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Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n.
18/89 del Tribunale di Cagliari
E' morto un uomo. Di fronte al portone di casa sua, in una mattinata di maggio di quasi venticinque anni fa. Solo che non è morto da solo, qualcuno lo ha aiutato; lo ha osservato, lo ha spiato, lo ha aspettato sotto casa - quella mattina - e gli ha sparato. Poi se ne è andato.
Nessuno ha mai saputo chi sia stato a premere il grilletto ma tutti sanno il nome dell'uomo che è rimasto steso sul marciapiede: Luigi Calabresi. Un uomo come tutti gli altri, ma che a differenza di altri faceva il commissario. E non un commissario qualsiasi: il commissario finestra, quello di Pinelli.
Niente di più limpido di questo omicidio, in quegli anni: la morte non è solo al servizio dei codici e del boia, non soltanto ti aspetta sotto le finestre di una questura. La morte, se ben ispirata, può cogliere anche quegli uomini che pensiamo tanto lontani al punto di trasformarli in simboli del potere. Ma che non sono simboli, loro sono gli uomini del potere, loro sono un pezzetto del potere, sono quel pezzetto che in un giorno di dicembre ti può arrestare e gettare da una finestra della questura. Non hanno niente della purezza dei simboli, che si odiano o che si amano a cuor leggero come gli eroi del cinema, ma tutto degli uomini, carogne come solo gli uomini sanno essere. Ma che, da uomini, possiamo odiare fino a farli rantolare su un marciapiede con del piombo in corpo, e andarcene senza dire una parola.
Forse è proprio questo vuoto di parole che spaventa, semplice ed essenziale come la traiettoria di un proiettile. Può suscitare cattivi pensieri fra gli sfruttati, può essere un cattivo esempio.
I giudici, per loro natura, hanno sempre pensato il silenzio come un contenitore pericolosamente vuoto, da riempire di parole e di sentenze. Per primo è arrivato Marino, l'infame, ad aiutarli. Ed ha raccontato di essere stato lui, in compagnia di un complice, ad aspettare il commissario sotto casa quella mattina, per conto del vertice di Lotta Continua. Benché smentito dalle circostanze e dai riscontri, alle sue pur pesanti parole si sono affiancate migliaia di pagine di atti e di sentenze. Sofri, Pietrostefani e Bompressi, accusati da Marino, sono stati assolti una volta e condannati due. Poi le sentenze sono state annullate e poi di nuovo sono stati condannati. Ora qualche giurato di quest'ultimo processo ha dichiarato di aver ricevuto pressioni da parte del presidente della Corte d'Assise, che già prima del processo raccontava nei salotti romani di voler condannare i tre (Marino, l'infame, è fuori perché il reato è caduto in prescrizione). Altre carte ed altre parole si aggiungeranno ancora a tutte queste: in gennaio si esprimerà la Cassazione e poi chissà chi altri ancora.
Ma il silenzio di quella mattina di maggio, mentre quell'uomo muore ed un altro uomo si allontana, continua a riempirci il cuore.
Il confine tra la vita e la morte è linea confusa e indefinibile, fascino spaventoso, non si lascia percepire se non accompagnato da un qualche sussulto di indicibile paura. L'idea della morte ci segue passo passo, per quanto la si sfidi a duello: la uccidiamo ogni giorno ed ogni giorno la vediamo risorgere. Il mantello nero e la falce della comare secca fanno capolino dalla nostra ombra e lo sappiamo - ma non sappiamo quando l'ombra prenderà definitivamente il nostro posto. La Signora ha abitudini bizzarre e non sempre si fa annunciare. A volte arriva cavalcando, tra squilli di tromba e rumori di battaglia, altre nel buio della notte e a nulla servono le mura delle nostre città.
Come liberarci del suo fiato, che batte sul nostro collo? Addomesticandola, trasformandola in una incombenza che è sì spiacevole, ma che non ci riservi troppe sorprese, che viva della nostra stessa logica: che faccia i suoi conti con la precisione inflessibile del ragioniere, che segua discreta prassi e codici, che faccia suoi protocolli coerenti - quali che siano. Quando la falce traccia nel suo movimento le linee precise del boia e del generale, quando disegna algoritmi da magistrati e parabole da curati, la mano che la regge è la nostra stessa mano, che ci fa meno paura e che chiamiamo giustizia: la morte cessa di farci da ombra perché oramai ci è dentro, da terrore cieco si è mutata nel placido scorrere della quotidianità.
La Chiesa, che con Signora morte ha una millenaria familiarità e che di morti se ne intende, ha sostituito la matematica dell'inquisizione con la grammatica della democrazia: la pena di morte - un tempo tanto amata sotto forma di roghi purificatori - non la si può più ammettere se non in casi particolari ed estremi. A detta degli emendatori del nuovo catechismo, infatti, solo quando i peccatori rappresentano un pericolo irriducibile per l'ordine pubblico; allora, il braccio secolare potrà entrare finalmente in azione e la falce potrà colpire le nostre paure.
C'è un uomo che, in Virginia, da dieci anni vive incalzato dalla morte: una morte di quelle pignole ed ostinate, che si intestardiscono sui particolari e sulla forma. La morte fu invocata dal pubblico ministero - grazie a qualche traccia di sangue ed alla testimonianza di un carcerato - per punire lo stupro e l'omicidio di una ragazza all'uscita di un bar. L'uomo è un mezzosangue irlandese e pellerossa con qualche precedente per scarso rispetto della proprietà.
Si seguono le procedure, si svolge il processo ed arriva puntuale la condanna. Passano gli anni e si scopre, grazie alla tenacia di Joseph O' Dell - così si chiama l'ostaggio della morte -, che il sangue trovato sui suoi pantaloni non è quello della vittima e che la testimonianza del suo ex-compagno di cella che lo aveva definitivamente incastrato era falsa, ispirata dal pubblico ministero in cambio di uno sconto di pena - prassi sempre più comune un po' dappertutto.
Per tutti, ora, Joseph O' Dell è innocente. Ma non per la morte, che ormai lo ha invitato a ballare per il 18 dicembre. La legge vuole che le prove presentate dopo 21 giorni dalla condanna non siano valide per dimostrare l'innocenza dell'imputato.
Per farci meno paura la morte si è laureata in legge: ci tiene ai cavilli, alle procedure, alle sentenze. é inflessibile e razionale.
Ha cambiato la falce con un codice ed il mantello con una toga ma, sotto la parrucca del giudice, è sempre lei.
S.V.
Nel paese più libero del mondo sono tanti. Cinque milioni solo in California, uomini e donne che non hanno di che sopravvivere. Qualche volta escono dalle statistiche e con la loro stessa presenza rendono un cattivo servizio ai centri commerciali, alle banche, ai negozi di lusso e agli uffici assicurativi. Una polizza sulla vita e, a fianco, la sopravvivenza di un digger, di un povero: in quest'immagine ce n'è per tutti, ce n'è per l'intelligenza, per il cuore, e per il braccio.
In California, e in particolare a San Francisco, nel biennio 1962-63 si era sviluppato un movimento di digger che, come pratica più nota, aveva quella di preparare e distribuire gratuitamente cibo nelle strade. Interi furgoni di merce regalata e in gran parte rubata arrivavano nei quartieri più poveri e la gente cominciava ad organizzare il pranzo. La pratica allargata del saccheggio e la festa della gratuità conducevano spesso e volentieri a scontri con la polizia. Questo movimento portò anche a contestazioni diverse, ma ciò che importa qui sono le mense nelle strade. Perché tale pratica non è scomparsa e ancor oggi, a San Francisco, occupanti di case, operai e, in generale, gente di quartiere si organizza - ognuno come riesce - perché tutti possano mangiare.
La legge ha posto un divieto che equipara la distribuzione del cibo alla manifestazione selvaggia. Come soluzione le autorità vorrebbero creare dei centri per i poveri, più adatti ai bisognosi e più tranquilli per la società. Ma i pranzi continuano, e con essi gli scontri, a volte violenti, con le forze dell'ordine e della miseria.
La gente può aver fame, è un suo diritto. Può anche - se ci riesce - mangiare, la legge non si oppone. Ciò che è vietato, è che si comprenda la possibilità di organizzarsi da soli, di sottrarsi all'assistenza e aprirsi alla solidarietà e alla ribellione. Insomma, che dal cibo si passi, senza polizze, alla vita. Questo terrorizza i padroni. La povertà - non più imprigionata nei numeri governativi e tra le sanguisughe del servizio sociale - potrebbe apparire dietro l'angolo, a portata di mano.
Proprio come i forzieri della ricchezza.
Massimo Passamani
La scuola è palestra di sottomissione per migliaia di vite, quelle degli adolescenti che vi entrano per lasciarci ogni giocosità, ogni fantasia. é una fabbrica che produce cittadini, ometti inclini al rispetto delle regole della vita civile, seri ed educati portavoce della frustrazione democratica. é quindi necessario che questo luogo dell'autorità sia supercontrollato. E, come qualcuno ha già pensato, nella fattispecie la provincia di Ferrara, non bastano più gli occhi dei bidelli, lontano dall'essere infallibili. Se gli sbadigli e le cispe di questi, fino ad ora, permettevano di sorridere velatamente sul loro ruolo di sbirri, d'ora in poi un occhio ben più integerrimo sarà destinato alla vigilanza degli studenti: la tecnologia. I futuri ragionieri dell'istituto Vincenzo Monti di Ferrara, in virtù di una delibera dell'amministrazione provinciale, saranno tenuti d'occhio grazie ad un sistema a circuito chiuso di telecamere, a microfoni posti in prossimità degli ingressi che ascolteranno le chiacchiere fuori dalle aule e a citofoni in ogni dove. Una soluzione già adottata all'Iti di Cento, come fa notare qualcuno, che c'è da meravigliarsi?
Niente, dico io. Tanto che gli studenti, a parte una timida protesta, non sembrano troppo infastiditi dai controlli pedanti cui vengono sottoposti, si limitano a rivendicare l'umanità dei rapporti coi bidelli fatti di carne, che considerano amici e magari una sola telecamera all'ingresso. Fortunati bidelli, dal momento che il loro ruolo è sempre stato quello dei denunziatori. Insomma, la solita solfa. Un po' tutti indignati per questo provvedimento, educandi, partiti in cerca di giovani adepti, genitori, ma nessuno che muova una parola sul concetto di controllo. Quel controllo indispensabile quando è in atto la barbarie dell'educazione. é come sostituire la penna stilografica con il computer sottolinea il provveditore. D'accordo, signor boia, pienamente d'accordo.
Quello che rimane, come sempre, è la schiavitù.
Cacciucco
28 ottobre - Sasso Marconi (Bo). Per impedire che carabinieri e vigili del fuoco domassero il bell'incendio che stava divampando in un capannone di proprietà di un'opera pia, un giovane ha aggredito con un bastone i militi, ferendone uno e danneggiandone l'auto.
29 ottobre - Sasso Marconi (Bo). Terzo ufficio dell'anagrafe svaligiato. Nottetempo i razziatori si sono impossessati di 8750 cartellini delle carte d'identità in bianco.
29 ottobre - Firenze. Armati di fiamma ossidrica, seghetti e piede di porco, tre quattordicenni hanno ripulito un negozio d'armi giocattolo. Ad attenderli, all'uscita, la polizia.
30 ottobre - Sesto (Fi). Nel corso del fine settimana si allunga la catena dei numerosi atti vandalici e dei furti compiuti nottetempo negli edifici scolastici del luogo.
30 ottobre - Leland (Mississippi). L'ennesimo assassinio di un automobilista da parte della polizia ha scatenato la rabbia di centinaia di persone che per una notte intera hanno preso d'assalto la locale stazione della polizia, lanciando molotov e sfasciando le auto di servizio.
30 ottobre - Catania. Un falso allarme bomba dato telefonicamente ha interrotto per due ore le attività del Palazzo di giustizia.
31 ottobre - Pinerolo (To). Nel corso della mattinata sono state forate un centinaio di gomme alle auto parcheggiate nella piazza centrale, proprio davanti al comando dei Vigili urbani.
1 novembre - Bunuel (Spagna). Un'autobomba è esplosa davanti a una caserma della Guardia Civil, causando gravi danni e tre feriti lievi.
1 novembre - Aosta. é durata solo poche ore l'evasione di un detenuto, fuggito dall'ospedale dove era stato ricoverato.
2 novembre - Bilbao (Spagna). Dopo aver fatto scendere i passeggeri, un gruppo di uomini mascherati ha dato alle fiamme alcuni vagoni di un treno.
3 novembre - Levie (Corsica). Nella notte sono state fatte saltare in aria le due macchine di proprietà del sindaco del paese e della gentile consorte.
3 novembre - San Severo (Fg). Esasperati per le disfunzioni dei servizi ferroviari, decine di persone hanno bloccato per tre quarti d'ora la locale stazione sdraiandosi sui binari.
3 novembre - Aix-en-Provence (Francia). Una forte esplosione ha causato seri danni all'ufficio postale cittadino, distruggendone completamente l'ingresso. Il regalo arriva alla vigilia del summit franco-spagnolo in programma a Marsiglia.
3 novembre - Scandicci (Fi). Qualche birbone in vena di scherzi ha pensato bene di sostituire la bandiera del Comune, che svettava sul municipio, con un cartello stradale: quello di rimozione forzata.
"Ma lontano dal nostro anarchismo sono pure gli espropri e le azioni violente che mettono a rischio la vita delle persone e più in generale la teoria e la pratica dell'illegalismo a tutti i costi. Tali azioni sono in palese contrasto con lo spirito antiviolento malatestiano che abbiamo fatto nostro
(da Germinal, numero 71/72, pag. 26)
La più grande disgrazia che possa capitare a un uomo dotato di qualche qualità è di essere circondato da seguaci. Finché resterà in vita sarà perennemente costretto a vigilare perché nessuna sciocchezza venga detta o commessa in suo nome, fatica che sarà comunque resa inutile quando, alla sua morte, gli adepti si accapiglieranno per portare avanti il cammino da lui intrapreso. I seguaci non sono mai all'altezza del proprio maestro, giacché solo chi è privo di idee proprie va a rimorchio di quelle altrui - diventandone appunto un seguace. Così, non solo i seguaci si dimostrano del tutto incapaci a far progredire quanto già iniziato ma, proprio perché privi delle qualità di chi li ha preceduti, arrivano facilmente a travisare e a tradire le idee che affermano di sostenere.
Questo fenomeno, di per sé deprecabile, assume tratti a volte grotteschi e persino spassosi, soprattutto quando l'infelice maestro è un anarchico, cioè un individuo nemico di ogni autorità e quindi contrario per principio allo spirito gregario. Eppure, chi può negare che anche all'interno del movimento anarchico si siano verificati simili casi? Per non andare troppo lontano, basta pensare a Errico Malatesta, il più famoso anarchico italiano.
Tutti gli amici e gli studiosi del pensiero di Malatesta hanno dovuto convenire su un fatto. La sua unica preoccupazione, il suo unico desiderio, in tutta la sua esistenza, è stato quello di fare la rivoluzione. Per Malatesta non c'erano dubbi: gli anarchici sono tali perché vogliono l'anarchia, e l'anarchia è possibile realizzarla solo facendo la rivoluzione, una rivoluzione che non può non essere violenta ed il cui primo passo è l'insurrezione. Sembra una banalità, e infatti lo è, eppure è una banalità che molti anarchici tendono ad allontanare da sé con un senso di fastidio.
Scriveva Luigi Fabbri: L'insurrezione è il fatto necessario e imprescindibile di ogni rivoluzione, il fatto concreto attraverso il quale questa diventa realtà per tutti. Da qui l'avversione di Malatesta per tutte le teorie e i metodi tendenti, direttamente o indirettamente, a screditarla, a stornare da essa l'attenzione delle masse e l'attività dei rivoluzionari, a sostituirla con mezzi apparentemente più comodi e pacifici.
Non semplice rivoluzionario, giacché tutti possono dirsi rivoluzionari, solo che usino la prudenza di rimandare a tempi lontanissimi (a tempi maturi, come dicono) l'attuazione dei cambiamenti auspicati, Malatesta fu soprattutto un insurrezionalista, in quanto la rivoluzione - una rivoluzione intesa nel senso di cambiamento violento, fatto per forza contro le forze conservatrici, ed allora implica lotta materiale, insurrezione armata, con il corteggio di barricate, bande armate, sequestro di beni della classe contro cui si combatte, sabotaggio dei mezzi di comunicazione, ecc - la voleva fare subito, non in un futuro lontano e indefinito. Subito, al più presto possibile, non appena si fosse presentata l'occasione, un'occasione che, se non veniva da sé per fatti naturali, doveva essere creata appositamente dagli anarchici.
Sì, lo so, chi non conosce certe critiche fatte da Malatesta alla violenza, e le polemiche che ebbe al riguardo con Emile Henry o con Paolo Schicchi? Tuttavia Malatesta non negava la legittimità e anche la necessità dell'uso della violenza in sé, era solo contrario ad una violenza che colpisce alla cieca, senza guardare a rei o innocenti. Non a caso, l'esempio di violenza cieca che era solito fare è quello della bomba che esplose a Barcellona nel corso di una processione religiosa, causando quaranta morti e numerosi feriti. Ecco perché non poteva avere critiche da fare nei confronti di quelle azioni rivolte contro un obiettivo preciso senza conseguenze su persone estranee. Infatti, nel corso di una sua famosa intervista concessa a Le Figaro, all'intervistatore che intendeva sollecitarlo a disapprovare le bombe di Ravachol e del boulevard Magenta, Malatesta rispondeva: La vostra conclusione è affrettata. Nell'affare di rue Clichy mi par bene che si sia voluto far saltare il magistrato; ma deploro che si sia agito - ben involontariamente, io credo - in maniera da ferir gente a cui non si pensava. Quanto alla bomba del boulevard Magenta - oh! per quella non ho alcuna riserva da fare! Lherot e Very si erano fatti complici della polizia ed è stato atto di buona guerra il farli saltare.
Appare chiaro che tutte le discussioni, tutte le polemiche avvenute in quegli anni lontani - che oggi alcuni anarchici puntualmente ripercorrono per spacciarci l'immagine di un Malatesta antiviolento - non avevano affatto come oggetto l'utilizzo in sé della violenza, ma solo il limite che non si può superare senza mettere in discussione gli stessi principi dell'anarchismo, o tutt'al più quei limiti suggeriti da considerazioni di ordine tattico.
Ma lasciamo perdere il fosco fin del secolo morente e le polemiche che allora imperversavano nel movimento anarchico, e veniamo ad oggi. Dato che nessuna azione esplosiva rivendicata da anarchici in questi ultimi anni si può considerare compiuta in maniera cieca e insensata, anzi potendosi ben dire che tutte si sono caratterizzate per essere state indirizzate contro strutture del dominio, senza mettere a rischio la vita delle persone, come si può giustificare il ripudio di queste azioni da parte di certi anarchici? Sicuramente non prendendo a prestito il pensiero di Malatesta, giacché affermare che esiste un limite all'uso della violenza non significa dire che non bisogna mai ricorrervi.
Non serve ricorrere ai morti per giustificare la propria ignavia.
Penelope Nin
Si sacrificano sull'altare della produzione i laboriosi abitanti del nord-est d'Italia - così impegnati nel creare il loro piccolo miracolo economico casalingo - ma corrono il rischio di restare, nei pochi momenti liberi che il lavoro concede loro, ad interrogarsi sulla propria nullità. Meglio quindi affogare le frustrazioni in quello che del lavoro è il compendio: il tempo libero mercificato.
Soldi per comprarsi qualche attimo di surrogato d'amore non mancano e, sulla strada, la merce abbonda. é proprio questa ben visibile ed inequivocabile presenza a creare un'allarmante questione di decoro: se di certe cose non si può fare a meno, almeno le si releghi lontano dagli occhi innocenti e dalle persone dabbene. Così a Verona una mozione del consiglio comunale propone di abrogare la legge Merlin - responsabile, con la chiusura delle case chiuse, di aver abbandonato nella morsa del peccato la pubblica via - e di istituire discrete, redditizie, igieniche zone dell'amore, a pagamento s'intende.
Bisogna dividere, controllare, schedare il meretricio, cruccio di tanta gente pia, la stessa gente che poi lo alimenta. Bisogna rinnegare pubblicamente l'aspirazione segreta della propria impotenza, per questo è pronto un esercito di giullari: moralisti analfabeti, comparse indignate, integralisti da operetta, medici fascisti, pennivendoli servizievoli.
L'apparenza, il decoro per coprire i propri affari - questo il motto del potere locale che, da anni alle crociate contro ogni forma di diversità, sfodera i suoi argomenti da cortile. Guai a chi osa mettere in luce il loro riflesso grottesco. Ne sanno qualcosa due anarchici, attacchinatori di un falso manifesto che, riportando alla lettera le dichiarazioni di alcuni consiglieri comunali, dichiarava l'apertura dei campi di concentramento per omosessuali; possono fregiarsi di essere le uniche persone contro le quali il sindaco si sia mai costituito parte civile in un procedimento penale.
Con progetti faraonici, belletti e strette di mano, tirate a lucido la vostra città del profitto. Ogni vitale tensione volete bandire, ogni diversità escludere, ogni crepa stuccare, i lampi isolati che disturbano i sonni soffocare. Ignari, vi credete al sicuro dietro le mura della vostra operosità, un sol impeto di passione basterebbe all'istante a farle crollare.
Pixie
Lanciato dagli ambienti yankee-dipendenti, il vocabolo gay si è rapidamente imposto in un mondo descritto sempre più in chiave eufemistica, che trasforma i ciechi in non-vedenti, i nani in persone di piccola taglia e gli obesi in portatori di adipe. Lo scrupolo morale o religioso attenua i riferimenti a realtà fisiche troppo brutali e mette l'anestesia generalizzata al servizio del dominio.
Sono finiti i tempi in cui un ragazzo poteva dare uno scossone a papà e far gemere mamma confessando che adorava succhiare cazzi, quando gli inculati felici di esserlo prendevano alle spalle il machismo dei militari e dei militanti. Oggi che il giovane amante di falli suscita al massimo la vischiosa comprensione dei suoi genitori in via di separazione, i gay vogliono sposarsi, preferendo contrarre una unione civile a una di fatto, vogliono avere dei figli e arruolarsi nell'esercito, vogliono condurre insomma una vita normale, come tutti gli altri.
Perfezionando la propria adesione all'abiezione ordinaria, il capobastone dei gay italiani più moderati, il presidente dell'Arcigay Franco Grillini, ha annunciato che solleciterà la nascita di gruppi tematici in tutti gli ambiti della vita sociale e culturale: speriamo infatti che fioriscano gruppi gay in fabbrica, nelle scuole, nei partiti, nei sindacati e, perché no, nella polizia e nella parrocchia. Questa dichiarazione è stata rilasciata al termine dell'ultimo congresso della maggiore associazione omosessuale italiana, che ha sancito la separazione dell'Arcigay dall'Arcilesbica. Quest'ultima ha infatti manifestato l'esigenza di dar vita a una organizzazione distinta con un proprio statuto e propri organi dirigenti. A queste due organizzazioni si affiancheranno man mano quella dei transessuali ed altre, fino a creare una vera e propria federazione di movimenti.
In altre parole questi gay con queste lesbiche con questi altri rivendicano l'orgoglio di essere dei coglioni come tutti gli altri. Proposta accettata.
Maria Zibardi
Ora non servono più. Sono vecchi, hanno i capelli imbiancati, l'andatura incerta e si nutrono di minestrine. Di solito sono un peso, per i parenti e per la società, che preferiscono sbarazzarsene rinchiudendoli in quei depositi chiamati ospizi. Sono diventati inutili arnesi, non più produttivi per la collettività. Dopo una esistenza fatta di sacrifici possono ben meritarsi la tranquillità dell'agognata pensione, in attesa del riposo eterno.
Qualcuno di loro però non si rassegna a considerarsi finito allo scoccare dell'ultimo minuto di lavoro, ha deciso di esserci fino all'ultimo respiro e non sa che farsene di un miserabile vitalizio statale. Come quei tre anziani che - non ritenendosi sufficientemente appagati dalla vita - hanno dato un calcio alla quiete promessa dalla società civile e hanno svaligiato pistola in pugno una banca nel centro di Trieste, portandosi via 140 milioni dopo aver immobilizzato quindici clienti, gli impiegati e il direttore. Alla pace dei sensi hanno preferito l'impeto della vita, all'assennatezza propria dell'età hanno scelto l'improntitudine di chi non si è fatto fermare dal tempo.
E se qualcuno avesse qualche dubbio sulla bellezza di un simile gesto significa che si è già fatto catturare. Meglio per lui continuare ad alimentarsi col brodino caldo garantitogli dalla pensione.
P.N.
Sicuri e veloci, freddi nella determinazione dei pochi gesti necessari, i facitori di sentenze si accingono a salire sul palco dell'esecuzione. Il relitto delle loro deduzioni logiche è in vista del porto, dovendo attraccare alla conclusione della tomba: sigillo mortale per alcuni individui chiusi in una gabbia, disposti a guardarli negli occhi, intenzionati a far loro capire quanto grande possa essere la distanza tra la fierezza della vita e l'orrenda bruttura delle alte opere di giustizia.
Ma la forza dell'esecutore è tutta nella propria idiozia, nell'impossibilità di capire cosa sta dietro la sottile paratia di sicurezza dei codici e dei fatti, delle testimonianze e dei verbali. Se solo egli potesse aguzzare la vista, spingersi sulle dita dei piedi e guardare un poco più lontano. Vedrebbe subito quante bramosie di carriera, quante piccolezze da corridoio, quante ignoranze e paure da piccoli, indaffaratissimi mezze maniche stanno dietro tutto quell'apparato freddamente cosciente di sé. Vedrebbe e si ritrarrebbe inorridito. Vedrebbe infatti l'immagine di se stesso, del proprio fare quotidiano, nelle cose dello specifico giudiziario, ma anche in quelle apparentemente lontane, ma non tanto, di tutti i giorni, cui ognuno attende nella fondatezza della propria dirittura morale: la scuola dove insegna, l'ufficio dove accumula stipendi e delusioni, la fabbrica dove produce pezzi di un macchinario privo di senso. E vedrebbe anche la miseria della propria morte, come conclusione logica della miseria della propria vita, quella in questa presente e inevitabile, e se ne sentirebbe soffocare.
Molto più facile ritirare la testa fra le spalle, pensare che si è fatto il proprio dovere, che è giusto che criminali di quella fatta stiano per anni e anni dentro un carcere.
D'altro canto, cos'altro si potrebbe fare? Volete mettere quelle numerose contraddizioni, apparse nel corso del dibattimento di primo grado, a paragone delle figure degli accusati: anarchici e ancora anarchici, insolenti anarchici. Che gente! Certo, ci sono anche anarchici per bene, e tanti, ma questi non sembrano tali, quindi non possono esserlo. Tanto vale allora accettare per buone le supposizioni dei carabinieri e dei pubblici ministeri, e se più di una volta questi hanno aiutato la realtà a farsi più convincente, non si è trattato in fondo che di un aiuto alla chiarezza, non certo di un imbroglio. Così si diranno i signori giudici, avvolti nella toga, e le comparse in abiti civili, così si diranno e il loro cuore di coniglio tremerà un pochino, ma solo un poco, forse nell'incertezza di un attimo. Poi penseranno: gli anarchici, che cosa mai vogliono costoro se non l'abolizione del potere, quindi di quello strumento che ci permette di stare seduti sulle sedie che oggi occupiamo? E se il nostro giudizio potesse essere utile anche per il futuro, se potesse aiutare altri nostri colleghi a salvaguardare la società dalla protervia di questi individui? Che cosa importa se la confessione della pentita è stata visibilmente elaborata da qualcun altro, se costei non ricorda altro che i nomi di chi deve accusare, se non ricorda nemmeno come era vestita quel giorno in cui avrebbe compiuto la rapina insieme ai suoi accusati, né cosa ha fatto all'interno della banca. Aspetti marginali, forse concluderanno, di fronte alla parlata suadente del pubblico ministero, e si rassicureranno. E poi tutti avranno materia per discutere la sera, accanto alla televisione, con gli amici e i parenti che li ascolteranno a bocca aperta, chiedendosi cosa avranno mai provato quando pronunciavano la sentenza che chiudeva la porta del carcere dietro le spalle di esseri umani desiderosi, come tutti, della libertà e della vita.
Quindi si addormenteranno, soddisfatti di aver compiuto il loro dovere.
Il pretesto iniziale viene fornito il 19 settembre 1994, con l'arresto di cinque anarchici (Eva Tziutzia, Jean Weir, Christos Stratigopulos, Antonio Budini, Carlo Tesseri) per la rapina di una cassa rurale a Serravalle di Trento. Condannati con sentenza definitiva - a 4 anni Carlo e a 3 anni e 4 mesi gli altri - vengono poco dopo accusati di essere i responsabili di altre due rapine avvenute nella stessa zona qualche mese prima. Il processo di primo grado comincia il 13 ottobre 1995 e si protrae con lunghe incomprensibili pause - evidentemente utili per istruire la pentita, che spunterà fuori dal cappello dei giudici solo il 9 gennaio (nonostante collabori con loro dal lontano aprile 1995), e per allestire tutti gli elementi utili all'accusa - fino al 31 gennaio 1996, quando viene pronunciata la sentenza di colpevolezza per Jean, Antonio, Christos (6 anni e mezzo di reclusione) e Carlo (7 anni). Fra una pausa e l'altra di quel processo, il sost. procuratore di Roma Antonio Marini ordina una sessantina di perquisizioni e invia altrettanti avvisi di garanzia per reati di ogni genere.
Si cominciano a delineare più chiaramente le intenzioni degli inquirenti: eliminare quanti più individui ritenuti scomodi e fastidiosi per l'ordine costituito. A tale scopo raccattano le scartoffie di tutte le inchieste che hanno coinvolto anarchici negli ultimi dieci anni (da rapine ad attentati fino a sequestri di persona, passando per falsificazione di biglietti ferroviari e occupazioni abusive di edifici), le cuciono insieme e formulano un bel castello accusatorio per una sessantina di anarchici. Il 17 settembre 1996 firmano 29 ordini di custodia cautelare e chiedono il rinvio a giudizio per 68 indagati, fissando l'udienza preliminare per il prossimo 10 dicembre a Roma.
L'intelaiatura del teorema accusatorio si basa esclusivamente sulle dichiarazioni della collaborante Mojdeh Namsetchi - l'ex ragazza di Carlo Tesseri -, da lei sottoscritte ma elaborate senza ombra di dubbio dai pubblici ministeri. Ma questa ragazza e gli inquirenti romani nulla avrebbero potuto, se non avessero trovato l'accondiscendenza del Tribunale di Trento che, servizievole come un maggiordomo, ha dato credibilità alle ìrivelazioniì dell'infame ragazza emettendo lo scorso 31 gennaio quel verdetto di colpevolezza che ora dovrà venir ridiscusso nel processo di appello. Processo che si terrà Giovedì 7 novembre alle 9 presso la corte d'Appello del tribunale di Trento.
(Dall'interrogatorio di Mojdeh Namsetchi del 18 maggio 1995)
Intendo riferire che un altro sistema per reperire fondi per l'organizzazione era rappresentato dalla falsificazione dei biglietti ferroviari. Si acquistavano, cioè dei biglietti ferroviari per brevi tratte; poi si contraffacevano, cancellando con la gomma pane la tratta indicata nel biglietto sostituendola con una tratta più lunga. Poi si andava alla Stazione Termini e ci si faceva rimborsare il biglietto, conseguendo così un profitto che era rappresentato dalla differenza tra la somma erogata per l'acquisto per la tratta più breve e la somma riscossa per la tratta più lunga. Naturalmente il biglietto non veniva utilizzato se non per ottener in questo modo il rimborso; a volte per ottenere il rimborso si utilizzavano documenti falsi. Ricordo che tale sistema è stato usato per presunti viaggi all'estero, ricordo che una delle città più indicate era Londra. Altre volte tale sistema veniva utilizzato per viaggiare in treno, anche durante le occasioni in cui ci spostavamo per andare a commettere le rapine, alludo in modo particolare alle rapine commesse a Milano, a Ravina e Rovereto. Insomma tutte le volte che viaggiavamo in treno, ci recavamo in una agenzia dove acquistavamo un biglietto per una breve tratta, poi cambiavamo con il sistema sopra descritto l'indicazione originaria del percorso ferroviario con quello che effettivamente dovevamo fare. E così facevano anche altri appartenenti alla organizzazione.
A suivre
La osservo con attenzione. Mi capita spesso di farlo. Non più alta di due metri, non più larga di un metro. In basso una piccola presa d'aria, in alto uno spioncino. Mani sovrapposte di tinta blue oltremare non riescono a cancellarne completamente il suo colore originario: il grigio, molto più consono a questo ambiente. Nessuna serratura all'interno. D'altronde, a cosa servirebbe? Lo spioncino ha su di me un effetto particolare. Quando è abbassato, la visione parziale del corridoio che mi consente la trovo di gran lunga preferibile a quella che ho se mi affaccio al finestrone e dalle grate osservo l'esterno. Da questa piccola feritoia osservo i volti che scivolano via, ognuno con i suoi pensieri, le sue emozioni. Da questa feritoia una mano, non certo amica, mi passa quotidianamente la posta. Quante cose mi aspetto da questa piccola feritoia. Dicevo: niente serrature all'interno. Ma, l'altro giorno, per la prima volta, ho osservato la mano dell'uomo in divisa che, afferrata una enorme chiave, lunga quanto un pene, la inseriva nella toppa. Allora, e solo allora, mi sono accorto, con meraviglia, che la corona che contorna la serratura, recava impressa una scritta: Egeo Marsilii - Impianti di sicurezza - Pescara, Italia. A suivre.
Salvatore Gugliara
Sono stati concessi gli arresti domiciliari a Salvatore Gugliara. Pare che lo stesso Pm Marini si sia espresso a favore di questa misura per tutti gli anarchici detenuti che non siano stati incriminati per reati specifici. Pina Riccobono continua nel suo sciopero della fame.
Per corrispondere con gli anarchici detenuti a Rebibbia, l'indirizzo della sezione maschile è via Raffaele Majetti 165, quello della sezione femminile è via Bartolo Longo 92 - 00156 Roma.
* Sabato 2 novembre, a Rovereto, è stato arrestato il compagno anarchico Guido Ceragioli, su cui pendeva una vecchia condanna a 15 giorni di reclusione per disobbedienza, relativa al periodo in cui era detenuto per obiezione totale al servizio militare. Guido si trova attualmente nella casa circondariale di via Pra-ti 4, 38068 Rovereto (Tn).
* Venerdì 22 novembre, alle 12, si terrà presso il Tribunale militare di Torino l'udienza preliminare del processo contro l'anarchico Luca Bertola, reo di mancanza alla chiamata.
* Il 28 novembre si svolgerà a Roma l'ultimo grado del processo sul sequestro di Mirella Silocchi, nel corso del quale la corte di Cassazione dovrà pronunciarsi circa la validità della sentenza del processo d'Appello che condannò a pesanti pene detentive anche alcuni anarchici.
Un agente della Squadra Mobile di Aosta, Lucio Cioffi, esperto nella predisposizione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, si è impiccato giovedì scorso con la propria cintura. Lascia nel dolore la moglie, due figlie e i suoi colleghi poliziotti. Mentre tutti si perdono in congetture sul significato di questo gesto esemplare, noi desideriamo salvare dall'oblio il nome di quest'uomo onesto.
Mi rifiuto di restare a guardare ancora. Non voglio più assistere a tutta questa violenza gratuita, generata dalla loro pratica inquisitoria e terroristica. Strumentalizzata dentro le trame di teoremi grotteschi e accurate dissertazioni criminalizzanti, inventori geniali nientemeno di un'inesistente banda - armata poi! Basta. Non attenderò in silenzio di vedermi personaggio involontario del loro progetto di celebrità. La mia identità d'anarchica non vacilla sotto le loro abituali e rinnovate persecuzioni autoritarie. Il mio percorso individuale non s'arresta.
Consapevole che il mio agire è, per ora, circoscritto, dichiaro oggi lo sciopero della fame.
Rebibbia 23 ottobre
Giuseppina Riccobono
Il Tribunale dell'Aja per crimini di guerra li cercava perché responsabili del genocidio di musulmani e croati. Sono quattro, tra i quali due ex comandanti di campi di prigionia, e non hanno faticato molto per nascondersi, stando ai fatti. Uno di loro, l'ex comandante del famigerato campo di Omarska, è diventato il vice capo della polizia della Repubblica serba di Pale. Stando agli accordi di Dayton per la Bosnia, i quattro addirittura non dovrebbero ricoprire incarichi pubblici. Ma se persino il loro leader Ratko Mladic, il macellaio di Srebrenica, si è autoproclamato, oltre che capo dell'esercito anche capo della polizia, non si vede perché dovrebbe essere differente per loro: vogliamo buttare via tanta esperienza da sbirro verificata sul campo?
Allo sbigottimento dei commenti sull'accaduto fa da contraltare una notizia da Torino.
Sull'onda del processo Priebke, la Procura militare indaga su una serie di eccidi d'antiquariato, tra i quali quello di piazzale Loreto, avvenuto a Milano nell'agosto del `44. Dopo un attentato, quindici ostaggi italiani vennero fucilati da un plotone di repubblichini. Il capitano tedesco che li comandava è stato individuato. é un ottantenne che vive in Germania, ed è stato per anni un alto funzionario di polizia. Evidentemente anche per la democraticissima Germania postbellica, come per l'Italia, come per il resto dell'Europa liberata, simili professionisti rappresentano merce preziosa.
Certo, giustizia sarà fatta. Ci saranno voluti cinquant'anni (i fascicoli erano a Roma sino a pochi mesi fa), ma ogni cosa andrà al suo posto, in un modo o nell'altro. Vorremmo solo essere sicuri che non sia in corso un processo di beatificazione anche per Herr Sawecke - una figura esemplare di dedizione e lealtà.
In fondo, coloro che svolgono ininterrottamente il proprio lavoro sotto ogni tipo di regime, con la soddisfazione di essere sempre pronti ad obbedire a qualsiasi bandiera, vanno premiati. Ora e sempre.
M.S.
C'è chi, in cambio di una misera paga, accetta la galera del lavoro con rassegnazione. C'è chi per il lavoro nutre una grande passione e, sempre in cambio di uno stipendio, è disposto a sacrificargli ogni momento della sua vita. Così, in cambio di un salario più alto e di qualche privilegio, Vadimir Nechai - fisico nucleare - assieme ad altri insigni colleghi si fece seppellire vivo fin dal 1958 nel Centro federale studi atomici, altrimenti detto Celjabinski-70, negli Urali, col dovere di dedicarsi in reclusione assoluta allo studio di armi sempre più potenti. Rintanato in una delle tante città chiuse, identificata soltanto da una sigla, al servizio del segretissimo arsenale atomico. Ma a causa del crollo dell'impero sovietico, e soprattutto della conseguente crisi economica, anche gli animi dei lavoratori più servili, non più retribuiti per la loro esistenza sacrificata allo Stato, si sono esasperati.
Così Vladimir Nechai, divenuto nel 1988 direttore del centro nucleare, non reggendo più lo stress, il senso di impotenza e la rabbia di non essere pagato la miseria di mille dollari da più di cinque mesi, si è fatto esplodere il cranio. La città-bunker non gli offriva neanche la possibilità di cambiare attività: o fai lo scienziato o muori e lui, invece di fuggire, come altri suoi colleghi, a vendere alle potenze occidentali il proprio cervello, se l'è fatto saltare in aria.
Meglio così, dico io. Almeno non potrà più contribuire al buon funzionamento di quell'industria di morte lenta che è il lavoro. Per di più quel cervellone era un patriottico progettatore di micidiali ordigni, disprezzabile al pari dello statista che li ordina, del banchiere che li finanzia, del militare che li sgancia.
La crisi economica russa, fra l'altro, colpisce tutti gli schiavi della società. Minatori, insegnanti, medici, militari in fermento, rumoreggianti, che minacciano rivolte contro il governo di ladri e incapaci, convinti che un regime militarizzato ancora più di quanto lo sia già possa ripristinare il perfetto funzionamento della galera quotidiana.
C'è pure chi stringe i denti, inerme, impotente, come i cosmonauti rinchiusi nella stazione orbitante Mir il cui cesso è stracolmo di rifiuti organici perché le autorità di Mosca, sempre a causa dell'incolmabile deficit, hanno cancellato i viaggi delle navette che dovevano cambiare il deposito della merda spaziale.
E mi pare sia proprio la merda ad accomunare tutto questo misero spettacolo. Quella della rivendicazione quotidiana del lavoro, quella schizzata fuori dalla testa del fisico nucleare suicida, e quella nella quale i sudici cosmonauti sono lì lì per affogare.
Alx
La confederazione elvetica è famosa nel mondo per i suoi orologi - gioielli che nella perfezione trovano la loro forza, ma, in fondo, anche la loro fragilità, dato che persino la rottura del più piccolo tra i numerosissimi ingranaggi basta a trasformare un meccanismo sofisticato in un rottame.
Una rotellina impazzita può creare ovunque squilibri: pensate ad esempio quale catena di danni ha innescato un invisibile batterio all'immagine patinata del paese alpino.
I fatti. Le mucche svizzere, che vediamo in cartolina mentre liberamente pascolano sui verdi prati, sembra che siano state nutrite con qualcosa di diverso dal foraggio, finendo con l'ammalarsi di quel morbo notoriamente detto della mucca pazza. L'autorità ha deciso quindi di abbattere 250.000 capi infetti, mettendo in difficoltà un sistema indeciso su chi dovrà fare le spese di questo evento tragico: i cittadini mangiandosi la carne infetta, gli allevatori perdendo il bestiame, oppure il governo rimborsando loro le perdite. Da un problema se ne crea un altro, e da questo un altro ancora; gli allevatori, scesi nelle strade di Berna per una vivace protesta, vengono tacitati col getto di idranti che spruzzano insieme ad acqua di fonte una sostanza chimica che provoca ustioni anche gravi - sostanza per colmo di ironia proibita dalla convenzione di Ginevra, ma autorizzata dalla commissione tecnica delle forze di polizia. La carenza cronica di rivolta non aveva potuto prima d'ora metter in luce un aspetto segreto del dorato paese dei forzieri: gli sbirri qui, nelle rare occasioni che si presentano, utilizzano gli stessi brutali sistemi delle peggiori dittature. Piccole crepe cominciano ad evidenziarsi sulla superficie del marchingegno pacificatore del dominio.
Baraban
Carlo Frontone
De Gustibus disputandum est
Il rovescio, Roma 1996
pagine 56, lire 4.000
"Chi desidera e non agisce ammorba. Il libro di Frontone - il primo testo di una collana che s'intitola significativamente Gli intolleranti - si apre con questa revolverata di William Blake. Non a caso, perché il pamphlet è un attacco contro la sacra indiscutibilità dei gusti dietro la quale la democrazia, con il pretesto di salvaguardare la libertà di scelta, realizza il più totalitario livellamento dei desideri.
Il precetto non si deve discutere dei gusti è diventato la giustificazione della miseria quotidiana, della continua guerra mossa all'intelligenza, della sofisticazione dei cibi e di ogni nocività sociale e ambientale; insomma, del ricatto e della soggezione. In nome dell'indice di ascolto e delle statistiche mercantili, il condizionamento psicologico e il controllo poliziesco si presentano come bisogni, oggettivamente documentabili, degli spettatori e dei consumatori, di quella bestia collettiva, anonima ed addomesticata che è il pubblico. I gusti, separati dagli individui concreti, circolano come merci. Le cause di questo spossessamento si allontano in un tutto misterioso e le responsabilità si assottigliano. Venduta la capacità di pensare e di agire, si può comperare qualsiasi cosa. Si può trovare, fra tanti, il proprio canale televisivo preferito, oppure, meno dogmatici, passare ininterrottamente da un programma all'altro. L'ideologia della tolleranza offre a questo spettacolo la sua base morale: l'insindacabilità delle scelte. Nessuna critica è permessa. Ognuno per sé e l'audience per tutti.
Frontone, fuori dal coro, sostiene che il pubblico è una creazione preventiva della politica e dell'economia cui politici ed economisti fanno poi ritorno per confermare quello che già hanno deciso. Prima si preparano le risposte, poi si fanno le domande. Meglio, si impongono domande che hanno in sé le proprie risposte. Il parallelo tra le elezioni e le indagini di mercato salta agli occhi. Quando lo Stato si prepara a legittimare il proprio potere, si fa chiamare popolo sovrano. Allo stesso modo, il capitale ha bisogno, per dominare l'individuo, della sovranità del consumatore. Quella che si chiama scelta e che si ammanta di sacralità è una simulazione con cui si ribadisce soltanto l'impotenza di determinare la propria vita, di sottrarla alla tirannia del Numero e alla gerarchia della merce. Ed è proprio questa impotenza che ammorba l'aria. Ogni altro inquinamento è in fondo un corollario, un dettaglio per ecologisti. Quando non riesco a respirare, non mi si venga a dire di essere tollerante. Sarebbe come dirmi che mi si vuole morto. I morti, infatti, sono gli unici tolleranti.
Contro questa tollerante società della morte, e contro l'antico adagio per cui dei gusti disputandum non est, nel pamphlet si dice che i gusti sono proprio ciò che va messo in discussione; che il cosiddetto bene collettivo in realtà è la somma dei malesseri individuali che pretende, in quanto tale, di essere difesa; che non esiste libertà senza abolizione dell'opinione pubblica.
Questo libro è un esempio di come, anche su questioni di notevole portata, si possa dire tutto quello che c'è da dire in un piccolo testo. Tutto quello che, di importante, su un argomento che lo è altrettanto, non può essere detto in cinquanta pagine, non merita di essere letto. Tutto il resto, non lo merita comunque. Con buona pace dei grandi trattati sociologici e delle documentatissime analisi politiche.
Tanta sicumera può forse infastidire, ma questo testo merita davvero, a mio avviso, di essere letto. Peccato che non sia mai stato scritto.
P.M.
A Brescia l'1 novembre le panteghane hanno occupato uno stabile dismesso da anni per fare, inizialmente, una tre giorni antimilitarista e in solidarietà agli anarchici inquisiti e incarcerati. Domenica 3 i cancellatori di sogni realizzati - i servi in divisa - sono intervenuti per ristabilire la legge.
Stava andando tutto così bene: la libreria, il concerto, i film, le cene vegan e il bar autogestito. Per noi - dal volantino distribuito all'interno dell'edificio occupato della panteghana - autogestione non vuol dire fare l'elemosina per sembrare o, ancor peggio, sentirsi bravi e buoni. Non siamo preti. Autogestione è sperimentazione, una tensione verso la libertà che non sappiamo dirvi cosa sarà - però sappiamo cosa non è. Per questo ognuno e ognuna potrà partecipare facendo e dando secondo le proprie possibilità, secondo la propria sensibilità. Non vi chiediamo l'obolo, men che meno ve lo imponiamo. Non vogliamo nemmeno imporre prezzi popolari. Noi vogliamo provare a vivere rapporti, relazioni diverse, non mediate dal denaro. Chiediamo solo la partecipazione di chi non vuol sentirsi spettatore, cliente, ospite. Ogni contributo sia quindi libero e volontario. Ci sarà una cassa con dei soldi per le spese che non possiamo evitare, la gestione di questa cassa sarà assembleare e comunque ci sarà un cartellone visibile a tutti con le entrate e le spese. é una scommessa, un esperimento, come questa occupazione. Sarà quel che sarà. Quello che ogni singolo saprà farne. E per me è stata una scommessa vinta.
Tutto ha funzionato bene, c'è stata una partecipazione diretta da parte degli individui che hanno frequentato il posto occupato e, a parte alcuni momenti particolari, non c'è stata separazione tra gestori e utenti, militanti e gregge da sobillare, tra momenti politicizzati e momenti ludici, tra chi dava e chi prendeva. Quel che è stato è stato: due giorni stuzzicanti di pratica antiautoritaria e antimilitarista, belli e vivi. Ma ora la volontà di sperimentare ciò che si può fare, ma non si fa normalmente, e la determinazione ad agire penso che possano solo aumentare.
Nicola
P.S. Apprendo dai giornali che, ovviamente, tenteranno di denunciarci pur non avendo fermato e identificato nessuno. Si sa che la legge funziona come i solerti tutori dell'ordine vogliono usarla.
Assonnati, malavogliosi, costretti ad alzare le serrande delle loro celle, delle loro galere, ogni mattina. O avidi, speranzosi di macinare quattrini ogni volta che gli orari di lavoro glielo permettono. Chissà. Comunque una brutta sorpresa li ha aspettati all'alba. I negozianti bolognesi hanno infilato le chiavi delle botteghe in almeno un centinaio di toppe stranamente restie. Pigia pigia, ma la chiave non entra; sgomento. Gli apri-tutto sono bombardati dalle telefonate ed accorrono coi ferri del mestiere: segano, forzano, tranciano, riscuotono. I commercianti assistono con un occhio all'orologio e l'altro al portafoglio. Intervengono i pompieri. La posta apre con due ore di ritardo. Insomma, una mattinata spiacevole per molti. Dopo un po' qualcuno inizia a vederci chiaro: qualche simpaticone della notte si è divertito con colla e chiodini a far tribolare i negozianti, e ci è riuscito. Tanto che questi invocano tonanti un maggior pattugliamento notturno da parte di militi e questurini.
Chi può aver tratto vantaggio da un'azione così imprevista? Le mani sono ignote ma gli inquirenti si sono messi in moto di buona lena. E ci mancherebbe pure che non avessero già sbandierato i loro sospetti: anarchici insurrezionalisti, sgomberati, deviati, i soliti mostri. Dovendo rendere conto alla comunità della loro mancata onnipresenza, non hanno saputo far altro che indirizzare i propri sospetti su quattro anarchici fermati sere prima. Fatto sta che Bologna non sta dormendo sonni ovattati, di questi tempi. Da molti cassonetti si sono levate le fiamme indisponenti di qualcuno che ha da ridire sulla pacifica convivenza cittadina. Numerose le scritte sui muri inneggianti a disordine e ribellione.
Eh sì, pare proprio che il consenso non sia totale nei riguardi dei tortelloni di Palazzo. Avanti così.
Lettori di quotidiani
Nulla, non è successo nulla. Solo un altro affare, non scandalizzatevi per favore. Semplicemente la ditta Coca-Cola Company ha commissionato un jingle (la canzoncina pubblicitaria) a qualche lavoratore: Articolo 31, Ritmo Tribale, Saturnino, Negrita, Mau Mau, Dirotta su Cuba, Quintetto X.
Loro sono passati al vaglio di gradimento dei manager della Coca-Cola battendo almeno un centinaio di concorrenti. Sì, noiosi, sono gli stessi gruppi che suonano per la Caritas. E per Rifondazione. E per il Wwf. E per la ricerca contro il Cancro. E per la Loc. E per Cuba. E per la Pantera. E per Mumia Abu Jamal. E per gli immigrati. E per i sindacati. E per la Bosnia. E per la pace nel mondo. E per la sete nel mondo. E per (contro?) l'Aids. E per il Primo maggio. E per il Venticinque aprile. E per Amnesty. E per gli antagonisti di turno.
E allora? Dovranno pure mangiare anche loro, o no, dopo tante fatiche. Hanno solo dovuto cantare almeno una volta (solo una) sempre Coca Cola. E hanno preso un mucchio di soldi. Li vedranno dappertutto. Chiamali scemi. Loro sì che sanno usare il mercato. Sono emergenti, no? Mica vorrete che sguazzino tutta la vita nell'underground? Li vogliamo far arrivare all'overground? Non volete ballare sempre più allegri al simpatico suono di Viva la Revolucion? o di Viva l'amore? o di Viva la Mamma?
Non vi basta che vi facciano divertire? Certo che siete proprio dei rompicoglioni...
Mario Spesso