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Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n.
18/89 del Tribunale di Cagliari
È legittimo privare un essere umano della sua libertà? E se lo è, per quale finalità? Questi quesiti sembrano pesare sull'animo di molti compagni, in modo particolare dopo che alcuni anarchici sono stati condannati perché accusati di aver sequestrato Mirella Silocchi (sulla validità di questa sentenza il 28 novembre si deve pronunciare la Corte di Cassazione) ed altri anarchici ancora vengono accusati - per ora solo dalla stampa - di aver partecipato ad alcuni sequestri. Questa vicenda, con tutti gli strascichi successivi, ha spinto diversi compagni a cominciare a riflettere su argomenti che prima difficilmente venivano affrontati. Se non si vuole continuare ad alimentare sospetti e maldicenze, è meglio che questi problemi vengano sollevati apertamente. La delicatezza della questione, i suoi mille risvolti, non possono continuare a costituire un alibi per respingere nell'ombra un dibattito diventato sempre più necessario. Innanzitutto bisogna fare alcune precisazioni in merito al processo Silocchi. È vero che alcuni compagni sono stati condannati per il sequestro della moglie di un industriale del parmense, ma è altrettanto vero che questi anarchici si sono sempre dichiarati estranei ai fatti loro contestati e che la loro condanna è giunta al termine di un processo in cui la pubblica accusa non ha praticamente fornito prove del coinvolgimento degli imputati nel sequestro e nella presunta morte di Mirella Silocchi, affidandosi esclusivamente alle parole di alcuni pentiti. A parte questo, chi scaglia la propria riprovazione morale sugli anarchici condannati o chi per cautela se ne tiene alla larga, ci sembra dia più credito al verdetto di un tribunale che alla parola dei compagni coinvolti. Ma veniamo al nodo della questione. La riluttanza di molti nel prendere in considerazione l'eventualità che un anarchico possa commettere un atto universalmente giudicato infame, è dovuta sovente all'acritica accettazione della retorica poliziesca che dipinge qualsiasi sequestro con tinte fosche: orecchie mozzate, caviglie incatenate, patimenti causati da freddo e fame, e via dicendo. Da questo quadro inevitabilmente molti giungono alla medesima conclusione: un compagno non può averlo fatto. Del resto, può un anarchico, per cui la libertà è il bene più importante, sequestrare una persona, tenerla prigioniera, chiuderla a chiave? In realtà questa domanda non dovrebbe neppure essere formulata, poiché conosce da tempo la sua risposta. Gli anarchici hanno già compiuto sequestri di persona. Non erano forse persone - termine neutro buono per i palati sensibili degli umanitari - i diplomatici spagnoli rapiti da anarchici negli anni sessanta e settanta in Italia e in Francia? E quei sequestri di persona, non sono stati sostenuti e giustificati da gran parte del movimento anarchico internazionale? Ecco perché ci sembra che tutti coloro che si affannano a dimostrare l'incompatibilità dei sequestri di persona con l'etica anarchica soffrano per lo meno di opportunistici vuoti di memoria. E allora, prendiamo una buona volta una decisione. O si esclude per principio l'idea stessa del sequestro di una persona - e allora si deve essere conseguenti e considerare aberranti anche quei sequestri lontani nel tempo e chi li ha compiuti - oppure si è costretti a riconoscere che, non il sequestro, ma le modalità con cui avviene, possono entrare in contrasto con le proprie idee. Per prima cosa bisognerebbe dare un nome, un volto, una sostanza insomma, alla "persona" che viene rapita. Le persone non sono tutte uguali. Fra il rapimento di un responsabile del dominio e quello di suo figlio, o di un parente, o di un malcapitato qualsiasi, c'è una enorme differenza. In questo caso, come ben si vede, la discriminante non verte più sull'idea del sequestro, sul togliere la libertà a qualcuno, ma sulla persona che viene privata della libertà e sull'uso che questa ne fa nel corso della sua esistenza. Sequestrare uno sfruttatore significa privarlo della libertà di sfruttare, sequestrare un bambino significa privarlo della libertà di giocare. Ci auguriamo che nessuno abbia il cattivo gusto di mettere sullo stesso piano questi due esempi. Così come ci auguriamo che nessuno si metta a sbandierare il carattere eccezionale dei sequestri dei diplomatici spagnoli, né la pretesa nobiltà di una finalità politica contrapposta ad una finalità volgare, che mira unicamente all'ottenimento di danaro. Se non si vuole riproporre la tesi gesuitica del fine che giustifica i mezzi, bisognerà pur ammettere che non può essere una "giusta causa" a legittimare il ricorso ad una determinata pratica. Allo stesso modo riteniamo che non solo il chi, ma anche il quanto e il come andrebbero vagliati quando si approfondisce l'ipotesi di un sequestro di persona. Tenere la persona sequestrata il minor tempo possibile (un "minor tempo" sicuramente difficile da stabilire e riguardo al quale solo la sensibilità di ciascuno può avere l'ultima parola) e senza infliggergli ulteriori torture, ci sembra ben diverso dal prolungare per mesi e anni la sua prigionia o dal procurargli mutilazioni fisiche. Di recente è stato scritto che «chiudere a chiave un uomo è pratica avvilente». È vero. Così come è avvilente prostituirsi ogni giorno per un salario, lucidare i banchi di scuola con la crescita del proprio buon senso, sopperire al vuoto dei propri rapporti mendicando briciole di buoni sentimenti, rassegnarsi a considerare questa come l'unica vita possibile. Buona parte dell'esistenza che conduciamo è avvilente, e il più delle volte è proprio dalla consapevolezza di questa miseria che nasce la nostra ribellione, il nostro essere anarchici. Ed il nostro anarchismo, la nostra rivolta, non si possono fermare di fronte a una condanna, morale e penale, formulata dal potere, né ci possono portare ad abbandonare alcuni compagni nelle sue mani.
Nel luglio del 1989 viene rapita Mirella Silocchi, moglie di un facoltoso industriale di Parma. Nel corso dei primi venti mesi le indagini non arrivano a niente. Poi, il questore Improta delinea una sua tesi, in base alla quale i responsabili si devono cercare all'interno delle comunità sarde, con l'implicazione - in questi casi è sempre meglio abbondare - di anarchici e armeni. Un bricolage di montature le quali si intersecano l'una con l'altra grazie al contributo di personaggi soggiogati e ricattati da Servizi segreti e forze dell'ordine. Alcuni imputati si frequentavano prima del fatto, questo è considerato l'elemento connettivo necessario a tenere in piedi la tesi di Improta. Il processo di primo grado tenuto a Parma in un clima di terrore, a suo tempo era stato poco più di una farsa con testimoni dell'accusa non presentati, oppure lasciati nell'anonimato più assoluto. A sostegno della tesi accusatoria, soltanto testimonianze e verbali di poliziotti. Un processo da Inquisizione: la difesa non poteva provare l'estraneità degli imputati al processo dato che l'accusa non forniva prova alcuna della loro implicazione. Nel processo di Appello, la Corte di Bologna - la stessa che ebbe a condannare all'ergastolo persone estranee ai fatti per le uccisioni dei carabinieri in quella che la stampa ha definito la "strage del Pilastro", di cui in seguito si sono dichiarati responsabili confessi i poliziotti bolognesi della "Uno bianca" - questa stessa Corte ha accettato qualche richiesta marginale della difesa, ma ne ha negato le più importanti, per esempio non ha presentato i componenti della famiglia Sforza che in primo grado avevano avuto un ruolo fondamentale nell'accusa. Le novità non sono comunque mancate. Marcello Mele, a cui i funzionari dell'Interpol avevano attribuito "confessioni" mai avvenute, in base alle quali si era arrivati a individuare gli autori del rapimento, ha sbugiardato pubblicamente gli sbirri infamatori. I poliziotti hanno pensato di realizzare l'imbroglio approfittando del fatto che Mele, in occasione di un altro sequestro avvenuto in precedenza, aveva confessato e fatto arrestare due altre persone. Il fratello di Mario Giau ha testimoniato che quest'ultimo veniva ricattato dalla polizia la quale lo aveva utilizzato per reperire i frammenti di ossa e l'anello "trovati" nel pozzo utilizzato da Franco Goddi. Sia le ossa che l'anello gli furono forniti da un pentito di mafia e dalla sua donna, pentito che gode di grande rispetto presso sbirri e magistrati, faccenda questa che anche costoro hanno confermato davanti alla Corte di Bologna. Poi i giudici togati, insieme ai rappresentanti la pubblica opinione vendicatrice, si sono seduti nel chiuso e nella certezza della camera di consiglio e sono arrivati all'ovvia conclusione che non potevano disfare quello che autorevoli organi dello Stato avevano di già fatto, per cui hanno confermato l'esecuzione di Parma, con due sole varianti: Staffa si è visto ridurre la pena dall'ergastolo a 30 anni, l'anarchico Giovanni Barcia, che era stato assolto, è stato condannato al carcere a vita. Nessuna delle contraddizioni emerse in aula è stata presa in considerazione, anzi. Morale: il processo di primo grado - durato oltre tre mesi (dopo una istruttoria di tre anni e mezzo) - dette inizio al nuovo modo di gestire la giustizia ("strage del Pilastro", "processo Pacciani", "processo sull'Autoparco di Milano") da parte di magistrati da palcoscenico alla PierLuigi Vigna. (Da notare che proprio Vigna figurava anche fra i conduttori dell'indagine del sequestro Silocchi). La conclusione del processo d'appello dimostra l'importanza marginale che gli aspetti tecnici hanno in un processo di questo genere, di già deciso in partenza sulla base di una tesi repressiva del tutto priva di riscontri concreti. Ed ora tocca a Roma, il 28 novembre, alla Corte di Cassazione, decidere se confermare il verdetto di colpevolezza contro: Orlando Campo, Gregorian Garagin, Giovanni Barcia, Rose Ann Scrocco, Francesco Porcu, Bachisio Goddi, Giovanni Sanna, Antonio Staffa.
4 novembre - Sassuolo (MO). Nottetempo qualcuno si è introdotto in una scuola media imbrattando i locali con la schiuma degli estintori, con merda e vomito, scassinando scaffali, bruciando libri e registri.
7 novembre - Torpignattara (Roma). Attentato incendiario contro l'auto del presidente di circoscrizione.
10 novembre - Bologna. Prima sporcato e poi distrutto dalle fiamme uno striscione patriottico e commemorativo issato da Fiamma tricolore in pieno centro.
10 novembre - Milano. Un sedicenne è stato fermato mentre esternava la propria avversione ai CC sul muro della loro caserma.
10 novembre - Bologna. Nella notte si introducono nella sezione Pds di S. Donato e la alleggeriscono della pesante cassaforte.
11 novembre - Bologna. Nella notte precedente alle elezioni scolastiche dell'istituto "Fermi", qualcuno ne ha allagato completamente i locali, smontando i sifoni dei lavandini e aprendo tutt
12 novembre - Cortina d'Ampezzo (BL). Un uomo di 75 anni armato di una sbarretta di ferro appuntita ha sfregiato nel giro di due mesi decine di auto. Al momento della cattura ha dichiarato che prima di agire si sentiva prendere da un raptus incontrollabile.
12 novembre - Patti (MS). Due telefonate anonime hanno annunciato a polizia e CC la presenza di un ordigno nel Palazzo di giustizia. Scattato l'allarme, l'edificio è stato sgomberato.
12 novembre - Roanne (Francia). Il "Tribunal de grande instance" è stato devastato nei suoi 600 mq da un incendio spettacolare, che non ha risparmiato gli archivi contenenti gli atti della pretura. Su due porte sono stati trovati segni d'effrazione.
13 novembre - Atene (Grecia). Qualche giorno prima delle manifestazioni organizzate come tutti gli anni per il 17 novembre, una bomba è esplosa all'interno della facoltà di ingegneria meccanica, causando gravi danni alle strutture.
14 novembre - St. Petersburg (Florida). Il quartiere nero esplode di nuovo la sua rabbia dopo l'assoluzione dell'agente che in ottobre uccise un ragazzo ad un posto di blocco. Violenti scontri, edifici dati alle fiamme e due poliziotti uccisi con colpi di arma da fuoco.
14 novembre - Ajaccio (Corsica). La corona di Napoleone, custodita nei locali del Comune, è stata asportata in pieno giorno sotto il naso del guardiano.
14 novembre - Verona. Piromani notturni hanno dato alle fiamme alcuni sportelli automatici bancomat della Cassa di Risparmio.
16 novembre - Palermo. Riscuotevano decine di premi da 100.000 del Gratta e vinci, in un supermercato. Naturalmente i biglietti erano contraffatti.
17 novembre - Pisa. Assaltato con lancio di oggetti e calci il corteo automobilistico del Polo delle libertà.
17 novembre - Minsk (Bielorussia). Durante una manifestazione antigovernativa, la folla rompe il cordone di polizia e tenta di assaltare il Parlamento.
18 novembre - Comacalco (Messico). Una rivolta nel carcere è stata sedata dopo sei ore da cinquecento agenti provocando due morti e vari feriti fra i detenuti.
Il diritto di parola è una menzogna. Primo, perché è un diritto e come tale non fa che rafforzare il potere di chi ha l'autorità di concederlo o, che è lo stesso, di riconoscerlo. Secondo, perché esso viene stabilito quando la possibilità di parlare, di dire qualcosa a qualcuno in grado di comprenderla, non esiste più. Arriva, cioè, dopo, quando la condizione di cui vuole essere la garanzia è già stata soppressa. Terzo, perché esso, separato dalla possibilità pratica di agire, non è che un'astrazione che serve altre astrazioni. Le idee, private dell'ossigeno che solo lo spazio dei rapporti e del confronto, dunque della comunicazione e della sperimentazione, assicura loro, rimangono impotenti a boccheggiare sulla riva delle opinioni che di tutto opinano e che niente cambiano. È su quest'ultimo aspetto che vorrei fare qualche considerazione. Il potere democratico, mostrando le parole (fatta qualche eccezione per quelle sovversive) come qualcosa che si può tollerare, ha creato una zona franca dove occultare le proprie responsabilità trasformandole, appunto, in opinioni. Un politico, ad esempio, che fa? Parla. Certo, sfrutta, opprime, assassina. Ma non è lui che preme il grilletto, non è lui che ti costringe ad aver bisogno di denaro per sopravvivere, non è lui che ti butta giù da un'impalcatura e non è nemmeno lui a dare la doppia mandata che rinchiude un tuo gesto di ribellione. Quando appare, egli non fa che discutere, rispondere cortesemente alle domande, sorridere alle critiche, aggiungere, confutare, rettificare. Sembra quasi che parlando meglio di lui (non ci vuole molto), ragionando più correttamente (ci vuole ancora meno), e scalzando i suoi argomenti di difesa, si possa far vincere la nostra idea di libertà. E il giornalista? Si può forse sparare a qualcuno perché ha idee diverse dalle nostre? Un momento. Costui difende un'azione di guerra, applaude un'operazione dei carabinieri che rispedirà a casa qualche decina di magrebini, invita un giudice ad applicare il massimo della pena, convince il nostro amico politico (o si fa da questi convincere) che trentacinque anni di lavoro non sono poi tanti, ci spiega, dopo un disastro ecologico, che la ragione è che mancano le leggi, attacca un industriale corrotto per non dirci che lo sono tutti, ci fa preoccupare per un prodotto alimentare sofisticato (senza dirci quale non lo è) per nascondere le ragioni di una rivolta in Cina, in Palestina o in un carcere italiano. Insomma, gioca con gli aggettivi sulla pelle degli altri. E con ciò? Non si vorrà attribuire le responsabilità di quanto accade nel mondo ad un fabbricatore di sillabe? Bisogna prendersela con chi agisce, non con chi parla. Bene. Ma chi agisce? Non si sa, non si vede e, quando compare, è l'ultima ruota del carro. Allora è proprio vero, come hanno sempre detto i rivoluzionari, che sono le condizioni sociali la causa dell'oppressione. Magnifico. Ma qualcosa non torna quando sono gli stessi padroni a dirlo, e così facendo nascondono le proprie responsabilità nell'irresponsabilità generalizzata. Quando, con l'alibi della libertà, ognuno è obbligato ad agire senza preoccuparsi delle conseguenze (chi può prevedere o anche solo riconoscerle in un mondo così complesso?) delle proprie azioni. E queste conseguenze, ogni anno, producono un'abbondanza di nuove cause. Se a dominare sono la burocrazia e l'amministrazione - il potere di Nessuno - , se uno schiavo non riesce più a vedere chi lo comanda, allora la tirannia è prossima alla sua perfezione. Anche una delle migliori armi di difesa - trattare le canaglie che "parlano" come le canaglie che "agiscono" - sembra quasi definitivamente spuntata. Diritto di parola. Ma chi può sostenere che "agire" sia sempre più pregno di responsabilità che, ad esempio, scrivere? Perchè condannare chi, accecato dai propri fantasmi, uccide all'improvviso una prostituta o un transessuale, e assolvere chi, nella calma e nel chiuso della sua biblioteca, chiede alla storia qualche ragione per giustificare a parole un'aggressione militare contro una categoria di Nemici della patria e della democrazia? Perché desiderare l'uso della forza contro chi picchia gli immigrati e solo "denunciare energicamente" chi di quei pestaggi offre a parole i motivi culturali, sociali e persino economici? Eluard era così diverso dagli assassini stalinisti di cui nelle poesie - cioè attraverso parole ricercate, che oltre a dire, dicono con la forma e persino con il ritmo adatti - ha tessuto le lodi? E lo sfruttato che parla da razzista perché ha paura di perdere, assieme al lavoro, la sicurezza del proprio sfruttamento? E lo sfruttatore che, dall'alto del suo potere di dare e di togliere quella sicurezza, parla di antirazzismo? E chi scrive per chi parla (chi redige, ad esempio, i discorsi di qualche uomo di Stato), è per questo due volte al sicuro? E chi parla dopo aver agito? Personalmente, riconosco a qualcuno il diritto di sostenere a parole la tirannia tanto quanto gli riconosco il diritto di tiranneggiare. I giornalisti difensori del terrorismo di Stato raggiunti da una pallottola li metto sullo stesso piano dei poliziotti e degli squadristi uccisi. Rischi del mestiere. Se uno dice o scrive canagliate è una canaglia, tanto più grande quanto maggiori sono i mezzi culturali di cui dispone per comprendere come sia canagliesco il proprio tributo al padrone. Non faccio concessioni a quello che dice uno sfruttato. Non cambio posizione, qualunque cosa dica, verso uno sfruttatore. E gli anarchici? Qui cominciano i dolori. Un esponente di un partito di sinistra, tanto per fare un esempio, viene invitato ad un'iniziativa anarchica. Perché è stato invitato? Già questo meriterebbe più di un discorso. Comunque c'è, prende il microfono e parla. Qualcuno non è d'accordo e non lo lascia parlare. Semplice, questo qualcuno è un fascista, non accetta - gli mancano gli argomenti - il confronto. La libertà di parola è sacra per gli anarchici. Un momento. Quel qualcuno sono io. Gli argomenti non mi mancano (ci vuole poco), ma non c'entrano. Se l'esponente di partito facesse un comizio sull'immensa bellezza dell'anarchia, non cambierebbe nulla. Come non cambierebbe nulla se egli partecipasse all'organizzazione dell'iniziativa senza parlare. In questione non è quello che dice al momento, ma quello che fa con le parole e quello che dice con i fatti. È lui. Io sono ancora dell'avviso che nelle nostre iniziative non vadano tollerate le persone che il potere tollera felicemente. Nei loro confronti preferisco, rispetto al dialogo, la pratica dell'insulto meritato. E se a parlare venisse Prodi o addirittura Agnelli, e qualcuno gli saltasse addosso, vorrebbe forse dire che il capitale ha più argomenti che la sovversione? Anche questo qualcuno sarebbe fascista, perché prima di saltargli addosso non ha aspettato che finisse di parlare? Il solito esagerato, chiunque sa che farabutti sono costoro. Allora il "diritto di parola" non è per tutti (fascisti compresi), ma solo per coloro le cui responsabilità sono accettabili (un Parlato, ad esempio)? Come si vede, c'è dell'altro. Infatti, l'esponente di partito non viene attaccato neanche a parole (con Gli Argomenti). Al contrario, si fanno le conferenze assieme, talvolta gli si chiede di scrivere la prefazione a qualche libro, si marcia vicino nei cortei. Di fronte, la polizia (di poche parole, lei) che il nostro amico di sinistra difende sulle colonne del suo giornale o in qualche aula della repubblica. Ora sì, in questa foto di famiglia mi sembra di riconoscerlo meglio. È proprio nel mezzo, il diritto di parola.
Massimo Passamani
Miss Mondo - uno di quegli attaccapanni foderati di ciccia che ogni anno sbattono sui giornali e sui rotocalchi affermando che in lei si rispecchia l'oggettiva immagine della bellezza femminile - quest'anno rischia di indossare, al posto della consueta coroncina da reginetta, una bella corona di spine. La luccicante latrina dove si svolgerà il concorso delle "più belle del pianeta", secondo i piani degli organizzatori, sarà l'India, il 23 novembre. Questa data rischia di diventare una di quelle "da ricordare". Eh sì, perché non tutti quella sera guarderanno ammaliati i soggetti di plastica che la società spaccia per modelli universali. C'è una considerevole quantità di persone che - vedendo sfilare in passerella, dirimpetto a una giuria, donne convinte di essere belle, per gareggiare in questo - prova una nausea insopportabile. Potrebbe succedere qualcosa, che so, come il 20 novembre 1970, quando una bomba fu collocata in una camionetta della Bbc, intenta a glorificare la super-donna. O chissà quant'altro. Intanto, a pochi giorni dall'iniziativa, si sono coalizzate una cinquantina di organizzazioni con lo scopo di impedirne lo svolgimento. A Bangalore, nell'India meridionale, circa quattromila persone hanno tentato di assediare l'hotel delle aspiranti al titolo. A Madurai la protesta, stavolta individuale, si è sviluppata in modo più autolesivo: un giovane indiano, presso un'affollata stazione degli autobus, si è cosparso di kerosene e, dopo aver pesantemente tuonato contro il concorso, si è dato fuoco. Tra l'altro questo tipo di contestazione era già stata annunciata come possibile da due delle organizzazioni. Una scelta come un'altra. Può darsi che a qualcuna di quelle bambole verrà staccata la testolina. Ma tanto i giurati hanno ben altro da giudicare con quelle palettine, loro che hanno un'idea ben chiara del bello e in quali punti esatti esso si manifesti. Personalmente, non ho un'idea del bello. Conscio di essere diverso da tutti, e quindi munito di preferenze solo mie, provo attrazione per alcune delle cose che vedo. Tutto qui. Ma una qualsiasi manifestazione compresa nei parametri dello spettacolo non può non andare a creare un qualcosa di mostruoso. Ed ecco che per la bellezza, come per gli altri canoni, vengono confezionati prototipi, scale di merito, punti, troni. Tutto questo rigorosamente studiato per essere tramutato in merce. E non c'è merce peggiore di quella in carne e ossa. Non viviamo forse nel mondo delle classifiche? E non è forse la vetta di queste ad allettare le bramosie di celebrità, di denaro, di potere? Non siamo forse un po' tutti obbligati a soggiacere a questo tipo di rapporti? Specchio, specchio delle mie brame, quando salterà per aria questo povero reame?
Cacciucco
Un braccialetto di platino con sopra tanti diamanti ed un enorme zaffiro: tre miliardi in pochi centimetri quadri. Così va il mondo, di questi tempi. La ricchezza va mostrata ed esibita in sintesi intorno ai polsi delle signore dabbene. Ma non hanno solo polsi, quelle signore. Hanno braccia, corpi e cuori aridi, le spose dei padroni - o padroni esse stesse -, con i loro bracciali, i loro collier ed i loro orecchini di sfruttatrici. Hanno responsabilità che può sembrare fuori moda denunciare. Si ritrovano alle serate di gala o nei comitati di beneficenza, non stanno mai ferme, sempre a portarsi a spasso la loro ricchezza. Sono spesso progressiste e quasi sempre si battono contro la fame nei paesi lontani, finanziano crocerossine e non mancano mai ai party contro malattie e flagelli ogni volta "del secolo": sì, perché tra una sfilata e l'altra hanno il tempo di commuoversi per le disgrazie del mondo, mentre le cameriere lucidano l'argenteria. Altri questo tempo non ce l'hanno, e di gioielli da sfoggiare neanche a parlarne. Passano la vita a procurarsi di che vivere e di che rivoltarsi. Per rivoltarsi serve tempo, per distruggere il lavoro ed il tempo del lavoro. E il tempo sta anche dentro a quei braccialetti da tre miliardi, nascosto tra platino, diamanti ed enormi zaffiri. Quanto ne era nascosto dietro al «Kashmir Sapphire», esposto al «Four Season» - uno degli alberghi più in di Milano? Tre miliardi, se venduto intero. Di meno, se fatto a pezzi. In ogni caso, parecchio tempo, rinchiuso inutilmente nelle vetrinette di plexiglas. Sì, perché quel braccialetto è stato rubato dalla teca dove era esposto prima dell'asta organizzata per le signore meneghine. Qualcuno è entrato nell'albergo, in quel salone con marmi e velluti, ha divaricato di poco lo sportello laterale della vetrinetta, ha infilato la mano e se ne è uscito con il pezzo migliore della collezione. Dentro al bracciale una scommessa, dicevamo: tanto tempo per distruggere il lavoro oppure tanti soldi per riprodurlo identico a se stesso - in forma illegale, magari. Un ornamento in meno per le signore dabbene ed una possibilità tutta da giocare per chi ha avuto lo stomaco di farsi largo tra i loro profumi e la prontezza di infilare la mano nella teca al momento giusto. Le signore dabbene non amano stare sole. Si trastullano in compagnia, adorano i salotti, le feste affollate. E proprio durante quelle feste, qualunque mano anonima può allungarsi, con un po' di perizia, fino a riprendersi per intero il proprio tempo.
S.V.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo a una serie di mirabili manifestazioni di riappacificazione tra cosiddetti nemici storici. Fidel Castro - incanto di ex-rivoluzionari e di adolescenti che sognano Guevara - si reca in visita dal Papa che gli promette di intercedere presso gli Usa per allentare la pressione dell'embargo. Per non parlare del patetico primo cittadino italiano che, in occasione della pomposa festa delle forze armate, decide - in compagnia di Taviani, Tremaglia e della Mussolini - di presenziare alla messa per i caduti di tutte le guerre, su tutti i fronti. E come potremmo dimenticare quel nobile gesto del Pds di Budrio, nel reggiano, che offre ospitalità nei locali della propria sede alla funzione religiosa del parroco che, a causa del terremoto, non può usufruire dell'edificio della Chiesa. Certo è bello vedere tutta questa armonia, questa volontà di pace, questa solidarietà reciprocamente manifestata, peccato sia tutta funzionale al mantenimento dello sfruttamento del lavoro e delle menti, e quanto sanno essere concilianti e solidali tra loro, tanto più sanno essere spietati e implacabili con chi esce dagli schemi tracciati. Come può uno sfruttato farsi ingannare da queste schermaglie politiche, dal finto duellare di chi mostra di pensare unicamente agli interessi delle popolazioni? Il gioco delle guerre, delle battaglie politiche, delle crisi che precedono le riappacificazioni, è fatto per indurre gli oppressi a schierarsi, a parteggiare, per distoglierli dal solo obiettivo che dovrebbero perseguire: sollevarsi contro chi li controlla e li schiaccia distruggendo tutte le istituzioni di controllo e repressione per diventare finalmente padroni della propria vita.
Paolo Ruberto
Nessun capo di Stato ha mai riscosso tante simpatie tra la sinistra italiana. Nessun capo di Stato ha mai riscosso tanta indifferenza tra quelli che lo considerano (politicamente) un nemico. Già, perché il generale Fidel Castro, capo del Partito Unico e dittatore militare dell'isola di Cuba, può solo essere festeggiato: qualcuno trova in lui l'identificazione dell'uomo forte della propria parrocchia, qualcun altro un esempio da imitare che non viene scalfito da nessuna pressione esterna, da nessuna opposizione politica, economica, sociale. La destra tace e non si adombra perché, in fondo, al di là della bandierina socialista che spicca sulle uniformi, quella cubana rappresenta un modello di dittatura ben difficile da realizzare. Le sue carceri sono zeppe di anarchici, comunisti, socialisti, sindacalisti, credenti, gente qualunque, ma i turisti della guerriglia non le vedono; infatti sono, come le caserme, sotto terra. Nessun filmato, nessuna informazione esce da Cuba. Il tempo si è fermato là, grazie al lider maximo che vede e provvede ai suoi sudditi, badando bene di controllarli passo passo, correggendoli e punendoli al minimo segno di insubordinazione - esattamente come un qualsiasi governante occidentale. Non è stupido il dittatore cubano. Non agisce certo allo scoperto come Pinochet. Lui i turisti li cerca, li accoglie, prepara loro tanti begli alberghi e feste da Club Med. Basta che non vadano in giro a far domande, fotografie, riprese video. Adesso che l'Urss si è spaccata, lo sciacallo ha capito che occorre trovare altri protettori, altri magnaccia, e in odor di pentimento democratico conta di reinventare l'isoletta (come ha già fatto il massacratore di Tien A Ment nonché leader cinese Li Peng) come paradiso fiscale per le banche, come terreno d'investimento per le industrie a caccia di manodopera non sindacalizzata, come parco di divertimento per turisti in cerca di nostalgie guerrigliere. Ci riuscirà, senza dubbio. Nel corso del suo viaggio in Italia aveva un'agenda zeppa di appuntamenti: ha frequentato vertici e convegni e incontrato in breve tempo il Papa (che sia anche in odor di conversione?), Gianni Agnelli, Massimo D'Alema, Fausto Bertinotti, I Nomadi e forse non si è fatto scappare neanche Licio Gelli e Gianfranco Fini. In fondo, chi gli si oppone? Probabilmente solo il popolo cubano assetato di libertà, oltre a tutti quegli individui che vedono in lui esattamente quello che è: un porco assassino che gira il mondo nelle ipocrite vesti da imbonitore e rappacificatore delle coscienze. In lui vedono solo un capo come tanti altri, che tenta di vendere la propria merdosa e mortale mercanzia sull'ennesimo palcoscenico politico.
Mario Spesso
Questo è solo il primo passo. Per ora si limitano ad annusarsi, i promotori e i «sostenitori» della manifestazione di sabato scorso a Torino per la legalizzazione delle droghe leggere. Presto, però, cominceranno a collaborare stabilmente, almeno stando alle dichiarazioni dei rappresentanti dell'Uds - gli studenti vicinissimi al Pds e alla Cgil - e degli autonomi del centro sociale "Pedro" di Padova. Uniti dal comune amore per politica e marijuana si propongono a vicenda seminari ed Osservatori permanenti. Sono passati gli anni delle ostilità tra i giovani della sinistra istituzionale e quelli che, tradizionalmente, «rifiutano i poteri costituiti» (per poi interessarsi «degli istituti costituenti» - come ammettono gli autonomi padovani). Ora si coccolano e si fanno i complimenti a vicenda: gli autonomi definiscono la Rete studentesca, capeggiata dall'Uds, un tentativo «più intelligente del solito per rifondare un'area giovanile dentro le istituzioni» e propongono il confronto sui temi comuni. Per esempio sulla legalizzazione, visto che - come spiegano quelli del Pedro - «non si vede francamente nulla di più avanzato». Nulla di più avanzato che chiedere la riforma di una legge, insomma: chi, una volta, dichiarava di voler scatenare tempeste pur preferendo il sole, ha scelto finalmente la nebbia fitta della pacificazione. I compagni del Pedro si stanno riconciliando con il mondo: ancora qualche sforzo e ce la faranno. Durante il corteo di sabato, gli autonomi hanno prima bruciato il modellino di un carcere sotto le Nuove di Torino, poi hanno distribuito spinelli di fronte alla caserma Cernaia, ma hanno concluso con una splendida imitazione dei carabinieri, assaltando un banchetto di un libraio accusato di «spingere i tossici a rubare i libri per pagarsi la dose». Insomma, come dicono i ragazzi dell'Uds, «si pone all'ordine del giorno per tutti una questione generazionale e una inedita domanda di politica» ed ognuno risponde come può. Chi con i pacati sofismi di D'Alema e chi con quelli più urlati di Marcos («L'uso della forza, non della violenza»); chi parlando di politica e chi di canne. L'importante è sancire rumorosamente la fine delle ostilità.
Il panda
Qualcuno ha deciso. Fra vent'anni non moriranno più di fame ottocento milioni di persone come avviene oggi, ma solo quattrocento milioni. Non c'è che dire, "un buon risultato". I numeri scorrono sopra i tavolini del vertice Fao, e solo di numeri i signori della morte riescono a parlare. C'è chi si indigna, come sempre succede in questi casi. È un gioco di retorica, niente di più. È uscita la scorsa settimana la notizia che sulle mense dei poveri inglesi non ci saranno i soliti cavoli bolliti ma anche carni bovine: che poi quelle mucche facciano parte dei generi alimentari sequestrati perché infetti, poco importa. Al vertice della Fao la parte dell'offeso ce la offre Fidel Castro: reputa vergognose le spese militari nel momento in cui c'è gente che non ha di che sfamarsi. Il fatto che queste parole provengano da uno dei generali più famosi del mondo genera qualche sospetto sulla sincerità delle sue affermazioni, ma anche questo non ha molta importanza. Il Papa, poi, non poteva certo mancare. E così anche lui ci informa sulla sua dose di indignazione nei confronti della cattiveria capitalista, procedendo alla condanna di ogni tipo di embargo. Il giorno dopo il Cardinale Sodano - resosi conto della gaffe del suo ormai arteriosclerotico superiore - si affretta a precisare che non proprio tutti gli embargo sono così ingiusti, come dice lui, è solo questione di discernimento; ma anche questo importa poco. Forse ancora meno importanti sono le cifre necessarie per l'organizzazione del vertice (sette milioni di dollari), o il fatto che tra gli sponsor ufficiali ci fossero la Coca-Cola e due aziende produttrici di fertilizzanti chimici e pesticidi. Insomma, sul fatto che si trattasse di una buffonata non avevamo dubbi, dal momento che a provocare un embargo e ad affamare la gente sono proprio i signori seduti attorno a quel tavolino. Per risolvere i problemi che loro stessi hanno creato, quei signori dovrebbero autoeliminarsi, cancellare i loro accordi economici, i loro accordi politici, tutti quegli apparati, insomma, in grado di decidere chi deve morire di fame e chi invece può sfamarsi. Ma a questo quei signori non ci hanno proprio pensato ed è questo l'unico vero problema. L'unico veramente interessante. L'unico per cui valga la pena cercare soluzioni.
Lupa
Ogni anno, un po' dovunque, gli studenti protestano per migliorare le proprie condizioni di sfruttamento con sempre più pacate, più civili, manifestazioni e occupazioni di scuole, sia nelle rivendicazioni che nei metodi usati per evidenziare il proprio malcontento. In genere finiscono col concordare democraticamente con insegnanti, presidi e genitori, i termini, le scadenze, l'entità delle proteste, autoregolamentandole. E quando qualche moderato delegato di spicco decide di proclamare la fine della contestazione, non rimane all'impegnato studentello che la mera illusione di aver "lottato", e non poco amaro in bocca per aver ottenuto assolutamente nulla al di là di qualche contentino, frutto di rassegnate mediazioni e soffocanti assemblee. Uno scenario decisamente triste che inesorabilmente si ripete ogni anno, all'insegna di luoghi comuni come «lottiamo assieme per costruire il nostro futuro». Una bella differenza separa costoro da quegli studenti liceali della Guyana francese, che di "chiedere per costruire" non sembrano per niente interessati, visto che hanno deciso di imporre le proprie scelte con una rivolta senza mezzi termini che da parecchi giorni sta imperversando nelle strade della capitale, Cayenne. Certo, lo scenario è piuttosto inquietante per i democratici: numerosi edifici dati alle fiamme, tra cui la "casa del Fiscal General", attaccata a suon di bottiglie incendiarie, negozi saccheggiati, sbirri feriti da colpi di armi da fuoco; ma se non altro hanno ottenuto che il presidente francese Chirac, temendo che le rivolte sfuggissero ad ogni controllo, si affrettasse a soddisfare le rivendicazioni degli studenti. E già: chi decide di scegliere da sé le armi idonee per dar libero sfogo ai propri desideri è sicuramente più fastidioso di chi rientra nei giochi dei democratici pianificatori in doppiopetto. Soprattutto se l'insofferenza rischia di dilagare in una folle, irrefrenabile gioia distruttrice.
Glu
Poveri bimbi. Molti non possono ribellarsi alle infamie dei loro genitori. Ce li hanno grossi, ce li hanno incazzati, ce li hanno sopra, ce li hanno intorno. Come può capire un bambino, con limitate capacità interpretative, le sodomie culturali cui viene sottoposto? Dove può trovare la forza per decidere di abbandonare, se le ritiene odiose, le attenzioni dei propri precettori? Qualcuno ogni tanto ci prova ma - ahilui! - c'è sempre un gendarme che lo riporta all'ovile per ricevere le doverose tiratine d'orecchi o le sonore pedate nel culo. Jack Straw, ministro-ombra dell'Interno alla corte di Elisabetta d'Inghilterra, ha deciso di dare ai genitori inglesi una dritta per non rischiare di farli ritrovare, secondo le sue brillanti considerazioni, con un figlio delinquente. Questo suo consiglio, che non sarà legge scritta (dato che per lui sarebbe stato difficile esercitare un diretto controllo sul pargolo), dovrebbe diventare una semplice consuetudine. Stabilire un'ora canonica nella quale i bambini, o quello che ne resta, debbano andare a nanna. Una buona abitudine, quella di non rispondere ai propri stimoli, per un bambino. Non a letto quando piomba il sonno, ma quando lo dice il buon senso. Potranno con più facilità entrare a far parte di quell'orda mostruosa di persone che non fanno mai quello che vogliono: i cittadini. Così, invece del consueto «a letto senza cena», prenderà piede «a letto senza sonno», dettame non così scellerato da pretendere la messa in pratica, impossibile, ma che costituisce una vera e propria segregazione nella cella-cameretta. Un orrore in più. I piccoli mostri, di questo passo, invaderanno con passo sempre più infelice questo nostro esistente tumefatto, nel quale già la mattina mangiano le schifezzine inzuppate nel latte, vengono accompagnati alla scuola di Stato, vengono nutriti coi prodotti dei laboratori, vengono vestiti come caramelle, si accecano col buio catodico, ripetono i gesti dei loro modelli, canticchiano le canzoncine della pubblicità. Bene, impareranno ad abbottonarsi gli occhi e a prendere sonniferi, magari eletti a sponsor della felice iniziativa del ministro. Come tante scimmiette ammaestrate e saltellanti per la gioia della famiglia, del prete, della maestra, dei parenti, educati, rispettosi, puliti, pettinati, riposati, intelligenti, obbedienti, posati. Ma esistono ancora i bambini?
M.C.
In tre giorni un carcere, da luogo in cui la libertà e la dignità di chi vi è rinchiuso vengono quotidianamente calpestate, può essere trasformato in spazio accogliente di discussioni e dibattiti. Così Rebibbia, dal 15 al 17 novembre, è diventata teatro di un incontro fra centinaia di associazioni di volontariato che operano nel settore e la controparte istituzionale rappresentata dal guardasigilli Flick e dal direttore degli istituti penitenziari Coiro. Lo scopo del convegno era quello di confrontarsi, di sviluppare piani d'azione comune, di far riconoscere allo Stato l'importanza del lavoro che svolgono fra i detenuti. Infatti, non meno dei secondini, le conventicole delle moderne dame di carità s'addossano il gravoso compito di far funzionare un carcere veramente democratico. Il prigioniero non deve più sentirsi solo davanti all'ottusità dei regolamenti carcerari ed alla ferocia dei suoi sequestratori; anch'egli, nonostante le malefatte, è un portatore di diritti simili al marchio che nei tempi antichi si imprimeva nella carne a chi si era macchiato di una qualche colpa. E la potenza dei diritti meglio si può esprimere su chi è costretto in una situazione di debolezza e di marginalità. Nell'àmbito chiuso di innumerevoli enunciati, al pari delle leggi si trova nella terra di nessuno, in balìa delle proprie forze e dei propri desideri, oppure della repressione. Al di qua la dipendenza assoluta, la coscienza che senza un garante che li sancisca e li faccia rispettare non è pensabile la vita stessa. E tanto meglio se questo garante è "indipendente" dalle istituzioni. Ce n'è per tutti, non solo per i criminali: una serie di recinti concentrici dove rinchiudere più efficacemente le identità cuciteci addosso dal capitale e dal "politicamente corretto". Ed è così che con tutte le chiacchiere sulle soluzioni alternative al carcere - e magari alleviando la sofferenza di qualche detenuto - che, oltre all'indispensabile mestiere di recuperatori, i vari Caritas, Arci, Seac e Fivol (promotori tra l'altro del convegno) rinforzano le sbarre sia dentro che fuori, laddove pare ci sia un maggior numero di ore d'aria.
Davide
C'è chi va spargendo la voce che i chierici del marxismo siano in via di estinzione; troppi errori, troppe delusioni, troppi fallimenti. Sarà. Certo è che gli ultimi esemplari di questa razza fanno quasi tenerezza per l'attaccamento che dimostrano al loro amato maestro, anche quando non si rendono conto di coprirsi di ridicolo nei loro contorcimenti per giustificare l'ingiustificabile. Prendiamo ad esempio il filosofo francese André Tosel, che di recente ha pubblicato un libro intitolato "Etudes sur Marx", ancora inedito qui in Italia. In quest'opera Tosel auspica il ritorno del comunismo, ma di un comunismo "maturo" che sappia trarre vantaggio dagli errori compiuti dal suo predecessore "arcaico", l'unico responsabile dei disastri commessi sotto la bandiera della falce e martello. E fra questi errori da correggere sulla via della saggezza, Tosel indica niente meno che la cieca fiducia nel progresso, l'egemonia del partito e quella dello Stato. Proprio un gran bel ragionamento. Il marxismo ha ancora tanto da dare. Basta che faccia a meno del pensiero di Marx.
P.N.
Quale sedativo, quale carcere sotto mentite spoglie è più adatto della scuola per inaffiare gli ardori adolescenziali? Chi di voi ha assaporato la spensieratezza del marinare la scuola sa bene quanto quelle ore di diserzione strappate a quegli squallidi banchi, sui quali tutti i giovani, per un motivo o per un altro, sono costretti a posare le chiappe, siano molto più rinfrancanti di qualsiasi ora di lezione. Stare lì davanti ad un educatore col sol compito di non guastargli l'umore e di imparare a memoria tutto quello che dice, oltre ad essere un'insopportabile violenza, è cosa noiosa. Marinare la scuola ci si presenta, quindi, come attività ludica e, perché no, come un assaggio di libertà. Essendo la libertà l'antitesi della legge, quest'ultima tende a rinvigorirsi proprio cercando di annullare quelle che sono le possibilità di movimento degli individui che intende programmare per il suo tornaconto. Ecco così che nel paese, a detta di molti, più libero del mondo, spuntano fuori provvedimenti legislativi spudoratamente tesi all'annullamento delle libere scelte dei giovani, «future baionette della patria». Nell'Oregon, una delle pezze dello straccio americano, per prevenire gli allontanamenti dalle aule (ingiustificati, dicono), le autorità hanno deciso di rispolverare tre delle mitiche figure di ogni democrazia: l'infame, lo sbirro e il boia. Saranno premiate con trecento dollari quelle brave persone che, individuato un alunno lontano dall'aula-cella a lui destinata, lo acciufferanno e lo condurranno al cospetto del preside. Non solo. Altri duecento "verdoni 'd3 saranno dati in premio a chi, con costanza, appiccicherà occhi da investigatore addosso a studenti particolarmente refrattari, "a rischio", e trecento ancora se questi, praticamente sfiancati dalle persecuzioni, alla fine dell'anno verranno promossi. Quando si dice "l'impegno". Personalmente sto per essere assalito da pesanti spasmi e, a pensarci bene, sono rimasti in pochi ad adirarsi ancora nel sentire parlare di questo tipo di personaggi. Nella comunità democratica ognuno è l'infame, lo sbirro, il boia di se stesso e degli altri. Io non voglio fare parte, di questa comunità. Anzi, per fugare ogni dubbio, tenterò, per quanto mi è possibile, di raderla al suolo. Nella speranza che nessuno venga a dirmi che in un modo o nell'altro pure io ci partecipo. Il sogno americano non è che il peggiore degli incubi, quello in cui tutti sono addormentati e le fantasie studiate, centellinate e distribuite dal padrone dei sogni di tutti: lo Stato.
Il notturno
OSVALDO BAYER
Gli anarchici espropriatori e altri saggi sulla storia
dell'anarchismo in Argentina
Edizioni Archivio Famiglia Berneri, Cecina 1996
pagine 128, lire 15.000
Che compito arduo quello degli storici dell'anarchismo. Il più delle volte sono tristi personaggi che, scontenti del loro presente di addomesticatori universitari, si tuffano nel passato in cerca di quelle emozioni forti che la storia del movimento anarchico è certamente in grado di regalare. E allora studiano, ricercano, indagano sulle antiche rivolte, sfiorano con le dita documenti che ancora oggi urlano la loro rabbia, il loro odio per il potere e il loro amore per la libertà. Ma come fa un topo di biblioteca a parlare di tutto ciò? Come può un morto, poiché ha il cuore rinsecchito e i desideri spenti, occuparsi di ciò che è vivo? Non lo può fare, è semplice. A suo modo, questo libro di Bayer ne è una perfetta dimostrazione. Per metà il libro contiene un saggio sugli anarchici espropriatori che agirono in Argentina dal 1919 al 1936 e che ebbero - è lo stesso autore a riconoscerlo - «una grandissima importanza nel nostro paese». L'argomento è affascinante, ma presenta un problema che Bayer sintetizza magistralmente nelle prime battute del suo testo, scritto nella metà degli anni settanta, e sul quale torna più volte: «Ricordare e documentare non significa certo condividere. Illustrare obiettivamente la realtà sociale di solo tre o quattro decenni fa è difficile e, oltretutto, rischioso. Proprio perché a volte si confonde obiettività con adesione». Come a dire, non è che occupandosi di certe tematiche, che da sempre eccitano la fantasia di molti, qualcuno può fare confusione? Si sa, purtroppo non mancano i giovani compagni incapaci di digerire le loro letture, così come non mancano inquirenti che non riescono a distinguere fra la bizzarra passione di uno studioso e l'interesse di un sovversivo per chi lo ha preceduto. Ma Bayer non è il solo ad essere terrorizzato dalla possibilità che la sua materia di studio possa uscire dai libri per sparargli addosso. Anche i curatori di questa edizione italiana devono esserlo, se è vero che hanno scelto come foto di copertina quella che raffigura Severino Di Giovanni, il più noto anarchico espropriatore vissuto in Argentina, con le mani legate dietro la schiena e circondato da guardie, pochi attimi prima della sua fucilazione. Come a dire, eccoli là gli anarchici espropriatori, guardate la fine che fanno. Bayer quindi non condivide le azioni di quegli anarchici lontani, per le cui idee riesce a coniare l'aberrante definizione di "anarchismo criminale", vuole esserne soltanto il freddo e distaccato narratore. Ma, a dire la verità, tutto il suo distacco non riesce a raffreddare ciò che prende in considerazione. A distanza di anni, e malgrado la cautela dell'autore nel riportare i fatti, la rivolta di Wladimirovich, Di Giovanni, Durruti, Roscigna, Uriondo, i fratelli Moretti, Morán, Gavilán e molti altri ancora - una rivolta che non si limitava agli espropri - continua a bruciare, a scaldare il cuore di chi non si è rassegnato all'idea che la libertà si possa trovare solo in un lontano passato che non tornerà. Chi non vuole rimanere scottato basta che se ne tenga alla larga; non occorre indossare l'uniforme del pompiere. Quanto agli altri saggi presenti in questo libro, a parte quello sui ribelli di Jacinto Arauz, non hanno granché destato il mio interesse. Anzi, uno sì: quello sullo scandalo di Palomar. Ad essere interessante non è tanto il saggio in sé, ma caso mai la scelta di includerlo in un libro che porta un simile titolo. Mi domando infatti cosa c'entri uno scandalo che vide coinvolto il regime argentino con la storia dell'anarchismo. E non riesco a trovare risposta. La mia mente va diritta diritta all'ultima frase di questo saggio - che è anche l'ultima del libro -, che fa da contraltare agghiacciante con le iniziali prese di distanza dagli anarchici espropriatori: «vada il nostro plauso a quel Parlamento del 1940 e a quei deputati che seppero scoprire la verità. Dal che rimane ben chiaro che vi sono sempre uomini degni, anche nelle epoche più oscure». Eccola qui la morale di Bayer: agli anarchici espropriatori, il nostro interesse da eruditi del Nulla. Ai parlamentari, «uomini degni», il nostro plauso. Ma forse la mia è solo maligna faziosità.
A.P.
Un pugile è morto sul ring. È successo qualche giorno fa, ad Avenza, mentre Imparato stava difendendo il titolo italiano dei pesi medi. Lo sfidante, De Chiara, non ce l'ha fatta a portare a casa né la cintola di campione, né la pelle. Quest'ultima l'ha lasciata in un ospedale pisano, mentre i suoi organi sono già surgelati dagli impazienti medici. Il certificato di morte è stato firmato e la bara a quest'ora sarà sotto qualche palmo di terra. Che conclusione trarre da questo evento? La migliore è la più ovvia: di cazzotti si muore. Forse qualcuno non se lo ricordava più. Questi pugilini degli ultimi anni, almeno, ce lo avevano fatto dimenticare. Profumatissimi anche sul ring, abituati a scambiarsi i colpi più pesanti durante le conferenze stampa, abbracciati alle loro topone extra-lusso e circondati da organizzatori che nulla hanno da invidiare a certi gangster o capi-mafia da fumetto, che cosa è rimasto di brutale nei pugili odierni? Che stuprino, che ammazzino, che gettino la moglie dalla finestra (come ha fatto Monzon), che possano vantare fedine penali lunghe un miglio. Tutto questo servirà a costruire la loro immagine, servirà ad alzare i punteggi sul mercato delle scommesse, servirà a ingrassare il loro clan, il loro manager. Anche qui, di brutale, c'è molto poco. È arrivata, e sotto gli occhi delle telecamere, la morte di De Chiara. Brutale, questa sì brutale, con quelle gambe scosse da un tremore irrefrenabile. Una morte che fa orrore per chi dietro ad ogni pugile vede la mascella volitiva di Rocky-Stallone, o il faccione ebete di Tyson, il pugile che cammina circondato da guardie del corpo. Una morte che non ci fa pietà né, in definitiva, ci interessa. Al più una morte che farà pubblicità agli organizzatori dell'incontro, i due ippopotami grossetani Rosanna e Umberto Conti-Cavini. Per loro, morto un pugile, viva la boxe.
Arturo Cravani
Verona, 7/11/96
...Arrivato all'interno del carcere di Montorio, ho protestato perché me e Antonio ci tengono separati, pur non avendo nessun divieto d'incontro. A quel punto una guardia della scorta m'ha preso per un braccio strattonandomi all'interno della cella, io gli ho urlato di non permettersi più un gesto simile, lui con le chiavi ha fatto il gesto di lanciarmele addosso, sbattendomi il cancello della cella. Mi sono incazzato dicendogli qualche parola; una volta che hanno chiuso Antonio in un'altra cella, sono tornati nella mia, erano circa in sette, mi hanno preso a calci e pugni in faccia, io ho reagito, ma di fronte a sette guardie inferocite non ho potuto far molto. Dopo circa una mezz'ora è arrivato un ispettore chiedendomi se avevo qualche problema, gli ho risposto che non avevo nessun problema e che la cosa appena successa me la sarei vista personalmente. L'ispettore mi ha detto che, se è successo qualcosa lui non ha visto e sentito nulla, io ho continuato a dirgli che non era un problema se lui non ha visto e sentito nulla. A quel punto mi hanno portato in sezione, nella cella assegnatami l'altro ieri sera. Questo fatto vorrei che tu lo facessi girare nel movimento...
Carlo Tesseri
Cristina Loforte e Pina Riccobono hanno ottenuto gli arresti domiciliari. Nei prossimi giorni il Tribunale della Libertà si pronuncerà su Tiziano Andreozzi.
Per corrispondere con gli anarchici detenuti a Rebibbia, l'indirizzo della sezione maschile è via R. Majetti 165, quello della sezione femminile è via Bartolo Longo 92 - 00156 Roma.
Nella mattina del 6 novembre i carabinieri di Querceta hanno effettuato una perquisizione nell'abitazione di Italino Rossi, amministratore del settimanale anarchico "Umanità Nova". I carabinieri erano alla ricerca di armi, che naturalmente non hanno trovato. La perquisizione pare sia collegata alle indagini sugli attentati contro i tralicci che continuano imperterriti a verificarsi in Toscana.
(dagli interrogatori di Namsetchi Mojdeh, 23 maggio e 20 novembre 1995)
«Insomma il gruppo più consistente di questa organizzazione, era quello che si riuniva o che comunque transitava nella casa del G. e della S. Spesso queste stesse persone le incontravo anche nei centri occupati di questa città ed in particolare nel centro occupato della Garbatella, dove ho conosciuto per la prima volta S., S.M. e la sua compagna M. Voglio aggiungere che ho conosciuto anche un'altra persona che faceva parte dell'organizzazione, si tratta di un siciliano che viveva a Perugia dove gestiva il centro sociale "L'Aria". Qualche volta sono andata anche a casa sua insieme con Tesseri, una volta ricordo che è stata il 26 dicembre 1993, quando mi sono recata con lo stesso Tesseri insieme con la S. e G. per parlare con questa persona del settimanale "Canenero" che doveva ancora uscire. Questa persona si chiama P.S. e la donna con cui lui convive si chiama G., entrambi sono anarchici».
«Anche M.S. e M.S., che ho riconosciuto nel corso della ricognizione fotografica come le persone che avevo visto in casa della S., si occupavano, insieme a S.M., del settimanale "Canenero". A questo proposito voglio precisare che qualche volta parte dei proventi delle rapine veniva mandata a Perugia dove, presso il centro occupato "L'Aria", si stampavano vari documenti anarchici. Il centro era diretto da P.S., che era amico del Tesseri da molti anni. Una volta sono andata a casa sua, a Perugia, mi sembra di ricordare che era il 25 o il 26 novembre 1993. In quell'occasione erano con me Tesseri, G. e S. Voglio precisare che qualche giorno prima, a Firenze, c'era stata una riunione per l'imminente uscita del settimanale "Canenero", per cui la nostra visita al P.S. è stata originata dal fatto che si doveva parlare con lui dell'uscita di tale settimanale».
A suivre
Nel corso di un'operazione poliziesca realizzata dagli uomini della Digos bolognese tra il 23 ed il 26 marzo scorsi, 19 persone - quasi tutti militanti anarchici - sono state fermate a Catania, Forlì, Imola e Bologna... Non si è ancora riusciti a sapere con esattezza di quali reati siano sospettati: sembra comunque che tutti vengano accusati di associazione sovversiva e di partecipazione a banda armata... Gran parte dei compagni arrestati sono tra i promotori ed i collaboratori della rivista Anarchismo... La sua opera di controinformazione e di agitazione non poteva disturbare i piani di pacificazione nazionale e di tregua sociale del regime: arrestandone redattori e collaboratori si vuole mettere a tacere una voce scomoda, irriducibilmente d'opposizione. Contro questa operazione repressiva anti-anarchica il nostro movimento si è schierato compatto già all'indomani degli arresti, nel corso di un'affollata quanto improvvisata riunione nazionale tenutasi a Bologna il 28 marzo. Solo qualche anno fa, una simile retata anti-anarchica sarebbe stata inconcepibile, e in ogni caso avrebbe suscitato reazioni, perplessità e proteste ben al di fuori degli ambienti anarchici. Quando era ancora fresco il ricordo della campagna di controinformazione sulla "strage di Stato", quando le istituzioni pagavano ancora lo scotto della disennata provocazione anti-anarchica del dicembre '69, una simile operazione poliziesca si sarebbe subito ritorta contro i persecutori. Ma da allora ad oggi, ben più di tre o quattro anni sembrano essere trascorsi. Tutta la situazione generale è cambiata. In peggio... Con i compagni di Anarchismo, in particolare, abbiamo verificato profonde differenze sulle forme e sui metodi della lotta anarchica, giungendo anche alla polemica pubblica: niente di straordinario in un movimento come il nostro, che da sempre ha nel pluralismo uno dei suoi tratti essenziali. Non abbiamo niente da nascondere: il mito dell'omogeneità assoluta e la pratica della menzogna non sono mai stati appannaggio del nostro movimento. Con altrettanta chiarezza vogliamo ricordare ai signori della repressione e della criminalizzazione che di fronte al tentativo di mettere a tacere una rivista anarchica, arrestandone redattori e collaboratori, tutto il movimento anarchico è unito e solidale. La liberazione dei compagni di Anarchismo è un impegno di lotta che coinvolge tutto il nostro movimento, perché il loro arresto ci colpisce tutti.
(Paolo Finzi, "Una retata anti-anarchica", da A rivista anarchica, maggio 1980)