Ma alla fine anche costoro sono costretti a dare una regione terrena alle proprie fantasie celesti. Come Cartesio aveva dovuto inventarsi la valvola pineale quale luogo dove riporre l'anima, così il borghese ha designato la proprietà privata quale feudo del proprio misero io santificato. Non diversamente, il moderno democratico, non sapendo dove localizzare il consenso, ricorre alla simulazione del voto e del sondaggio. Ultimo arrivato, il libertario al passo con i tempi situa la pratica delegittimante in una “sfera pubblica non statale” dai misteriosi confini.

Il consenso è una merce come lo è un hamburger o il bisogno del carcere. Anzi, se la società più totalitaria è quella che sa dare alle catene il colore della libertà, esso è divenuto la merce per eccellenza. Se la repressione più efficace è quella che cancella il desiderio stesso della ribellione, il consenso è repressione preventiva, polizia delle idee e della decisione. La sua produzione è materiale come quella delle caserme e dei supermercati. I giornali, la televisione e la pubblicità sono potere al pari delle banche e degli eserciti.

Così posto il problema, risulta chiaro come la cosiddetta legittimazione non sia altra cosa dal comando. Il consenso è forza, e la sua imposizione è esercitata da precise strutture. Questo significa - ecco la conclusione che non si vuole trarne - che lo si può attaccare. In caso contrario, ci si scontrerebbe con un fantasma che, quando si fa visibile, ha già vinto. La nostra possibilità di agire sarebbe tutt'uno con la nostra impotenza. Io posso ben colpire questa realizzazione del potere, ma la sua legittimazione arriva sempre - da dove non si sa - prima e dopo il mio attacco, a nientificarne il senso.

Come si vede, dal proprio modo di comprendere la realtà del dominio ne discende il proprio modo di concepire la rivolta. E viceversa.

Il fatto che la partecipazione ai progetti del potere è divenuta più ampia, e la vita quotidiana è sempre più colonizzata; il fatto che l'urbanistica rende in parte superfluo il controllo poliziesco e la realtà virtuale distrugge ogni dialogo; tutto questo accresce (non certo elimina) la necessità dell'insurrezione. Se aspettassimo che tutti diventino anarchici prima di fare la rivoluzione, diceva Malatesta, staremmo freschi. Se aspettassimo di delegittimare il potere prima di attaccarlo, staremmo al fresco. Ma l'attesa, per fortuna, non passa tra i rischi degli incontentabili. Da perdere non abbiamo che la nostra pazienza.

Massimo Passamani


Pizzo

I cattolici più indaffarati saranno felici: in Inghilterra è arrivato il confessore telematico, previsto già da qualche tempo. Un cd-rom che conteggia le umane mancanze e commina preghiere su misura, anche per rimediare all'omicidio (50 fra avemarie e paternoster). Il portavoce del cattolicesimo britannico ha subito replicato, indignato, che l'unica confessione è quella fatta davanti ad un prete in carne ed ossa, sennò nessun perdono né assoluzione.

La cosa non meraviglia, ma non per i motivi che avete in testa voialtri sovversivi: la Chiesa - vi ricordo - è sempre stata all'avanguardia in ogni campo (escludiamo sesso droga e rock and roll), dalla tecnologia all'economia. Il Vaticano possiede la più vasta biblioteca mondiale, il sistema di spionaggio più efficiente al mondo, il suo braccio economico (Ior) impegna investimenti da capitalismo d'assalto nei campi più disparati, dalla biochimica agli armamenti, dall'informatica all'editoria, i suoi ufficiali (Gesuiti) fungono da istruttori, tutori e numi a migliaia di dittatori, capi di stato, capitani d'industria, comandanti militari.

E la Chiesa è sempre pronta a modificare il proprio atteggiamento in funzione delle situazioni contingenti. Un esempio: per secoli la cremazione è stata bollata come fenomeno ereticale; da quando i vari municipi hanno dimostrato che posto non ce n'è più neanche sottoterra, la scomunica è caduta e morta lì. Persone ragionevoli, i preti, mica scemi.

E allora, perché ce l'hanno col confessore telematico? Semplice: finché non gli riconosceranno i “diritti d'autore” (la Siae cominci a pensarci) questo marchingegno gli impedirà di incamerare soldi. Le indulgenze erano nate proprio per questo, in fondo, per raccogliere denari in cambio dell'impunità dei bravi cattolici. Se questi dovessero restare a casa, come diavolo farebbero a estorcer loro il pizzo?

Mario Spesso


Sogno

Tranne che in casi particolari un incidente di percorso non è mai riuscito a fermare nessuno, al massimo ha costretto chi ha avuto la sfortuna di incapparvi a subire un ritardo più o meno lungo o a cambiare il mezzo usato. Ma tutto dipende dalla determinazione di chi ha intrapreso quel viaggio.

Per chi ha deciso di giocarsi la vita nella sperimentazione della libertà, finire in galera rappresenta appunto un incidente di percorso. Nessuno può negare che la cosa è spiacevole, a volte estremamente spiacevole, ma non si può nemmeno negare che un simile incidente è sempre stato, se non prevedibile, almeno nell'ordine delle possibilità. Soprattutto quando si è consapevoli che il potere non punisce affatto le violazioni al suo codice penale - cosa che rende del tutto inutili le distinzioni fra “colpevoli” e “innocenti” - quanto la disobbedienza nei suoi confronti, comunque questa si manifesti. Ed è per questo motivo che gli anarchici hanno sempre dovuto fare i conti con la possibilità di finire in galera.

Ma se il carcere rinchiude il corpo di qualcuno, non può rinchiuderne i sogni e i desideri. Anzi. Compressi fra quattro mura, questi si agitano, vibrano e urlano ancora di più. Se fuori da quelle mura la nostra sete è insaziabile, non si capisce perché dentro non dovrebbe accrescersi, anziché diminuire. L'esperienza del carcere, per quanto drammatica possa essere, non può ridurci in ginocchio, né può indurci a cambiare rotta.

Ecco perché è del tutto ridicola la considerazione che qualcuno fa, secondo cui i compagni incarcerati sono “persi”, non potendo più fare qualcosa. In realtà il carcere ci impone sì dei limiti - che il nostro intervento può comunque modificare - ma dentro questi limiti è pur sempre possibile muoversi. A partire dall'uso di ciò che più abbonda in tutte le galere di questo mondo: il tempo. Quel tempo che spesso e volentieri manca a chi si trova fuori, troppo impegnato a fare, può diventare il mezzo con cui colmare, seppur parzialmente, la distanza che intercorre fra il dentro e il fuori le mura del carcere.

Sognare, riflettere, scrivere, studiare, fare ricerche, magari sui dati che si possono ricavare pur vivendo una condizione di recluso, e poi metterli anche a disposizione di chi sta fuori da quelle mura. Questo lo può fare chiunque di noi incappi in quell'incidente di percorso, senza con questo sentirsi compresso nel proprio ruolo di carcerato. Qualcuno ha provato a farlo per il momento dall'interno del carcere di Rebibbia. Cercheremo di contribuire alla sua ricerca perfezionando le informazioni su questo carcere e proseguendo la panoramica anche su altre strutture penitenziarie.

Rebibbia è stato inaugurato nel 1970. Attualmente i detenuti sono circa 1300 e gli agenti penitenziari sono 800. Il direttore è Maurizio Barbera (in questo periodo sotto inchiesta). é un carcere all'avanguardia, nell'ottica “più coinvolgimento, più sicurezza”. Il suo costruttore è Sergio Lenci. L'appalto per la fornitura di generi alimentari è affidato alla “Gerardi & C. Srl”.


Sudore

Il lavoro tanto bene non fa, lo sappiamo. Che si tratti di cemento e cazzuola o di cartacce da compilare, poco cambia. é sempre un peso gravoso, un giogo del quale sarebbe dolce liberarsi.

Una impiegata umbra, pensate, è rimasta sepolta per otto ore intere - giusto giusto l'orario d'ufficio - sotto un cumulo di pratiche e di incartamenti. L'archivio era crollato e la nostra ha scoperto il peso del sudore versato per tanti anni. Quando, finalmente, i pompieri l'hanno liberata, ha detto di “essere stremata” - più o meno quello che dicono tutti gli impiegati quando escono dall'ufficio -; in più per lei, quel giorno, non c'è stata neanche la pausa per il pranzo.

Ma questa è solo una piccola parte della faccenda.

Pensate alla nostra povera impiegata che, dopo queste otto ore di lavoro tanto gravoso, si ritroverà ancora, come tutti i giorni, a dare il suo contributo alla pace sociale - cioè a lavorare - al supermercato, di fronte alla televisione oppure organizzandosi le ferie che verranno.

Altro che tonnellate di cartacce sulla testa, la vita quotidiana; i giorni volano, la schiena si curva e si diventa vecchi - lavorando. E non bastano i pompieri per liberarcene.

S.V.


Te possino da' tante cortellate

Che le imprecazioni e le minacce, fin tanto che rimangono vacue ed inoffensive parole, non servono a nulla, è cosa certa. Per quante maledizioni e anatemi si possano lanciare all'indirizzo di qualche singolo o dell'intera società, la realtà non subisce alcun mutamento. Anzi, l'unico effetto tangibile è l'avvelenamento del proprio fegato.

Altra cosa è la vendetta. Un sentimento nobile e audace che non concede mezzi termini e non si circonda di melliflue considerazioni per fornirsi un sostegno. Un sentimento che non si avvale di ingiurie o di maledizioni per esplicarsi, ma che necessita di silenzio e di tempo, che nasce nel cuore, che matura con l'intelletto e che scuote i nervi del corpo.

La solitudine, produttrice di conflittualità e di tensioni, è la sola in grado di alimentare e tenere viva la fiamma della vendetta, che urla tutta la sua rabbia e il suo disprezzo verso l'esistente con l'ineluttabile imprevedibilità che la caratterizza.

Armarsi di buone intenzioni è senz'altro lodevole, ma ancora una volta non è sufficiente. Ogni buon anarchico desidera ardentemente in cuor suo che la realtà cambi radicalmente e con essa scompaiano giudici, sbirri, padroni ed ogni sorta di aguzzini, e di questa trasformazione vuole essere protagonista attivo, ma come sempre il che fare diventa l'interrogativo lacerante che ogni volta si traduce in incomprensioni, in esasperazione e in un senso devastante di impotenza. Per tante ragioni e per molteplici ingerenze esterne, ci troviamo a rincorrere scadenze che non sempre determiniamo per nostra scelta, ma che ci vengono imposte, e noi, esausti da questa rincorsa senza fine, continuamente attaccati e feriti nei sentimenti, quando un qualsiasi cane con in mano lo scettro del potere decide di sequestrare i nostri compagni nelle democratiche galere, tendiamo ad abbandonarci in un torbido sconforto.

Ma c'è qualcosa che sfugge a tutto questo, che non si lascia ingabbiare, che oltrepassa qualsiasi condizionamento, che ci accompagna in ogni istante del nostro vivere quotidiano e che esplode con brutale determinazione nei momenti più impensati.

Vendetta - gridano i nostri cuori, per tutto ciò che abbiamo patito, per la nostra vita e la libertà negata, per tutto il dolore e il sangue versato nella incessante lotta contro i nostri nemici.

Cari compagni, non abbiamo nulla da perdere.

Michele


Teramo

Giovedì 17 ottobre, nella centralissima piazza Martiri della Libertà di Teramo, in occasione dei festeggiamenti del decennale de Il Centro Ð quotidiano d'Abruzzo, un nutrito gruppo di anarchici abruzzesi ha pensato bene di apportarvi il proprio contributo. Quale occasione migliore per continuare la loro azione di solidarietà a favore degli anarchici arrestati e inquisiti, il mese scorso, in tutta Italia?

Allora via, si riesce a prendere il microfono e a leggere un comunicato, tra lo sgomento dei redattori del giornale, si issa uno striscione con la scritta “Mai soli! Solidarietà agli anarchici arrestati” e si diffondono volantini.

Una parte delle persone presenti ascolta attentamente, altri solidarizzano con gli anarchici, troppo per i giornalisti in doppiopetto e col sorriso stampato in faccia, che decidono di staccare il microfono e di alzare il volume dei loro televisori per non far ascoltare quella rabbiosa voce che si leva nella piazza teramana. Gli anarchici, prima dell'arrivo delle forze dell'ordine, si dileguano, non prima di aver affisso in piazza lo striscione e di aver abbellito con lanci di volantini e giornali l'asettica e pulitissima redazione in piazza.

Il giorno dopo, come nella migliore tradizione giornalistica, viene censurata sia l'azione degli anarchici sia la loro solidarietà.

Sabato 19, alcuni anarchici tornano in piazza per effettuare un semplice volantinaggio contro il silenzio della stampa e per rimarcare la loro solidarietà. A questo punto succede l'inverosimile: vengono fermati da tre volanti della polizia e portati di forza in questura. Qui un compagno viene interrogato e minacciato, un altro - incensurato ma sprovvisto di documenti - viene schedato con impronte e foto segnaletiche. Dopo quattro ore di fermo di polizia, gli anarchici vengono riaccompagnati nelle rispettive abitazioni e vengono effettuate cinque perquisizioni, per ricercare volantini e materiale cartaceo che possano provare il reato di “vilipendio delle istituzioni”.

Un buco nell'acqua. Tutto tempo sprecato. Bastava che ce lo chiedessero, perché noi, il vilipendio delle istituzioni, lo abbiamo fatto e lo continueremo a fare pubblicamente.

Ma non è finita, altre tre perquisizioni vengono eseguite Martedì 22 ottobre alle 7,30 presso le abitazioni di altrettanti compagni.

Questa buffonata repressiva ha motivazioni di vario genere: creare un clima di intimidazione ed eliminare ogni critica teorica praticata da chi non ha mai voluto trovar posto nella vasta popolazione dei rassegnati.

Non ci fermeremo.

Alcuni anarchici teramani


Viaggio senza tempo

Le hanno chiamate con poca originalità le nuove “Thelma e Louise” ma, forse proprio perché stanche di gustarsi le emozioni attraverso il copioso filtro della finzione, si sono spinte un po' più in là. Tre ragazze di un paesino del Michigan, due diciottenni e una tredicenne, hanno abbandonato la noia delle proprie vite di provincia e si sono lanciate con decisione in un appassionante viaggio senza tempo.

Con le idee chiare sulle proprie voglie e necessità non hanno esitato, pistole in pugno, a scavalcare le tediose contrattazioni per ottenere in questa avventura ciò di cui abbisognavano. E così, negli otto giorni in cui hanno tenuto in scacco trecento agenti e l'FBI di Michigan e Tennessee, si sono procurate auto, soldi, viveri e vezzi.

Nella rincorsa di un sogno - quello di vivere la propria vita concedendosi pienamente a se stessi - hanno dovuto però fare i conti con chi i sogni li spegne per mestiere. Dopo aver rapinato vari automobilisti, due supermercati e sparato ad un pedante cassiere, sono state fermate sotto la minaccia di essere massacrate a colpi di fucile a pompa. Nel bagagliaio dell'auto i resti delle loro ore rubate alla monotonia: latte, nutella, shampoo, biscotti, stivali da cowboy, compact disc.

Si sono arrese ma non parlano. Come per non coinvolgere nessun laido scribacchino o investigatore nei loro sogni incontrollabili, straripanti. Per non avere intrusi nei propri desideri.

Nel Michigan queste libertà che le tre ragazze si sono prese si pagano con l'ergastolo, senza distinzione per la minorenne. Molto probabilmente il viaggio sta proseguendo, perché non sono certo i limiti della giustizia a frenare il bisogno di libertà di queste e di altri individui.

Il notturno


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