
CANENERO - Casella Postale 4120 - 50135 Firenze -Telefono e Fax 055/631413
Tenuto conto della forma agile del giornale, i contributi scritti non devono superare lo spazio di una cartella, spazio 2. La redazione si chiude alle ore 22 di ogni lunedì, tranne che per notizie dell'ultima ora di particolare rilevanza. Le spedizioni partono mercoledì sera e arrivano a destinazione entro venerdì.
Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n.
18/89 del Tribunale di Cagliari
Lo scorso Martedì 10 dicembre si è aperta a Roma, nella sala Occorsio del tribunale, l'udienza davanti al giudice per le indagini preliminari, che deve decidere se rinviare a giudizio 68 imputati - quasi tutti anarchici - inquisiti per banda armata e altri reati ad essa connessi, nell'ambito dell'inchiesta condotta dai pubblici ministeri Antonio Marini e Franco Ionta, che ha portato il 17 settembre all'arresto di numerosi compagni.
Come già previsto, l'udienza è stata rinviata per alcuni vizi di forma, giacché molti imputati non hanno ricevuto la notifica relativa mentre gli avvocati non hanno potuto avere accesso a tutti gli incartamenti della inchiesta. Il gip ha deciso che l'udienza si terrà il 16, 17, 21 e 24 gennaio prossimi, non più presso il Palazzo di giustizia ma direttamente nell'aula-bunker del carcere di Rebibbia, a partire dalle ore 10.
Evidentemente lorsignori non amano la pubblicità non richiesta e anche le poche decine di compagni che stazionavano fuori dell'aula Occorsio - ricordiamo che le udienze preliminari si celebrano a porte chiuse - in attesa di conoscere l'esito dell'udienza e in solidarietà con gli anarchici inquisiti, devono aver infastidito qualcuno. Queste cose è meglio farle all'interno di un'aula-bunker, si è più sicuri. E più sicuro si sentirà sen-z'altro il coraggiosissimo Antonio Marini, che ha lasciato l'aula del tribunale a testa bassa e accompagnato dai suoi guardaspalle, preoccupato che qualche malintenzionato potesse offendere la sua persona. Almeno lì a Rebibbia, il pubblico non potrà nemmeno essere presente davanti l'aula, e ci penseranno sbirri e guardie varie a tranquillizzare con una massiccia presenza i magistrati.
Tutto rinviato, quindi, al prossimo gennaio.
Tre giorni dopo, venerdì 13, si è tenuto a Trento il processo d'appello contro gli anarchici Antonio Budini, Carlo Tesseri, Christos Stratigopulos e Jean Weir, accusati di aver rapinato contemporaneamente due banche nei pressi di Trento nel luglio di due anni fa. Come i lettori ricorderanno, il processo di primo grado si era concluso con una condanna a sette anni per Carlo e a sei anni e mezzo per gli altri, grazie all'improvvisa comparsa sul palcoscenico giudiziario della pentita Mojdeh Namsetchi, l'ex ragazza di Carlo, che si era autoaccusata di aver partecipato a quella rapina allo scopo di poter incastrare i compagni. Nel corso della prima udienza di questo processo, tenutasi lo scorso 7 novembre, gli avvocati della difesa avevano messo in luce le numerosissime contraddizioni in cui era caduta la collaboratrice di giustizia - sulle cui rivelazioni si basa tutta l'inchiesta Marini - chiedendo per lei un nuovo interrogatorio, e chiedendo che venisse sentito anche il maresciallo dei carabinieri che aveva usato le proprie arti di persuasione per spingerla a confidarsi col giudice Marini.
Ebbene, questo maresciallo dei carabinieri - tale Mercurio Farino - non si è presentato affatto in tribunale, inviando al suo posto un certificato medico che lo dava per ferito nel corso di un conflitto a fuoco avvenuto, guarda caso, proprio pochi giorni prima dell'udienza e impossibilitato a muoversi per la bellezza di sei mesi. Nessuno potrà mai fargli domande indiscrete su come abbia conosciuto, del tutto casualmente per carità, questa ragazza.
In compenso c'era lei, Mojdeh Namsetchi. Il suo interrogatorio è avvenuto a porte chiuse, senza la presenza del folto pubblico di compagni accorsi da tutta Italia e anche dall'estero, mentre lei era protetta da un paravento e da quattro carabinieri dei Ros. Si pensava, per la verità un po' preoccupati, che questa ragazza aveva avuto tutto il tempo necessario per imparare a memoria quattro dati e far combaciare tempi e modalità della rapina. Invece, niente. Per la seconda volta consecutiva, il suo interrogatorio si è rivelato una pagliacciata, talmente clamorosa da lasciare interdetto lo stesso procuratore generale, rappresentante dell'accusa. Le sue risposte non sono andate più in là dei non so, non ricordo e di qualche altro monosillabo, ripetendo e anzi aumentando le contraddizioni già emerse nel corso del suo primo interrogatorio. Ha lasciato l'aula in lacrime, sola e disperata. Uno spettacolo che ha suscitato più compatimento che rabbia. Un altro teste, un dipendente della banca, ha poi smentito ulteriormente le dichiarazioni di questa ragazza, fornendo una versione del comportamento della rapinatrice del tutto differente dalle sue dichiarazioni.
Alla luce di tutto ciò, l'imbarazzatissimo pubblico accusatore ha chiesto alla Corte di tener presente che le dichiarazioni della pentita bisogna considerarle ininfluenti per l'esito del processo, in quanto la colpevolezza degli imputati sarebbe già ampiamente dimostrata dalle immagini riprese dalle telecamere delle banche e dai riconoscimenti dei suoi impiegati. Ha concluso la propria requisitoria chiedendo la condanna a tre anni come continuazione del reato di rapina per tutti gli imputati, con l'esclusione di Jean Weir, per la quale ha chiesto l'assoluzione.
La sua richiesta - da cui traspare l'esplicita ammissione della non attendibilità di Mojdeh Namsetchi - ha acceso le speranze in una possibile assoluzione da parte del folto pubblico, che ha atteso con trepidazione la sentenza. Dopo diverse ore di camera di consiglio, verso le 23, la Corte d'appello del tribunale di Trento ha inaspettatamente condannato a due anni di reclusione con la continuazione tutti gli imputati, nessuno escluso. Giustizia è stata fatta.
In attesa di conoscere i motivi della sentenza - che dovrebbero essere resi noti fra circa un mese - questo processo ha fatto comunque emergere qualcosa di positivo: l'assoluta incapacità di Mojdeh Namsetchi di recitare il ruolo della pentita. L'inchiesta Marini comincia a perdere colpi.
E mentre a Roma il 10 dicembre si apriva nel più assoluto silenzio stampa la commedia giudiziaria contro gli anarchici, lo stesso giorno avvenivano inquietanti episodi dal sapore burlesco a Roma e a Firenze, sui quali i giornalisti non hanno proprio potuto fare a meno di soffermarsi, lanciandosi in stravaganti congetture per comprendere i motivi e gli autori di quelle azioni. Si tratta forse di una goliardata? di buontemponi che godono dell'anonimato? di un gesto politico? di teppisti ben organizzati? Chi è abituato a interpretare le cose per mestiere, a catalogarle, a pianificarle, non concepisce l'imprevedibile e rimane spiazzato di fronte al gesto che appare insensato.
A Roma è stata presa di mira l'azienda dei trasporti pubblici nel sottosuolo, che la mattina del 10 dicembre ha avuto un gran brutto risveglio, dovendo intervenire forzatamente per spalancare un centinaio di cancelli di ventisette stazioni della metropolitana disseminate in tutto il territorio cittadino, sigillati nottetempo con scaglie di ferro, silicone e acciaio liquido. C'è voluta mezz'ora, in qualche caso un'ora, prima che i pendolari in attesa di raggiungere il rispettivo posto di lavoro, potessero riconfluire nel flusso mortificante del tran tran quotidiano.
A Firenze la Procura della repubblica si è vista invadere i propri locali da una trentina di influenti cittadini - uomini d'affari, politici di diverse aree di intervento, assessori e consiglieri comunali, docenti universitari, giornalisti, funzionari - preoccupatissimi per essersi visti recapitare una convocazione firmata dal procuratore capo Pier Luigi Vigna che perentoriamente li invitava a presentarsi presso quella Procura, pena l'intervento della forza pubblica. Si trattava di un falso ben confezionato, imbucato in centinaia di cassette postali - hanno detto in Procura, la quale ha istigato i vip inviperiti a sporgere immediata denuncia. Una sgradevole esperienza, secondo uno dei malcapitati - il professor Fondelli - che ha dichiarato: Quando ho ricevuto la convocazione ho cominciato a farmi un esame di coscienza. Ma non trovavo nulla... Poi ho cominciato a pensare che qualcuno m'avesse tirato in ballo per chissà che cosa. Leggendo i giornali, in questi tempi non si sa che cosa pensare... Insomma, devo riconoscere che pur avendo la coscienza tranquilla ho passato una notte piuttosto inquieta. Eh sì, in questi tempi se ne leggono di notizie sui giornali. Vigna non ha gradito lo scherzo e il suo galoppino Fleury ha cominciato a darsi da fare per individuare i responsabili del disturbo della quiete sociale.
Penelope Nin
Mercoledì 18 dicembre la Corte di Cassazione ha annullato il verdetto di colpevolezza che la Corte d'appello di Bologna aveva emesso nel febbraio 1995 contro gli imputati del processo per il sequestro Silocchi, fra cui figurano anche alcuni anarchici. I magistrati della Cassazione hanno dunque accolto il ricorso presentato dagli avvocati difensori. Il processo per il sequestro Silocchi è quindi da rifare, da un'altra sezione della Corte d'appello di Bologna, in data da destinarsi.
1 dicembre - Montreuil (Francia). Un alunno ha dimostrato il suo disappunto all'insegnante che l'aveva sospeso, prendendola a pugni.
3 dicembre - Palermo. Un incendio doloso ha incenerito i trecento metri quadri degli uffici della Saipem, azienda capofila nella metanizzazione.
3 dicembre - Cordoba (Argentina). Violenti scontri fra polizia e manifestanti che reclamavano il pagamento degli stipendi arretrati. Dodici sono stati i feriti.
9 dicembre - Grenoble (Francia). Durante un corteo contro Le Pen i manifestanti hanno lanciato sassi e bulloni all'indirizzo della polizia che tentava di impedire l'assalto della folla ad un edificio dove lo stesso Le Pen stava inaugurando una nuova sede del Fronte nazionale. Sette agenti sono rimasti feriti.
9 dicembre - S. Vincent (AO). Un finto pacco-bomba è stato lasciato nei servizi igienici dei locali del Casino. Le forze dell'ordine intervenute in massa hanno poi constatato che l'ordigno era un semplice contenitore riempito con stucco.
9 dicembre - Roma. Qualcuno ha appiccato il fuoco ad un negozio di materiale informatico. Apparecchiature ed accessori sono andati distrutti. I danni ammontano a decine di milioni.
9 dicembre - Gent (Belgio). Ignoti si sono introdotti nel Palazzo di giustizia, dove si sono impossessati di sofisticate attrezzature da scasso sequestrate in precedenza e con quelle hanno aperto la camera blindata che conteneva una grande quantità di armi, portandole via tutte.
10 dicembre - Inghilterra. Un pirata informatico ha manomesso il sito Internet del partito laburista inglese arricchendolo di una zona a luci rosse: The Labour Party Sex Shop.
11 dicembre - Milano. Il traffico stradale cittadino è rimasto paralizzato per un paio d'ore a causa di una telefonata anonima che aveva preannunciato lo scoppio di una bomba davanti alla sede della Banca Commerciale Italiana.
11 dicembre - Firenze. Appiccato il fuoco ad alcuni manifesti del Fuan affissi sulla porta della sede, mentre all'interno si svolgeva una riunione.
12 dicembre - Torino. Un nigeriano ha malmenato tre vigili urbani dopo che questi gli avevano sequestrato l'auto, sprovvista dei documenti di immatricolazione.
15 dicembre - Arezzo. Alle prime ore dell'alba sono stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco contro un carabiniere in automobile, il quale è rimasto ferito.
17 dicembre - Landsberg (Germania). Due ragazzi di 9 e 10 anni e una ragazza di 11 sono stati arrestati per aver cercato di estorcere a una ditta un miliardo di lire, minacciando un attentato.
17 dicembre - Volterra (PI). Al termine di una rappresentazione teatrale che vedeva recitare i detenuti, due di questi han pensato di mettere in scena una evasione dal teatro posto di fronte alla prigione, lasciando allibiti i propri carcerieri.
Rimettere in gioco il passato per fare dell'avvenire un'avventura. In questa prospettiva credo siano racchiuse le ragioni per impedire che le esperienze passate, teoriche e pratiche, diventino materiale per gli storici.
La Storia è sempre storia dei padroni, e questo non solo perché, come si sa, sono loro a scriverla, ma anche perché questo mondo, il loro mondo, ci costringe a guardarla con i suoi occhi. Gli organizzatori dell'obbedienza hanno sempre fatto un uso propagandistico e poliziesco del passato, ma questo non impediva loro di conoscerlo. Anzi, proprio questa conoscenza ha permesso al potere di unire gli avvenimenti nella coerenza del controllo, del sacrificio e della repressione. Perché il passato svolga la sua funzione di apologia dell'attuale società, bisogna, come minimo, sapere cosa togliere, e cioè le ragioni e gli episodi più significativi delle lotte degli sfruttati - tutto quello che la Storia presenta semplicemente come sconfitte. Gli sfruttati, al contrario, raramente hanno saputo sottrarre la storia ad una piatta cronologia - oppure ad una visione da calendario, con tante date da celebrare - per trovarvi un'altra coerenza, quella della rivolta, e di quest'ultima comprendere così i motivi, i momenti più radicali, i limiti.
Gli apologeti del dominio non hanno smesso, ovviamente, di riscrivere il passato, ma lo conoscono sempre meno. In un mondo in cui ad ogni causa di malessere si risponde con un rimedio ancora peggiore che garantisce soltanto la totale irresponsabilità a chi lo applica; in cui la passività nel lavoro è prolungata nel tempo libero attraverso la contemplazione di uno schermo (la televisione o il computer); in cui i padroni stessi - forti della rassegnazione che gli si concede, nella speranza che, almeno loro, sappiano dove si sta andando - sono tanto più sicuri di sé quanto più hanno fatto propria la legge del finché dura - in un tale mondo dell'idiozia che si vuole eterna, il passato non ha alcun senso. Ora, se da un lato questo rafforza il totalitarismo della presente società (fuori di me, il nulla), dall'altro rende più stupidi i suoi amministratori. Al momento, se lo possono permettere. L'intelligenza - anche storica - di una strategia di conservazione è sempre proporzionale ai pericoli della rivolta.
Di pari passo (ecco perché dicevo che alla storia si guarda con gli occhi dei padroni), anche i sovversivi si sono sentiti più liberi una volta sgravati dal peso della conoscenza del passato. Si è diffusa l'idea che la storia (non solo quella degli specialisti, ma anche quella che non separa le idee e le azioni, che si scrive nei desideri e che arma l'intelligenza) finisce per imprigionare la vita. Ciò che sfugge è quanto storica sia questa idea. (Che differenza c'è se una riflessione nasce leggendo quello che qualcuno ha detto oppure se nasce conoscendo ciò che questo qualcuno ha fatto? Pensiamolo di tanti individui assieme. Perché la prima riflessione è considerata, ad esempio, filosofia, mentre la seconda è considerata storia? La distinzione, a mio avviso, non esiste). Parafrasando un noto aforisma, si potrebbe solo dire che l'ignoranza del presente ha valore retroattivo. Ora, questa ignoranza ha molte facce, se, come è evidente, i suoi spacciatori sono per primi gli storici (compresi quelli di movimento).
Per non andare troppo lontani, basta pensare a tutto il rumore pubblicitario a proposito di un film sulla rivoluzione spagnola. A molti anarchici non è sembrato vero. Finalmente, la bandiera rossa e nera, i sindacati rivoluzionari, le collettività, l'autogestione, Durruti. Adesso a parlare, a dire la verità, siamo noi.
Personalmente, mi sembra ovvio, non ho nulla contro i dibattiti o i libri sulla Spagna rivoluzionaria. Ma tutto questo parlarne, ha contribuito a far conoscere meglio (e questo meglio, per gli anarchici, dovrebbe essere nel senso di una prospettiva attuale) quei lontani avvenimenti? Francamente non lo credo. Mi è sembrato, al contrario, un contributo in più alla mummificazione, alla testimonianza, alla storia monumentale. L'occasione, come spesso accade, aveva predeterminato i contenuti. Sono aumentati i libri sulla rivoluzione libertaria. Eppure, cosa si è detto a proposito di un movimento rivoluzionario - non solo spagnolo - come quello degli anni trenta? Cosa significherebbe adesso l'autogestione delle fabbriche? Che farsene dei sindacati? A quali luoghi del capitale potrebbe essere legata ora un'ipotesi insurrezionale? Come creare le possibilità perché nel mentre rivoluzionario si passi subito, senza transizioni, alla distruzione o alla trasformazione radicale di questi luoghi? Cosa significa, realmente, abbattere l'autorità? Cosa significa, realmente, abolire il mercato? Solo ponendo problemi come questi assume un significato parlare della Spagna rivoluzionaria. Solo così essa stessa diventa un problema aperto. Poco si può capire, invece, se ad essa si guarda come alla realizzazione, sia pure temporanea, di un ideale. Con un simile approccio, si possono solo distribuire santini. E allora, per questa celebrazione, bisogna fare indossare a tutti gli avvenimenti (anche al controllo burocratico e alla controrivoluzione dei dirigenti anarchici) il vestito della domenica. Perché, ad esempio, si sa così poco sulle giornate del maggio `37 a Barcellona? Perché non si parla degli appeli di quegli incontrollati che dicevano che i ministri anarchici erano reazionari come tutti gli altri, e che anche a loro, come a tutti gli altri, bisognava sparare?
Se il suggerimento teorico per una pratica da reinventare lo si legge nei fatti stessi, qualche pagina di storia dice più di un'intera enciclopedia. Basta saperla leggere. Interessante sarebbe allora riflettere davvero sulle porcherie e sugli errori (e sulla splendida, gioiosa forza) di quei giorni. Unire quei giorni ad altre insurrezioni, ad altri errori. Unirli al presente. Si potrebbe, tanto per fare un esempio, rileggere la storia dei movimenti insurrezionali attraverso la frattura - morale, prima che poliziesca - rappresentata dal denaro (si pensi al rifiuto di assaltare le banche, a partire dalla Comune di Parigi, passando per la Spagna rivoluzionaria, fino ad arrivare al Maggio francese; oppure, al contrario, agli espropri degli operai nella Patagonia ribelle degli anni trenta). Così come si potrebbe rileggerla sotto il segno sotterraneo della gratuità e della festa, oppure dei rapporti amorosi. Oppure, oppure.
Tante cose, tutte importanti.
Ma chi di attaccare la proprietà, di far tacere i capi e di scuotere gli attuali rapporti sociali non ha alcuna intenzione, cosa potrà mai dirci sugli individui che hanno cercato di farlo ieri, l'altro ieri o sessant'anni fa?
Massimo Passamani
L'otto marzo si scende in piazza per urlare a voce alta che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, in quanto ne condividono la stessa miserabile vita.
Il venticinque aprile si scende in piazza per festeggiare la sconfitta del fascismo brutto e cattivo che ha trascinato il paese in guerra, e il trionfo della democrazia bella e buona che l'ha riempito di cemento e di merci.
Il primo maggio si scende in piazza per celebrare il lavoro, dato che quando manca non si mangia (anche se quando c'è non si vive).
Invece, il dodici dicembre si scende in piazza per invocare la Verità sulla strage di piazza Fontana.
Sono belli, gli anniversari. Precisi, puntuali, impossibili da dimenticare, visto che si preannunciano sempre fragorosamente. Via, tutti giù in piazza, a urlare, a gioire, a manifestare. Una bella parata di coscienze offese e indignate. Poi, il giorno dopo, a scadenza superata, si rimettono negli armadi le bandiere, ci si ricaccia in gola i bellicosi slogan, si chiude a doppia mandata il proprio cuore. Va bene protestare, ma dentro certi limiti.
Prendiamo ad esempio l'anniversario della strage di Stato, di cui pochi giorni fa ricorreva il ventisettesimo anniversario. Ma ve lo immaginate un anno senza mobilitazioni previste per il 12 dicembre? é una ricorrenza importante questa, poiché se non si ha una data in cui sfoggiare una coscienza indisposta si corre il rischio di non sapere più se la si ha, la coscienza. Eppure, questa ricorrenza è in pericolo, in serio pericolo. Pare infatti che un magistrato milanese dallo stravagante passato di militante anarchico (?) sia riuscito a dare un nome e un volto al responsabile materiale di quella strage. Secondo una tardiva confessione fatta da due fascisti al giudice Salvini, risulta che a deporre la bomba all'interno della Banca nazionale dell'agricoltura sarebbe stato tale Delfio Zorzi, estremista di destra, aiutato dai suoi camerati e da agenti della Cia. Se così davvero fosse, il chi non è più un mistero.
Sul perché, nessun giudice si è ancora pronunciato. Un servitore dello Stato ha qualche difficoltà a spiegare perché il suo datore di lavoro ha fatto un tale scempio dei propri cittadini. Eppure, nemmeno il perché di quell'avvenimento è un mistero, giacché è stato più volte affermato: per scongiurare una possibile rivoluzione sociale. Paroloni grossi, è vero, eppure è proprio così. All'epoca la gente era un po' sempliciotta, capace di prendersela con l'autorità costituita, di occupare scuole e fabbriche, scontrarsi con la polizia, abbattere le statue raffiguranti i padroni, e tenere quotidianamente altri atteggiamenti massimalisti del genere, superficiali e nichilisti. Bisognava schiarir loro le idee: diciassette morti ed ottantotto feriti. Eccolo qua il perché.
Ed ora? Ora che il chi e il perché di quella strage non sono più sconosciuti, cosa accadrà? Quale altra verità si invocherà, quella su piazza della Loggia? Quella su Ustica? O quella sulla stazione di Bologna? Bisognerà davvero cambiare data alle celebrazioni per la richiesta della Verità, la più antica forma di occupazione della mente umana?
Ma facciamolo in fretta, il nuovo anno è alle porte.
L.R.
Il potere e il suo sfidante si affrontano. Il primo ha tutto: un'organizzazione - lo Stato -, la potenza economica, quella militare, il controllo sull'intera nazione. Il secondo invece dispone di poco. Solo un certo numero di uomini, pieni di disperazione e di qualche arma rudimentale. Ma è animato da una forza propulsiva terribile, l'ambizione al dominio. Tanto gli basta per lanciare la sfida. Sa di essere inferiore all'avversario, per questo deve colpire e fuggire, colpire e fuggire. E un potere, seppure in embrione, quando deve colpire conosce solo uno strumento: il terrorismo, l'uso volutamente cieco e indiscriminato della violenza. Come quello che lo scorso 3 dicembre, a Parigi, ha provocato la morte di due persone e il ferimento di altre cinquanta, dilaniate dall'esplosione di una bomba avvenuta in una carrozza della metropolitana.
é tornato il terrorismo - hanno preso a strillare i mass media di tutto il mondo. é tornato? Ma quando mai se n'era andato?
Certo, il terrorismo del potere sfidante è palese e viene immediatamente denunciato come tale dai mezzi di informazione del suo rivale. Ma il terrorismo del potere in carica, il terrorismo dello Stato, di qualsiasi Stato, chi avrà l'ardire di denunciarlo? Le immagini di quei corpi straziati hanno fatto il giro del mondo, riscosso l'orrore di tutti, ma bastano forse a far dimenticare che per il potere (e per chi ne è in cerca) le persone comuni sono sempre state considerate carne da macello. Squartarle in una stazione della metropolitana o su un campo di battaglia, non fa la minima differenza.
Quei morti e quei feriti, sono gli stessi morti e feriti causati dai bombardamenti aerei, sono gli stessi che vengono seminati ogni anno sui posti di lavoro, nelle caserme e nelle questure, sono gli stessi causati dalla diffusione di sangue infetto - operata anche dallo Stato francese - qualche anno fa. Gli stessi provocati dalla cementificazione selvaggia, dalle centrali nucleari, dalla sofistificazione degli alimenti, dall'inquinamento atmosferico, dalle malattie psicosomatiche generate dalla nostra condizione di abitanti di questo mondo.
Eccola qui, la violenza che ci colpisce tutti, in maniera cieca e indiscriminata. Eccolo qui, il terrorismo di Stato.
M.F.
Lo scorso 4 dicembre migliaia di studenti sono scesi in piazza in tutta la Spagna per protestare contro la politica del governo sulla scuola, in una giornata di rivendicazione che a Madrid è sfociata in violenti scontri con le forze dell'ordine. Il raduno di fronte al Ministero dell'educazione e della cultura è stato ravvivato da lanci di uova e pietre contro i dirigenti del sindacato degli studenti e contro altri oratori, finendo poi in una rissa generale. Il tutto è cominciato quando alcuni studenti hanno cercato di impadronirsi del microfono per poter esprimere le proprie critiche nei confronti del sindacato, prontamente impedite dal servizio d'ordine. Dopo insulti reciproci, è iniziato il lancio di oggetti contro il palco, e infine gli scontri.
La mattina del 5 dicembre, un gruppo di oltre un centinaio di militanti del sindacato anarchico Cnt, appoggiato dai compagni in strada, è entrato con la forza nell'edificio che ospita il Consiglio economico e sociale (Ces) a Madrid. Armati di vari oggetti contundenti e di coltelli, gli anarchici si sono prima scontrati con gli uomini del sistema di sicurezza, poi hanno occupato una sala, infine alcuni di loro hanno percorso tutto l'edificio, stanza per stanza, devastando tutto ciò che capitava loro a tiro: rotti i vetri, distrutti i computer, strappati i microfoni e l'impianto di amplificazione, sfondate le porte, coperte le pareti di scritte con insulti al governo, al padronato e ai sindacati, sparso ovunque liquido infiammabile. L'obiettivo dell'azione era quello di reclamare il patrimonio storico che fu sequestrato alla Cnt durante e dopo la rivoluzione del 1936. Tutti i compagni sono stati arrestati dalla polizia, al termine di una battaglia durata due ore.
Lo scorso 7 dicembre gruppi di persone mascherate hanno effettuato numerosi sabotaggi in vari villaggi della Navarra. A Pamplona la polizia ha sequestrato 90 bottiglie molotov e otto chili di bulloni, fermando cinque giovani. Diversi incidenti sono iniziati venerdì sera a Matla, nella regione di Guipuzcoa. Alcuni giovani hanno iniziato a incendiare cassonetti, fino all'arrivo della polizia, che è stata accolta dal lancio di bottiglie molotov. Sempre nella stessa regione è stata data alle fiamme un'automobile della Guardia Forestale, mentre a Elorrio, in Vizcaya, un commissariato della polizia basca è stato fatto oggetto del lancio di bombe incendiarie da parte di un gruppo di persone, che poi hanno riservato uguale trattamento anche alle sedi di Bbk e Bbv.
Scontri e sabotaggi sono stati segnalati in altre zone dei paesi baschi, dove i vigili del fuoco hanno avuto un gran da fare.
Anche sotto l'egida della contestazione e dell' autogestione la scuola si rivela per quello che è: un luogo di formazione, se non della classe dirigente, quanto meno della manodopera dequalificata e flessibile che sarà impiegata a produrre la pace sociale di domani. Le occupazioni studentesche di quest'ultimo mese, simili a quelle degli scorsi anni, hanno dimostrato quanto desiderio di disciplina e quali forme di autorepressione si possano sperimentare in contesti del genere. Nelle assemblee risuonano gli appelli per l'unità tra gli studenti, grazie ad una sorta di ecumenismo tra destra e sinistra venato da una morbida antipatia. Qualcosa però, alla Sapienza di Roma, non va per il verso sperato da qualche giovane politicante in erba: la sera del 14 Dicembre, nel piazzale Minerva - che divide la Facoltà di Giurisprudenza da quella di Lettere, rispettivamente occupate da studenti di destra e di sinistra - gli opposti schieramenti iniziano a fronteggiarsi. Poteva sembrare la solita scaramuccia condita dall'avvizzita retorica antifascista, ma l'intervento della polizia, chiamata dal rettore Giorgio Tecce per evitare la rissa, rivela che gli occupanti di Lettere non erano impreparati. D'un tratto la presenza dei servizi d'ordine e dei piccoli leader scema per lasciare spazio a scontri che si protraggono sino all'alba, e che non possono essere opera di una minoranza, seppure bene organizzata. Può anche darsi che gli studenti abbiano deciso di seguire le indicazioni di Cossiga, che ha dichiarato la propria predilezione per un ritorno alle botte, in piazza e in Parlamento. Così contro i lacrimogeni ed i manganelli cominciano a volare bottiglie, sassi e qualcos'altro. Ma dove ancora non sono chiare le ragioni della propria rabbia, più facile diventa il gioco di alcuni deputati del Prc i quali, attraverso una sapiente mediazione, riescono a far sgomberare le facoltà senza bisogno di cariche e lacrimogeni.
Le parole di condanna della violenza e la sicumera con cui il rettore individua la causa dello spiacevole episodio nell'infiltrazione di elementi autonomi all'interno dell'Ateneo, hanno lo scopo di nascondere la paura che dietro una protesta di carattere riformista, rinchiusa inizialmente dentro lo schema del dialogo democratico, si celi qualcosa di più profondo. Magari un confuso desiderio di distruzione di uno degli edifici che contribuiscono a privare di un possibile senso la vita, dove il sapere viene svilito a semplice conoscenza di protocolli e di procedure utili soltanto ad istanze produttive o al raggiungimento di un qualunque status sociale.
Davide
La guerra civile scoppiata in Ruanda è cosa ormai lontana e, nonostante la grande messe d'informazioni che allora venivano stampate e teletrasmesse, poco o niente, tranne le cifre di un genocidio costato la vita ad oltre ottocentomila persone, siamo riusciti a comprendere di quel conflitto. Qualcuno però aiutava le fazioni in lotta a compiere la carneficina: preti, suore e missionari cattolici. Molti religiosi collaboravano a pieno titolo ai massacri, come quelle due pie sorelle che fornivano taniche di benzina agli Interahmwe - la milizia Hutu - per bruciare le capanne dei Tutsi, mentre alcuni sacerdoti schedavano gli avventori delle parrocchie per consegnarli a questa stessa milizia. Immancabile la reazione del Papa che, condannando le responsabilità dei preti assassini, ha affermato che saranno chiamati a rendere conto delle loro azioni, e questo è l'unico modo con cui camuffare l'operato della Chiesa cattolica tutta, in Ruanda.
Sono trascorsi i tempi in cui i Papi disponevano di eserciti propri e non dovevano giustificare affatto i bagni di sangue commessi in nome di Dio e dell' autorità della Chiesa, da almeno un secolo quel potere non è più esercitabile per vie dirette. Mentre in altri paesi il clero si limitava ad appoggiare economicamente le più feroci dittature, in Ruanda erano proprio i missionari a preoccuparsi sia dell'evangelizzazione che della formazione della classe politica Hutu - discriminando i Tutsi che apparivano meno ricettivi alla catechizzazione -, esercitando in tal modo un controllo diretto sul paese. Non tutte le cause di quella guerra risiedono nei conflitti interni della piccola nazione africana, ma sono a noi vicine, pericolosamente vicine. Perché è l'intera struttura ecclesiastica ad accogliere i mandanti e gli esecutori.
D.M.
L'ideale sarebbe affidare all'imputato un incarico strettamente legato con la vittima del suo reato o la trasgressione specifica. Queste non son parole degne di stima. Difatti le ha pronunziate un procuratore capo presso il Tribunale dei minori di Torino. Da quest'edificio s'è levato un segno dantesco, che rievoca imi desideri di supplizi, di delitti e di pene.
Alcuni minorenni, colpevoli d'aver dato sfogo alla propria volontà, ma non a quella dell'odierna legislatura, sono stati invitati a ritornare all'ovile istituzionale. Una scritta col pennarello sulle pareti d'un autobus potrà costarvi, d'ora in poi, la condanna a pulire i mezzi pubblici, un furto d'auto potrà mettervi stracci e sapone in mano all'interno di un'autorimessa comunale, una rissa potrà condurvi a predicare pace e fratellanza nei balordi uffici di un'associazione di volontariato. Espiazione e pentimento. Da consumarsi negli ammorbanti ruoli che fanno comodo al potere.
La novella legge del contrappasso si affida al recupero, indi all'annullamento, di quelle personalità in erba spiccatamente ostili al rispetto del rispetto. Una mano adunca e ripugnante, quella dei giudici, tenta in questo modo di posarsi amorevolmente sulle spalle dei nuovi soggetti giuridici prima ancora che essi possano affezionarsi ai loro gesti ribaldi, quei gesti che con la legge hanno nulla a che fare. E lo fa con l'arma che risulta più congeniale ad un individuo il cui compito è quello di decidere per l'altrui vita: fare in modo che il proprio despotismo venga interpretato come magnanimità, che la propria infamia porti una maschera in grado di generare una sottintesa gratitudine, in nome dell'occultamento delle ostilità fra sfruttati e sfruttatori, in nome della servitù generalizzata e difesa da ogni individuo. Un'equa e solidale proposta quella che i giudici accamperanno nel novero delle prossime repressioni. Equa perché, dovendo render merito alla legge della colpa d'esser vivi, e d'opporsi ad essa, il rapporto di debito si estingue con le corvè prestate alle sue opere malsane. Solidale nell'accezione più melliflua del termine, quella scaturita dalle labbra di un qualsiasi fantoccio che rappresenta la moderna oppressione, quella che significa pietà, compassione e cristiano fiato sul collo. Avere a che fare quotidianamente con i vermi comporta sicuramente l'ingrato compito di occuparsi degli escrementi che essi sono in grado di generare. Ad ogni nuova forma di morte bisogna saper contrapporre un'altrettanta spinta vitale da considerarsi, in questo caso specifico, nel rifiuto totale di far luccicare le scarpe ai propri esecutori. Per chi rifiuterà questa proposta ci sarà l'amara galera. Che sia, allora, senza troppi addobbi che non siano quelli schifosi di cui già dispone, o che crolli.
Il notturno
I rapporti fra un anarchico e la giustizia generalmente sono a senso unico. Della giustizia l'anarchico è oggetto delle sgradevoli attenzioni e, non riconoscendone l'autorità, egli cerca in tutti i modi di averci a che fare il meno possibile - anche e soprattutto quando ha subìto un torto. A volte questo è facile, altre volte assai meno.
Ad esempio, quando un anarchico viene ammazzato per motivi estranei alle sue idee, cosa dire? Cosa fare? In questi casi l'arresto dell'omicida da parte della polizia è quasi provvidenziale, poiché ci mette al riparo dalla necessità di trovare delle risposte a queste domande. L'assassino è in prigione, inutile perdere tempo a riflettere su cosa faremmo se fosse libero.
Ebbene, ora è libero. A Carrara, l'assassino di un anarchico e della sua compagna - un duplice delitto dettato dalla gelosia - è stato scarcerato dal Tribunale di Genova, che ha ritenuto non sussistessero pericoli di fuga, di inquinamento delle prove, di reiterazione del reato. Allora, cosa dire? Cosa fare?
Stupirsi di fronte a questa decisione è comprensibile, abituati come siamo a sentirci raccontare che la giustizia punisce i cattivi e premia i buoni e che è uguale per tutti. Ma lo stupore non può che durare un attimo. Suvvia, siamo anarchici, mica pidiessini. Potremmo indignarci, molti ci darebbero ragione, ma indignarsi di fronte a un uomo uscito dalla galera ci fa ancora più schifo di un omicidio per gelosia. Di protestare poi, non se ne parla proprio. In questi casi protestare contro il comportamento della legge diventa facilmente una protesta contro la mancata applicazione della legge. E chiedere la forca non è mai stata una rivendicazione anarchica.
E quindi? Quindi qualcosa bisognerà pur dirla, perché se ci si limita allo stupore e all'indignazione non si fa altro che dare credito alla menzogna istituzionale, che pretende sia solo la giustizia a doversi occupare di simili fatti. Lasciati da soli, lo stupore e l'indignazione davanti a un assassino rimesso in libertà trovano un'unica interpretazione: la richiesta di una sua nuova carcerazione. A dire il vero, c'è chi ha trovato qualcosa da dire, denunciando il diverso trattamento di questo omicida rispetto a quello riservato agli obiettori totali o ai disertori, e attribuendo questa disparità a motivi politici. Gran bella constatazione, gran bella analisi, capaci per lo meno di evitare per l'ennesima volta di affrontare il problema e di presentarci come vittime.
Siamo seri, almeno di fronte la morte di un compagno. Il responsabile della sua scomparsa, il responsabile del nostro dolore, è qui accanto a noi. Se pensiamo di avere una questione in sospeso con lui, assumiamoci la responsabilità di risolverla noi direttamente. Sappiamo bene che la falsa alternativa giustizia di Stato o vendetta privata non è che l'ennesima semplificazione ideologica del potere per assicurarsi la nostra passività, e non ha mai fatto breccia nei nostri cuori. Di sicuro non quanto l'ha fatto l'amore per i nostri compagni. Allora prendiamo una decisione e agiamo di conseguenza. Attrezziamoci per cambiare.
Altrimenti meglio stare zitti, e limitarci a portare un fiore sulla tomba del morto.
E' stato diffuso in questi giorni un comunicato proveniente dal carcere, che probabilmente avrà turbato non pochi compagni e che riproduciamo in queste stesse pagine. Malgrado il tono proclamatorio e l'ambiguità di certe affermazioni, ci sembra di poter escludere l'ipotesi di trovarci di fronte all'annuncio della costituzione di una organizzazione armata anarchica. La cosa sarebbe illogica per diversi motivi. Ad esempio perché da che mondo è mondo i gruppi armati hanno l'accortezza di spiegarsi dopo aver agito, e a noi non risulta che la sigla Azione rivoluzionaria combattente abbia mai rivendicato alcunché. Inoltre, se davvero i compagni firmatari avessero costituito una organizzazione armata, il loro documento risulterebbe una esplicita autodenuncia di fronte alla magistratura, ciò ancor prima di aver iniziato le ostilità. Cosa questa che se fosse vera sarebbe del tutto priva di senso.
Ne deduciamo quindi che questo testo deve essere interpretato come una mera proposta. Purtroppo la disgraziata forma linguistica con cui è stata formulata rischia di provocare equivoci e incomprensioni che è interesse di tutti evitare. Più semplicemente, riteniamo che Pippo Stasi e Garagin Gregorian desiderino invitare il movimento anarchico a riflettere sugli argomenti da loro esposti, come la necessità da parte degli anarchici di intraprendere un percorso di lotta armata e quindi di creare una struttura armata specifica. E poiché questi compagni non hanno esitato ad affermare ciò che pensano, assumendosene tutte le responsabilità, riteniamo che nessuno se ne avrà a male se noi faremo altrettanto.
Come abbiamo più volte avuto modo di dire sulle colonne di questo giornale, siamo decisamente contrari ad ogni organizzazione armata, compresa una improbabile organizzazione armata anarchica. Qui non si tratta di una semplice divergenza di vedute, ma di una differenza sostanziale radicale che va ben oltre qualsiasi considerazione di opportunità o contingenza. Siamo contrari a una organizzazione armata oggi, così come lo siamo stati ieri, e lo saremo domani. E questa nostra contrarietà, lo ribadiamo, non si limita a un disaccordo formale. Non solo non sosterremo mai una organizzazione armata, ma la contrasteremo con una serrata critica. Ci opporremo alla sua costituzione e diffusione perché la consideriamo nostra nemica, in quanto incapace di generare prospettive per noi desiderabili.
Per noi l'individuo che insorge, l'individuo che si rivolta contro questo mondo troppo angusto per contenere i suoi sogni, non ha interesse a limitare le proprie potenzialità, ma casomai ad estenderle all'infinito. Assetato di libertà, avido di esperienze, chi si rivolta è alla continua ricerca di nuove affinità, di nuovi strumenti con cui esprimersi, con cui andare all'assalto dell'esistente per sovvertirlo fin dalle fondamenta. Ecco perché la lotta insurrezionale dovrebbe trovare stimolo ed energia nella nostra capacità di riempire il suo arsenale con sempre nuove armi, al di fuori e contro ogni specialismo riduttivo. Gli esperti delle pistole sono come gli esperti dei libri, o delle occupazioni, o di quant'altro; sono noiosi perché parlano sempre e soltanto di se stessi e del loro mezzo prediletto. Ed è proprio perché noi non privilegiamo nessun strumento rispetto agli altri, che amiamo e sosteniamo le innumerevoli azioni, compiute con i mezzi più disparati, che quotidianamente avvengono contro il dominio e le sue strutture. Perché la rivolta è come la poesia: per essere tale deve essere fatta da tutti, non da uno solo, per di più esperto.
Ora, di questa lotta insurrezionale, l'organizzazione armata specifica rappresenta la negazione, il parassita capace di avvelenarne il sangue. Laddove l'insurrezione incita al piacere e alla realizzazione di quanto abbiamo a cuore, l'organizzazione armata promette solo sacrificio e ideologia. Laddove l'insurrezione esalta le possibilità dell'individuo, l'organizzazione armata esalta solo la tecnica dei suoi soldati. Laddove l'insurrezione considera una pistola o un candelotto di dinamite solo una delle armi a sua disposizione, l'organizzazione armata ne fa l'unica arma, l'unico strumento da utilizzare (Viva la lotta armata). Laddove l'insurrezione mira a generalizzarsi e invita tutti a partecipare alla sua festa, l'organizzazione armata è per forza di cose chiusa e - ad eccezione dei suoi pochi militanti - agli altri non rimane che fare il tifo per essa. Di quel vasto progetto che è la sovversione della vita, progetto che non conosce confini perché mira a sconvolgere la totalità della società, l'organizzazione armata è capace di intravvedere solo un aspetto marginale - lo scontro militare con lo Stato - scambiandolo per il tutto. Ed anche questo scontro, anche l'attacco armato contro lo Stato, perde ogni significato liberatorio, ogni soffio di vita, quando tutto il suo slancio si riduce alla promozione di un programma e di una sigla da spendere al mercato della politica.
Viceversa, è proprio nell'anonimato che ogni calcolo politico scompare per lasciar posto alle mille tensioni e vibrazioni individuali, e alla loro possibilità di incontrarsi, unirsi, abbandonandovisi. A chi non ha merci da vendere, a cosa servono le insegne luminose? Quanto poi all'accusa rivolta contro quelle azioni rivendicate con la A cerchiata di esporre tutto il movimento anarchico alle provocazioni della polizia, questa verrà senz'altro condivisa da altri anarchici, terrorizzati dall'idea che qualcuno possa venire a bussare alle loro porte. Purtroppo per loro e per i compagni firmatari il documento, una eventuale sigla non risolverebbe di certo la situazione. Tutt'al più, invece di sospettare gli anarchici di aver firmato un'azione con la A cerchiata, la polizia li sospetterebbe di far parte del tale gruppo specifico.
Che negli anni `70 il movimento anarchico abbia conosciuto esperienze specifiche sul modello combattente, questa ci sembra una affermazione leggermente azzardata giacché l'arcipelago Azione rivoluzionaria - a cui presumiamo Stasi e Gregorian si riferiscano - si può definire anarchico solo a costo di una macroscopica forzatura ideologica. Di fatto in A.R. confluirono compagni di provenienze diverse, animati all'inizio da uno spirito libertario e antistalinista, che per un breve periodo definirono la propria esperienza anarcocomunista, considerata come sommatoria delle diverse posizioni dei compagni. Ciò che invece è risultato chiaro per tanti anarchici è che furono proprio le organizzazioni armate, nessuna esclusa, a contribuire in quegli anni all'affossamento della sovversione sociale. E queste riflessioni critiche non sono di oggi, ma sono state espresse da diversi anarchici in tante occasioni da vent'anni a questa parte.
Non sappiamo quali motivi abbiano spinto Stasi e Gregorian a diffondere questo scritto. A dirla tutta, la loro proposta ci appare fuori dal mondo, un po' come la retorica usata per l'occasione, che sembra uscire dritta dritta dai dibattiti che imperversavano negli anni `70, inquinandone l'aria. Ma più di ogni altra cosa, ci dispiace vedere compagni accettare l'aut aut lanciato oggi dal potere (o riformismo o lotta armata) e lasciarsi andare al gioco sciocco del rilancio: dato che veniamo accusati di appartenere a una banda armata che non esiste, perché non costituirne una per davvero? Ecco, questa tentazione, questa attrattiva verso il vuoto a perdere dell'organizzazione armata, su di noi non ha presa alcuna e non ci stancheremo mai di criticarla, ovunque essa si manifesti. L'insurrezione ha desideri e ragioni che nessuna logica militare potrà mai comprendere.
La Redazione
Nel giorno in cui lo Stato-Capitale nella duplice veste di giudice-vessatore celebrerà il suo processo apologetico (nell'aula Occorsio del Tribunale di Roma il 10-12-96) contro il movimento anarchico, - rito arcaico di vituperio e criminalizzazione contro i trasgressori della società borghese -, nel tentativo di espungere ogni forma di antagonismo rivoluzionario individuale o organizzato combattente lo sfruttamento dell'uomo, noi ribadiamo impavidi l'azione rivoluzionaria combattente, senza aforismi o anatemi velleitari rivendicheremo la nostra identità di organizzazione armata contro lo Stato.
In quel luogo aulico, rappresentazione formale della legittimità del diritto borghese, eserciteremo l'antigiuridismo anarchico militante astenendoci dalla farsa del dibattimento processuale non avalleremo il mitico de jure, dottrina giuridica, patrimonio normativo secolare degli Stati che si sono evoluti sulla base di usurpazioni secolari di schiavitù, torture e sfruttamento del lavoro altrui, che garantisce la difesa all'inquisito offrendogli lo strumento giuridico di replica, un modo per avallare la forma democraticistica del processo accusatorio, un modo arguto, perverso e subdolo per mimetizzare a priori il pregiudizio contro i contumaci. Non riconosceremo i giudici!
La civiltà industriale è il massimo della aspirazione di progresso a cui mira la società Stato-Capitale, che costringe milioni di persone nel mondo a rimuovere l'antica cultura indigena dei popoli per abbracciare la cultura di fabbrica moderna. Con i grandi mezzi che lo Stato capitalistico borghese utilizza, oltre a essere funzionali al modo di produzione dominante, potenti organizzatori di cultura, la cultura che viene riassunta nei simboli della merce come mediazione fra produzione e consumo.
La globalizzazione dello sfruttamento ora oltremodo che normale è intellettuale; l'appiattimento cerebrale agli schemi preordinati delle macchine intelligenti, l'omologazione della cultura dei popoli ai nuovi linguaggi di comunicazione e di produzione sono gli scopi del nuovo colonialismo imperialista; l'universalismo cibernetico, ovvero la comunicazione multimediale strumento di riorganizzazione sistematica e quantitativa del nuovo ordine mondiale, nei settori del mercato, del capitale, dell'ordinamentto istituzionale e delle sue infrastrutture territoriali, della repressione degli oppositori, refrattari all'omologazione del nuovo scientismo, uniformatore intellettuale.
Ispirandoci criticamente alle esperienze del movimento antagonista armato degli anni `70 e in particolare al patrimonio anarchico, alle lotte indipendentiste, referenti indissolubili del nostro percorso di scontro con le istituzioni dello Stato-Capitale teso ad estinguerle per via insurrezionale, alludiamo, perciò, sulla base di questo patrimonio storico, costruire una società comunista nella produzione anarchica in senso antigiuridico senza tribunali né carceri, per contrastare ogni forma di governo e di potere che si realizzasse con il lavoro degli sfruttati; una società iconoclasta ispirata alla libera cooperazione tra gli uomini, e alla libera educazione.
Riconosciamo a questa Corte il suo pedissequo ruolo di servitore dello Stato, nel quale vivendo da cortigiano con il sudore del lavoro produttivo degli operai e contadini assicura alla giustizia borghese che il popolo sfruttato perseveri nel suo ossequiante servigio.
Ogni azione rivoluzionaria contro lo Stato e le istituzioni borghesi sarà rivendicata nel segno d'un inizio e d'una continuazione d'un preciso percorso antagonista, denominato Azione Rivoluzionaria Combattente di cui ci assumeremo tutte le responsabilità al cospetto del potere.
Nessuna rivendicazione - almeno da parte nostra - alle azioni contro lo Stato con la A cerchiata, perché di fatto si espone il movimento anarchico a continue provocazioni, mentre è giusto costituire gruppi specifici che si assumono la responsabilità politica delle azioni.
Il nostro percorso combattente è la ricostruzione in senso rivoluzionario di una organizzazione anarchica combattente, internazionalista e antimperialista, in rapporto con tutte le forze rivoluzionarie che intendono sovvertire l'ordine dello Stato capitalista borghese nella sua fase di globalizzazione per affermarsi come unico modello produttivo e organizzativo della relazione fra gli uomini.
Alla conformazione policentrica e mimetizzata del potere cibernetico-industriale risponderemo con azioni diffuse e mirate per minarlo sia sul territorio che nello spazio urbano in cui accentra le infrastrutture organizzative ed informative del suo dominio.
Viva forza a tutti i rivoluzionari detenuti e a tutti i combattenti per una nuova società antiautoritaria libera, anarchica e comunista.
Ricordiamo per vendicare tutti i compagni colpiti dal fuoco della repressione dello Stato-Capitale.
Viva l'anarchia, viva la lotta armata.
Roma 1.12.1996
Pippo Stasi
Karechin Cricorian (Garagin Gregorian)
Milioni sono le persone sbarcate sulle nostre coste in cerca di una vita diversa. Lontano dalla miseria dei propri paesi, però, hanno trovato la miseria nelle nostre strade: la pubblicità ha promesso loro tutto ma nessuna promessa è stata esaudita. Uno di loro, con precedenti di spaccio, è stato arrestato per essere stato sorpreso su di una macchina rubata. Sabato scorso è fuori di galera e va da alcuni amici a festeggiare, quindi esce per le strade di Castelvolturno e viene, per l'ennesima volta, fermato dai carabinieri. La mattina successiva lo trovano riverso sul marciapiede, morto ammazzato.
C'è chi ha visto, c'è chi ha sentito qualche cosa, c'è chi punta il dito verso i carabinieri. In un attimo l'impotenza si fa rabbia e in un baleno si radunano per strada tutti gli immigrati della città: i copertoni bruciano, sassi e bottiglie volano, il traffico si interrompe. Quanta fame e quanta violenza ha visto questa gente; quante volte è stata fermata e strattonata, quante volte è stata bastonata dalla polizia o dai miseri mercanti della miseria? La rivolta può nascere da tutto, ora; basta una scintilla, anche infinitamente più piccola di un compagno di strada morto ammazzato. Per adesso è bastato poco a fermarli, qualche carabiniere in più e l'intervento pacificatore di preti e di assistenti sociali. Ma alla prossima, cosa servirà? Basteranno a spegnere i cuori le promesse e le parole di pace di chi ha sempre regalato miseria, oppure sarà molto di più, quel qualche cosa in più che segna l'apertura di uno scontro aperto e recuperabile con immensa fatica?
Noi siamo sempre stati per la rivolta, noi amiamo soffiare sul fuoco dei cuori per accendere quegli incendi immensi che non ammettono pace e che bruciano la miseria delle nostre strade insieme alle miserie dei nostri rapporti e della vita quotidiana. E poi? Noi cosa potremo fare per comprendere queste lotte che per loro natura sono sempre sporche di rivendicazione? Che strumenti ci daremo per spingerle oltre l'orizzonte ristretto della miseria?
Il problema ci può sembrare nuovo, ma in realtà non lo è. Bisogna, come sempre, saper comprendere e saper agire per non perdere ancora una volta le occasioni per riprendere le ostilità: e occasioni come questa ce ne sono e ce ne saranno sempre, basta saperle vedere.
S.V.
La società delle autostrade della Val Susa è al centro di una storia tipicamente italiana: tangenti ai politici (il presidente era l'ex presidente della Provincia, Luigi Ricca, socialista, mandante degli sgomberi del Barocchio), spie, ex lottarmatisti, criminali vari, traffici d'armi.
Fuschi, ex assaltatore della Marina, killer confesso, trafficante d'armi e collaboratore dei servizi segreti, ha definito la società un centro di potere. Tra i consulenti della Sitaf ritroviamo (i lettori di Canenero più affezionati lo ricorderanno) l'ex maresciallo Germano Tex Tessari, ex collaboratore nei reparti antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Non solo. Vi lavora pure Guido Manina, un tempo militante di Prima Linea, arrestato a suo tempo proprio da Tessari, che l'aveva poi fatto assumere dalla Sitaf come suo collaboratore nel settore sicurezza. Tra gli indagati per i loro rapporti con la Sitaf figurano anche due agenti del Sisde, Dante Caramellino e Raffaele Guccione. Da un'armeria in Val Susa sparivano legalmente armi, da un cantiere del traforo di una galleria venivano prelevati candelotti e il tutto pare venisse coordinato tramite la Sitaf. Sembra anche che Mesina, il famoso bandito sardo, sia stato incastrato con il ritrovamento di alcune armi nella sua casa ad Asti proprio da uomini di questa bella banda, a causa delle sue dichiarazioni riguardo ai particolari sulla liberazione di Farouk.
La Sitaf è il cuore economico della valle, gestore delle autostrade e dell'Alta velocità che stravolgerà definitivamente la Val Susa. Ma gente come Tessari non si trova lì solo per proteggere il cammino del progresso da vandali, ecoterroristi, provocatori come i giornali amano definire tutti coloro che di vedere devastata la valle non hanno alcuna voglia (e che non si aspettano di vedere rispettate le proprie ragioni a suon di raccolte di firme). Tessari e compagnia bella sono semplicemente alcuni dei tanti strumenti dello Stato, utilizzati per i lavori più sporchi o anche solo come supporto logistico, finanziario e materiale per le mille attività dei servizi segreti italiani.
La storia è intricata e in questi casi, in Italia (e non solo), finirà per sparire sia dalle pagine dei giornali che dalle aule di tribunale. In galera ci finirà solo Fuschi, che ha già tentato il suicidio. Sacrificabile.
Lo Stato non può, non vuole, non deve permettere assolutamente che simili vicende vengano fuori - e il perché dovrebbe essere evidente a chiunque, ora che dopo secoli ci vengono a raccontare che finalmente la strage di piazza Fontana non è più un mistero.
Mario Spesso
L'auto di un giudice, Dino Petralia - da anni impegnato a combattere la mafia - attraversa a tutta velocità la strada col semaforo rosso a sirene spiegate e si schianta contro un'altra macchina uccidendo una donna e il figlio di due mesi. Una settimana dopo il tragico incidente, per evitare inutili beghe allo Stato, il Presidente della provincia di Trapani Carmelo Spitaleri fa una proposta degna di un fine statista: perché non considerare la donna uccisa e suo figlio come vittime della mafia? In fondo, la scorta assassina viaggiava a velocità sostenuta proprio per evitare che il lavoro di quell'ottimo difensore della legalità venisse fermato da qualche attentato della malavita organizzata siciliana. Basta interpretare estensivamente la legge che prevede i benefici per le vittime di attentati mafiosi, ed ecco che il vedovo costretto a lavorare al nord viene immediatamente assunto dal Comune. Invece di sputare in faccia alla Giunta e progettare una più comprensibile vendetta, si accontenta. Il risibile sillogismo di un servetto dello Stato, mostra come la mafia, da fenomeno reale può diventare cosa fittizia. Nella veste di capro espiatorio, Cosa Nostra perde ogni concretezza. Diventa un fantasma che, senza struttura, senza interessi, appare soltanto per legittimare una massiccia presenza militare e per giustificare la corsa delle autoblindo, appare dietro ogni vendetta, dietro ogni possibile ribellione, appare proprio dove non c'è. Così è più difficile individuare le strutture anche minime dove si materializzano gli interessi mafiosi: le imprese edili, le agenzie di pratiche automobilistiche, i bar di lusso adibiti al controllo del territorio, le sale giochi ed i biliardi. Allo stesso modo scompaiono le responsabilità dell'omicidio compiuto da Petralia o di quello compiuto dalla scorta di Borsellino che nel 1985 a Palermo aveva falciato due ragazzi mentre aspettavano l'autobus. Ma un'adeguata reazione contro gli sgherri dello Stato e quelli della Mafia tarda ancora ad arrivare.
Stonchiti
I crimini contro i minori stanno riempiendo le cronache di queste ultime settimane. D'improvviso, dopo il clamore suscitato in Belgio dal caso Detroux, si è preso atto un po' dovunque che i bambini sono spesso oggetto delle attenzioni più turpi. E, puntualmente, questa lunga scia di infamie viene definita in un unico modo: pedofilia. Ma come può l'amore per i bambini venir tirato in causa quando si tratta di descrivere stupri, sevizie, torture, commerci, omicidi di minori? Dov'è mai l'amore in simili atti? Non c'è, è evidente. E se non c'è amore, non ci può essere nemmeno pedofilia.
Ma nel concetto stesso di pedofilia viene incluso l'amore nella sua manifestazione sensuale - farà notare qualcuno - e il desiderio sessuale di un adulto per un bambino non può che concretizzarsi in uno stupro. Il bambino - ci viene detto - non sceglie liberamente, viene fatto scegliere; non desidera, viene fatto desiderare; il suo ruolo è sempre passivo. E di fronte a cotanta innocenza l'adulto non può che vestire i panni del boia più feroce.
Ecco, è su questa convinzione che i rapporti sensuali tra adulti e bambini siano unidirezionali - come se i bambini non avessero anche loro desideri sessuali, come se balzassero con un salto prodigioso dal limbo del postparto alla consapevolezza della sessualità maggiorenne - che si fonda l'identificazione della pedofilia con la violenza sessuale sui minori.
Malgrado questi non siano i tempi migliori per affermare queste cose, poiché certe riflessioni non dovrebbero essere viziate dalla concitazione del momento, questa convinzione a mio avviso è falsa. I bambini amano, e amano godere, dei loro corpi come di quelli degli altri. Di tutti gli altri verso i quali provano affetto, adulti inclusi. Privi delle catene della legge e della morale, i bambini vanno alla ricerca della soddisfazione del proprio piacere. E a volte non si fermano davanti a niente. Perché mai un adulto dovrebbe avere l'obbligo di sottrarsi a questi inviti? E perché mai non potrebbe a sua volta farli (e non imporli) questi inviti? Se si ammette che i costumi sessuali di una società vanno di pari passo con la sua natura, si dovrà ben concludere che la miseria che avvolge la stragrande maggioranza dei rapporti sensuali fra adulti e minori non fa altro che rispecchiare la miseria che avvolge tutti i rapporti sessuali, e più in generale tutti i rapporti umani. Quindi, se si considera possibile ed anche necessario iniziare fin da subito a relazionarsi con gli altri in maniera diversa da quella generalmente intesa, perché escludere la possibilità che ciò avvenga anche fra un adulto e un minore nell'ambito dell'amore? La distanza che separa un adulto da un bambino non è riempita per forza di cose dal comando del primo, e dall'obbedienza del secondo. Adulti e bambini possono anche incontrarsi al di fuori di ogni logica pedagogica, per giocare assieme e l'amore può ben essere un gioco. Ipotesi difficilmente realizzabile - ne convengo - giacché lo squallore di questo mondo sembra pervadere tutti i nostri rapporti. Ma chi può dirsi tanto sicuro che questa ipotesi sia di per sé impossibile da verificarsi, nemmeno riconoscessimo noi per primi che la libertà è solo un'illusione necessaria?
Simona Dessa
Immaginatevi un imprenditore quarantenne. Immaginate la sua vita. Intrappolato nei conti, nel personale, nelle tasse, nei prodotti, nei guadagni, negli attivi e passivi del bilancio, nelle mogli, nelle figlie, nelle amanti, con gli orari e l'auto e il bollo e il fax, e l'amicizia altolocata e le cene di lavoro e il buco del culo strinto per non farci mettere il naso dai giudici e i regali di Natale e la coca e le vacanze. Lui, l'imprenditore, sguazza, affoga, beve, mangia, conta e riconta e poi una sveltina e poi riconta e una sniffatina e poi riconta, analizza e colleziona gli scontrini della Banca. Bella vita.
C'è quello che si spara in testa, perseguitato dai debiti, c'è quello inquisito, c'è quello che butta gli operai in mezzo alla strada, c'è quello che fra un costo e un ricavo si ritaglia una vita atrofizzata. C'è pure quello che, come è successo a Velletri, viene visto chiuso in macchina davanti ad un supermercato a masturbarsi, forse eccitato dalla merce, dalle calze di seta, dai sacchetti di plastica, dai commessi, dalle cassiere, dalle bambole delle bambine e dalle luci colorate. Un'ipotesi giustificata, a mio avviso. In fondo è la sua vita, quella. Sarà ben capace di trovarci qualcosa di eccitante. Uomini finiti, imprenditori, poveri piccoli cacaimprese. A voi l'illusione d'esser ricchi. Dagli altri, i più miserabili, l'invidia, segno di una miseria ancor maggiore.
Cacciucco
La Mc Donald's Italia ha, da qualche tempo, un nuovo amministratore delegato. Si tratta di Mario Resca, un protagonista del mondo finanziario ed imprenditoriale italiano. Un pescecane, come tutti quelli della sua razza: prima di assumere questo nuovo incarico, Resca è stato per una quindicina di anni uno dei cacciatori di teste più affidabili e conosciuti nel mondo. Si occupava infatti di scovare manager emergenti cui affidare i compiti più importanti e delicati per le aziende. Un pescecane alla ricerca di pescecani. Tanto che ora - che si occupa di hamburger - è indaffaratissimo nell'organizzare l'arrembaggio di Mc Donald's nelle città italiane. Uno stratega, il nostro Resca. Si, perché finora la Mc Donald's si è rivolta soprattutto alle fasce più giovani della popolazione delle grosse città. Al contrario Resca - dopo lunghe indagini di mercato, quintali di numeri e di grafici - punta alle famiglie ed ai piccoli e medi centri urbani. Ma a noi che ce ne può importare mai delle strategie d'assalto delle multinazionali? Invece ce ne importa, perché nei prossimi anni ognuno avrà sotto casa un Mc Donald's, che a sua volta si fornirà per il settantacinque per cento dei prodotti di aziende locali. La rete produttiva e distributiva di una delle multinazionali più grandi nel settore alimentare sarà a portata di mano per tutti. Quante volte ci siamo sentiti enumerare le responsabilità specifiche che Mc Donald's ha riguardo allo sfruttamento selvaggio di uomini, di bestie e dell'ambiente del terzo mondo? Quante volte, scesi dalle nostre montagne e dai nostri paesi verso le grosse città industriali, abbiamo incontrato impotenti le sue luci con in testa il pensiero fisso di ragazzi sfruttati, foreste distrutte ed animali torturati? Bene, nei prossimi anni non dovremo più spostarci in città perché sarà Mc Donald's che aumenterà da 145 a 1000 i punti di distribuzione su tutto il territorio. In più, visto che tra pescecani si intendono, Resca sta trattando per stipulare contratti con migliaia di fornitori italiani, per le merci e per i servizi. é già operativo l'accordo con l'Agip e con l'Upim per aprire ristoranti negli auto-grill e nei centri commerciali. é una lotta contro un gigante, è vero. Un colosso che può spostare millecinquecento miliardi in un sol botto per pagarsi ruspe e palazzi. Ma quelle ruspe e quei palazzi sono piccoli e piccolo è il signor Resca: e non è detto che i cuori ardenti e le braccia di tanti individui in rivolta non riescano a procurargli qualche sostanzioso fastidio.
Il panda
La situazione degli anarchici e libertari, detenuti o contro cui è stato spiccato un mandato di cattura, è la seguente:
Jean Weir ed Emma Sassosi (detenute a Rebibbia, via Bartolo Longo 92, 00156 Roma)
Christos Stratigopulos e Marco Camenisch (detenuti a 28100 Novara, via Sforzesca 49)
Carlo Tesseri (detenuto a 61034 Fossombrone/PS, via Leopardi 2)
Orlando Campo (detenuto a 57100 Livorno, via Delle Macchie 9)
Francesco Porcu (detenuto a 50047 Prato, via della Montagna, ponte della Togaia)
Horst Fantazzini (detenuto a 15040 Alessandria, carcere S. Michele)
Paolo Ruberto, Alfredo Bonanno, Garagin Gregorian, Pippo Stasi, Antonio Gizzo, Antonio Budini (detenuti a Rebibbia, via R. Majetti 165, 00156 Roma)
Marzio Muccitelli (detenuto a 00167 Roma, carcere militare, via di Forte Boccea 251)
Giacomo Caligaris (detenuto a 70022 Altamura (BA), via dell'Uvaspina 18)
Massimo Passamani, Guido Mantelli, Roberta Nano, Rose Ann Scrocco, Giovanni Barcia, Salvatore Condrò, Angela Lo Vecchio, Eva Tziutzia (liberi)
Salvatore Gugliara, Tiziano Andreozzi e Cristina Lo Forte sono agli arresti domiciliari e non hanno ulteriori restrizioni. Anche Giuseppina Riccobono si trova agli arresti domiciliari, ma non può ancora comunicare per via epistolare e telefonica, mentre può usufruire di due permessi giornalieri d'uscita di due ore. Apollonia Cortimiglia ha l'obbligo di firmare tre volte alla settimana presso i carabinieri.
&
Il 16 gennaio 1997 si terrà a Rovereto il processo contro Antonio Budini, Carlo Tesseri, Jean Weir, Christos Stratigopulos ed Eva Tziutzia, accusati di ricettazione delle armi sequestrate dopo la rapina nella cassa rurale di Serravalle.
&
La mattina del 4 dicembre tre individui, a volto scoperto e armati di pistola, hanno assaltato il viceconsolato italiano di Malaga, in Spagna. Dopo essersi qualificati come appartenenti ad un gruppo rivoluzionario non meglio specificato, hanno legato ad una sedia per tre quarti d'ora il viceconsole e suo figlio, facendo incidere al primo un messaggio rivolto contro i giudici e la giustizia e a favore dei prigionieri italiani, in particolare di quelli detenuti ingiustamente. Intanto i tre frugavano negli archivi, strappavano i telefoni e facevano scritte con lo spray sui muri; prima di andarsene si sono appropriati di una dozzina di passaporti, dei timbri e di circa 50.000 pesetas.
&
A Torino, sabato 7 nel pomeriggio, un manipolo di squatter anarchici si è spinto fin sul tetto di Palazzo Reale, nella centralissima piazza Castello, sventolando bandiere, lanciando razzi, volantini e un manichino, calando uno striscione, per attirare l'attenzione sull'imminente udienza preliminare che vede coinvolte decine di anarchici nell'inchiesta sbilenca dei pm Marini e Ionta.
Il volantino titolava: Gli anarchici hanno le ali.
&
I funzionari del Tribunale di sorveglianza di Bologna, nella mattina di lunedì 16, hanno trovato i muri dell'edificio coperti di scritte e di a cerchiate e sono stati costretti ad attendere l'intervento dei vigili del fuoco per poter entrare a svolgere il loro lavoro.
Nottetempo, infatti, alcuni individui avevano bloccato con silicone e chiodini le serrature del tribunale, dopo aver vergato sui muri chiari messaggi: Marini e Ionta terroristi e Liberi tutti.
&
Sabato 7 dicembre a Esanatoglia (MC), nel corso di una iniziativa organizzata dal circolo Che Guevara di Rifondazione comunista per la liberazione di Silvia Baraldini, c'è stata una contestazione da parte di alcuni anarchici che hanno così voluto informare i presenti delle vicende repressive in atto contro gli anarchici.
&
A Torino, accanto al Prinz Eugen, c'è un ex carcere femminile: il Buon Pastore. Occupato il 27 novembre, è stato sgomberato l'11 dicembre. La polizia ha compiuto un blitz aiutata dall'infame guardiano dell'ex istituto P. Verrillo, che li ha introdotti nella palazzina fin dalla notte. Gli occupanti sono stati sorpresi dalla polizia quando la Digos era già sul tetto. Nel giro di mezz'ora sono stati fatti uscire dallo stabile e denunciati per invasione di edificio.
(Portogallo)
I detenuti del carcere di Linho protestano, con veemenza, contro la violazione dei loro diritti... Protestano contro gli alimenti che sono confezionati male, senza igiene e spesso non commestibili, essendo deteriorati...
Dall'inizio dell' anno fino alla fine di giugno sono già deceduti più di cinquanta detenuti, affetti da Aids, nell'ospedale penitenziario di Caxias, il Centro di gestione della morte. Alcuni di questi detenuti vi erano stati trasferiti dalla prigione per trascorrervi la fine dei loro giorni.
Le autorità carcerarie argomentano che con 500 escudos (5.000 lire) per detenuto, per i suoi tre pasti quotidiani, non possono fornire una migliore alimentazione. Preferiscono invece spendere migliaia di escudos al mese in calmanti (drunfo: tossico devastante), che storpiano il cervello e l'organismo dei detenuti, i quali vengono a trovarsi in una condizione di abulia 24 ore su 24.
I prigionieri protestano contro l'incuria per quanto riguarda la salute e il non rispetto delle più elementari cure mediche, in particolare per ciò che concerne quei detenuti colpiti da malattie infettive.
Protestano contro le provocazioni, le manganellate ed altri maltrattamenti inflitti dagli agenti penitenziari. Questa è la prigione del paese col maggior numero di detenuti che apparentemente si impiccano.
Protestano contro la tortura esercitata sul loro subcosciente e che viene praticata tutti i giorni per mezzo dell'insopportabile suono di due altoparlanti al momento della sveglia.
Protestano contro la schiavitù alla quale vengono sottoposti nei lavori che realizzano.
Protestano contro la mancanza d'igiene...
Protestano contro l'altra spersonalizzazione costituita dall'uso obbligatorio dell'uniforme da parte dei detenuti puniti per motivi disciplinari e contro la pratica del ritiro, durante il giorno, del materasso dalla cella...
Centro di Sterminio di Linho
Presos de luta (detenuti in lotta)
seguono 216 firme
Per contatti, ci si può rivolgere al compagno Adérito, che sta scontando una pena di quindici anni in quel carcere, oppure al suo gruppo di appoggio:
Aderito Soares Neto
n. 364 Ala B
Est. Prisional do Linho
2710 Sintra (Portugal)
L'indirizzo del Colectivo de Apoio a Presos è invece il seguente:
Apartado 40
2801 Almada codex (Portugal)
Non per niente arriva da Mondovì, Raffaele Costa. La provincia contadina piemontese è conosciuta per il puntiglio un po' gretto con cui si risparmiano i sudati quattrini, e uno dei motti del deputato dell'Unione di centro è sempre stato - anche quando era membro eccellente del Partito liberale - quello di limitare le spese inutili dello Stato. Ha modi da contadino arricchito, Costa, quando organizza i suoi periodici blitz in quei settori che più gli pare scialacquino i fondi dell'erario. L'ultima incursione l'ha effettuata nel carcere torinese delle Vallette e ha rilevato come questi benedetti detenuti se ne stiano a oziare tutto il santo giorno, riveriti e serviti dai secondini. No, no, così non va bene: il solito assistenzialismo. E poi, si sa, l'ozio è il padre dei vizi e - anche se, in realtà, in prigione di vizi non se ne possono concedere più di tanto - a detta di Costa un detenuto in ozio è un fabbricante di nuovi reati. Il buon senso contadino suggerisce al deputato di non starsene con le mani in mano a guardare lo scempio di tutto questo ben di Dio e così parte alla carica con una nuova proposta: Facciamoli lavorare, tutti.
Così i carcerati potranno avere qualche soldo per sé, per le piccole spese che anche in galera bisogna sostenere, qualche soldo da mandare alle famiglie - una specie di rimessa per questo singolare tipo di emigranti. E soprattutto potrebbero pagarsi vitto e alloggio che, santiddio!, allo Stato costa quattromila miliardi all'anno. Per finire, parte consistente delle somme guadagnate andrebbero a risarcire la vittima dei reati per i quali sono stati condannati - la società. Il problema carcere verrebbe così risolto, dopo la disastrosa riforma del settantasei. é vero, è vero, lo sanno tutti che, prima che una nuova legge venga discussa e approvata, prima che si apprestino tutte le strutture necessarie per attuarle con completezza, gli anni passano. Quindi, propone pragmatico Costa, nel frattempo lo Stato dovrebbe dimostrare più attenzione verso quella parte del volontariato che opera nelle carceri. Una siffatta proposta, in realtà, non aggiunge quasi nulla di nuovo, se non la sistematizzazione di una tendenza in atto: nelle carceri già ora sono presenti aziende che lucrano sulla prigionia dei detenuti - come la Lavori in corso e le boutique di Luisa Spagnoli, che producono abbigliamento - e basta trovarne altre, di modo che il rapporto già complesso tra il territorio ed il tessuto economico sia completamente saldato. Non sarebbe un cattivo affare per le aziende, né per l'istituzione carceraria, che vedrebbe così impegnati nella produzione detenuti altrimenti dediti a combinare qualche gioioso guaio. La conflittualità all'interno delle galere italiane è già bassissima, rispetto agli anni passati, e l'istituzione di un meccanismo di questo genere potrebbe spegnerla per sempre. O potrebbe, chi lo sa, accenderla improvvisamente, perché più sono visibili i legami che uniscono il carcere alla vita quotidiana di chi sta ancora fuori, più si moltiplicano le occasioni e le possibilità dell'attacco, tanto da creare situazioni di cui è difficile prevedere l'esito anche all'interno delle mura. La scelta, ora, sta a noi, in barba ai saggi buoni propositi di qualunque deputato di campagna.
A.V.
Chi è la persona che bussa ogni giorno, o quasi, alla vostra porta, che instaura con voi un rapporto di amicizia, che riesce a sbirciare dentro le vostre case, quando non vi entra per chiedervi con un sorriso una firma, il tutto senza destare minimamente i vostri sospetti? Sì, proprio lui, il postino.
Figura familiare a tutti, temuta da nessuno, il postino è oggi al centro delle premurose attenzioni della poliza belga. In cerca di decorosa efficienza dopo le feroci critiche ricevute in seguito alle vicende del così chiamato mostro di Marcinelle, gli sbirri belgi hanno avuto un'idea davvero geniale: identificare nei postini dei possibili delatori, e invitarli a collaborare con le autorità nel caso notino qualcosa di sospetto allorquando si apprestano a consegnare la corrispondenza.
Purtroppo per loro, e per fortuna di tutti, i dirigenti delle poste si sono rifiutati con decisione di prestare i loro dipendenti a un simile compito, dichiarando che il mestiere della spia non rientra nelle funzioni svolte dai portalettere.
Proposta bocciata, quindi, almeno per ora. Nel dubbio, ci si può procurare un cane, un animale cui non interessa approfondire le intenzioni degli intrusi, per decidere di allontanarli.
M.Z.
Sono davvero utili le agende. Non potendo sempre fare affidamento sulla memoria, dove altro riportare gli impegni da mantenere, gli appuntamenti da rispettare, gli affari da concludere, i dati da verificare, i nomi e i numeri da ricordare? Sulla agenda, è chiaro, questa inseparabile compagna della nostra vita, l'unica capace di mettere un po' di ordine e senza la quale non sapremmo cosa fare.
Ed è strano che proprio a chi non sa cosa fare, o per meglio dire a chi non ha nulla di particolarmente frenetico da fare, sia venuto in mente di preparare una nuova agenda. é successo a Milano, dove i detenuti di San Vittore hanno dato alle stampe una agenda piena di umorismo e di ironia. Chissà dove li hanno trovati. Per premiare e sostenere questa lodevole iniziativa la Provincia, dietro sollecitazione del direttore del carcere Luigi Pagano, ha acquistato mille copie di questa fatica carceraria: quando si dice essere magnanimi.
Così il carnefice si sentirà più vicino alla sua vittima e la vittima più vicina alla libertà, di cui parodierà le scadenze. Quella libertà che si trova solo al di là del muro di cinta e non di certo dentro a questa agenda, malgrado il nome che le è stato dato: Evasioni. Un nome pieno di umorismo e di ironia.
A.P.
Pino Cacucci
In ogni caso nessun rimorso
Milano, Tea due (Longanesi e C.), 1996
E' possibile che tra le idee, i fatti, le persone e il tempo, i rapporti si siano ingarbugliati fino a non riuscire più a riconoscerne i contorni. é altrettanto possibile che ciò che è vissuto sotto il segno della libertà, anche di quella più selvaggia, finisca col trasformarsi in strumento di addomesticamento.
Si ha un bel ripetersi che dopo tutto certi fatti e persone sono fuori moda e oramai superati, ma il rinnovato interesse manifestato da molti nell'affrontare argomenti del passato, tacendo però l'autentico significato di ciò che è stato, non può cambiarne a posteriori la realtà. Troppi percorsi pretesi nuovi sono la triste parodia di vie già battute, perché si possano sacrificare queste ultime, e chi le ha percorse, alla demagogia che presenta ogni cosa come soffocata dalle erbe cresciute col tempo.
Quindi, che non si conti su di noi per rispettare i diritti di successione in materia: ogni commemorazione nasconde un cadavere nella cui contemplazione si ritrovano, per girare in tondo, poveri diavoli e tristi sirene.
Certo è questo il momento adatto perché masse di curiosi arrivino sul luogo, oggi che il paesaggio è incontestabilmente cambiato e che perciò non si corre il rischio che qualcuno possa prendere sul serio ciò che gli passa sotto gli occhi. Ed è possibile riconoscere senza troppe difficoltà quelli che traggono apertamente profitto nell'asfaltare i vecchi sentieri della rivolta anarchica: i soliti servi in livrea. Meno facile è invece provare a capire come la linea dell'orizzonte sia a poco a poco diventata indistinta, e soprattutto come possano aver contribuito a questo annebbiamento anche persone che dicono di battersi per mettere in chiaro le cose.
Magari di fronte ai roditori d'ossa e ai confusionari opportunisti potremmo fare l'elenco di ciò che ci appartiene a tal punto da non poterlo mai rinnegare, di ciò che, nel momento in cui diventa oggetto di sfruttamento culturale, sbarra la prospettiva invece di lasciare libero il passaggio. Ma, servirebbe a qualcosa? Rimane il fatto che l'ipocrisia stende la sua viscida mano su coloro che amiamo per farli servire alla conservazione di ciò che essi hanno sempre combattuto.
é chiaro che non ci stupiamo troppo di certe operazioni, ad esempio che un ex pubblichi un romanzo sulla banda Bonnot, che un saltimbanco canti una canzone su Sante Pollastro, che un accademico organizzi un convegno su Stirner - che si tragga insomma un qualche profitto dai passati lampi della sovversione. Eppure, anche se la storia ci ha abituati all'invecchiamento e allo stravolgimento delle idee e delle forme in cui si concretizzano, non riusciamo ad acconsentire senza batter ciglio che questo accada a quanto ci fu di più vivo nella rivolta.
La diffusione inarrestabile del recupero, la sua onnipresenza, può essere un motivo significativo per giustificare la nostra acquiescenza, la nostra indifferenza nei suoi confronti? Siamo davvero sicuri che, vada come vada, il veleno dell'anarchia continuerà malgrado tutto a insinuarsi nell'animo delle persone per corromperle ed eccitarle? Ma, forse, questa certezza proviene dal fatto che accordiamo alla vita quella fiducia assoluta che non siamo capaci di trovare, prima di tutto, in noi stessi.
Che la vita sia altrove, lo si sa fin dai tempi di Rimbaud e ci verrà senz'altro ripetuto fino alla nausea, anche in questa occasione. Solo che la vita della banda Bonnot, riscritta da Pino Cacucci, ha riempito un libro di oltre 300 pagine - già edito nel 1994 ed ora uscito da poco in una nuova edizione tascabile - e purtroppo è proprio qui, e non altrove, che oggi tutto ritorna, in una prosa efficacemente derisoria, a ingrossare la marea di insignificanza che sommerge ogni tentativo di sfuggirvi.
Che esistenza movimentata quella degli illegalisti anarchici dei primi anni del secolo! Fatta di rapine, fughe, sparatorie. Agitata al punto d'essere perfetta per farci sopra un bel romanzo d'azione. Del resto, leggere un buon romanzo di avventure, magari scritto bene come questo di Cacucci, può essere effettivamente appassionante. Ma che dire di una vita in cui la passione non esiste più che sui libri?
Non occorre essere grandi filosofi per capire che il fascino di questo genere di letteratura si lega proprio alle sventure, alle minacce che pesano sull'eroe di cui si narrano le gesta. Senza pericoli, senza angosce, la sua vita non ci apparirebbe tanto affascinante e nulla ci costringerebbe a viverla con lui. Ma il carattere di finzione del romanzo aiuta a sostenere ciò che, se fosse reale, potrebbe superare di gran lunga le nostre forze, permettendoci così di vivere per procura ciò che non abbiamo l'ardire di vivere. Ed essendo, questo, un libro - come ci avverte l'autore - basato su avvenimenti e persone veramente esistiti, ma dove finzione e realtà si mescolano, alla fine sarà piuttosto arduo distinguere cosa è finzione e cosa è realtà, con evidente beneficio per la prima.
Ammettiamo che è la nostra malignità a bisbigliarci all'orecchio che tutto ciò mira essenzialmente a consolare la noia mortale che affligge la vita degli individui ormai mansuefatti. Per non parlare poi dell'impatto che possono avere queste opere all'interno del movimento, dove in un certo senso assolvono lo stesso compito svolto dalle vecchie canzoni anarchiche, quelle bellicose, piene di sangue e dinamite, che tutti conoscono a memoria e che è tanto bello cantare - possibilmente in coro - al fine di riscaldare i cuori intirizziti dalla glaciazione sociale del momento.
I più speranzosi accarezzano l'ipotesi che questi libri didascalici possano incitare all'azione, ma a noi sembra più verosimile pensare che servono soprattutto a sollevare il morale dei compagni, fornendo loro una rappresentazione facile da consumare.
Non possiamo esimerci dallo spendere alcune parole sul conto dello stesso Cacucci. Evidentemente la rivoluzione non paga, di certo non quanto avrà pagato la Longanesi per questo libro. Per chi un tempo è stato un anarchico - come Cacucci, per l'appunto, cosa c'è di meglio del capitalizzare quanto si è avuto modo di conoscere bene? Nulla di strano, dunque. Neanche ritrovarlo in mezzo ad altri prodotti in plastica sugli scaffali di un supermercato. Come tanti altri reduci, Cacucci ha compreso che in quest'epoca della depressione è molto più redditizio sbriciolare ogni idea e azione fino ad ottenerne un prodotto culturale, con una evidente predilezione per ciò che in partenza non lo era affatto, piuttosto che perdersi dietro alle utopie.
I protagonisti delle pagine che seguono hanno invece perso tutto: battaglie, lavoro, amici, ideali, la loro stessa vita. L'unica cosa che sono riusciti a non perdere è la dignità, scrive solennemente l'autore in una nota introduttiva al libro, lui che ha trovato tutto - lavoro, amici e fama - rinunciando proprio alla dignità.
Ma, in fin dei conti, poco importa se l'attuale riscoperta di Bonnot e dei suoi compagni sia motivata da intenzioni buone oppure cattive. Per quel che ci riguarda, questa operazione non può che contribuire all'edificazione di quella formidabile contraffazione estetica che, al di là di ogni previsione, è sul punto di ricoprire la totalità dell'esistente. Chissà se Cacucci si è reso conto di quanta involontaria verità sia contenuta nell'ultima citazione che ha scelto, strano gioco del caso, per aprire il suo libro, quella di Paco Ignacio Taibo II: Brindo ai compagni di un tempo, e alle loro ossa che biancheggiano al sole....
R.F.
La sua morte scatenò una propaganda forsennata intorno all'eroe Durruti. Qualsiasi discussione finiva con la citazione del suo nome. E ogni volta che lo si nominava, si uccideva un poco il suo pensiero e la sua opera Abel Paz, Buenaventura Durruti
Probabilmente Durruti è l'anarchico più conosciuto al mondo. Il suo nome è legato alla rivoluzione spagnola, a quella estate del 1936, quando il proletariato iberico si sollevò, armi in pugno, contro il potere e assaltò le caserme, bruciò le chiese, occupò le fabbriche. é quella lotta, che lui combatté in prima fila assieme agli uomini della sua colonna, che tutti ricordano. Quella lotta in cui perse la vita, la mattina del 20 novembre 1936, e per cui diventò per tutti un eroe.
E un eroe ha sempre ragione. Nessuno oserà mai mettere in discussione le sue affermazioni, o le sue azioni. Nessuno. I lati oscuri degli eroi non bisogna mai metterli in mostra, si giustificano da sé. E di lati oscuri Durruti ne aveva, come tutti gli esseri umani di questo mondo. Su quelli legati al suo carattere, come il suo odio per gli omosessuali, non c'è molto da dire. Ognuno è fatto a modo suo, e poi tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Ma quelli legati alle sue scelte di vita? Che dire di questi? Che dire ad esempio del suo passato di espropriatore di banche? Qualche cosa bisogna pur dirla oggi, oggi che ci sono anarchici incarcerati perché accusati di aver rapinato banche. Si può cantare le lodi a quel lontano rapinatore anarchico, dedicargli un bel libro commemorativo, e coprire di silenzio i rapinatori anarchici a noi vicini? Una risposta bisogna trovarla, il contrasto è fin troppo evidente.
E la risposta, al solito, la si trova nel tempo, nel suo scorrere implacabile, nella sua capacità di cambiare oggettivamente contesti e situazioni. E poi c'è lui, Buenaventura Durruti. Non è forse stato lui, proprio lui - e la parola di un eroe è sacra - a dire che allora si seguiva quel metodo perché le circostanze erano diverse da quelle del giorno d'oggi, e che banditismo, no. Esproprio collettivo sì! L'ieri è superato dal cammino stesso della storia. E colui che desidera riviverlo rifugiandosi nel diritto alla vita è libero di farlo, ma al di fuori delle nostre fila, rinunciando al titolo di militante e accettando la responsabilità individuale del suo atto, senza compromettere la vita del movimento né il suo prestigio di fronte alla classe operaia? Sì, è stato proprio lui a dirlo, e bisogna ricordarlo a tutti, a tutti.
Solo così si potrà dimenticare. Dimenticare che quelle parole vennero pronunciate nel 1933, quando c'era, a dire dello stesso Durruti, un milione di iscritti al sindacato ed un popolo che attende il momento propizio per realizzare la grande rivoluzione. Dimenticare che, passato quel momento propizio in cui urgeva l'azione collettiva, toccherà a Sabaté, a Facerias e ad altri anarchici partigiani dell'azione individuale - e per questo calunniati e sconfessati da altri anarchici, terrorizzati di poter perdere l'onorabilità della loro organizzazione - riprendere quella lotta.
Ma oggi, siamo forse in un momento propizio per la rivoluzione? E poi, le considerazioni di Durruti non riguardavano esclusivamente gli appartenenti alla Fai-Cnt? Non erano forse i militanti di questa organizzazione a dover rinunciare al proprio titolo, nel caso avessero deciso di andare all'assalto delle banche? E chi non ha mai fatto parte di quelle organizzazioni, chi ha sempre affermato a voce alta la responsabilità individuale dei propri atti? Contro costui, ha forse senso rispolverare Durruti? Chi ha da dire qualcosa, sono solo i suoi interessati interpreti, preoccupati a ribadire per l'ennesima volta che fuori della chiesa non c'è salvezza.
Povero Durruti. Il suo nome - quando non viene usato per battezzare un bar per il dopo-lavoro dei compagni - viene ridotto a mero strumento di polemica.
F.M.
Don Giuseppe Dossetti è morto nel suo convento, a 83 anni, dopo una vita intensamente dedicata alla Chiesa ed alla Politica. Era il capostipite ed il più puro fra quei democristiani di sinistra attenti a prevenire ogni rivolta grazie alle riforme e agli accordi con il Partito comunista. Partigiano, uno dei padri della Costituzione repubblicana, in contatto diretto con lo Spirito santo, è stato vicesegretario della Dc di De Gasperi ed aspirante sindaco al comune di Bologna: il volto popolare ed intransigente di una Dc che riciclava con qualche imbarazzo ma buoni risultati i piccoli gerarchi del passato regime.
Abbandonata presto la politica, e ordinato sacerdote, lotta sul fronte interno per riformare la chiesa. Riformare ma non troppo: ligio alla regola dell'obbedienza, critica gli esagerati della Teologia della Liberazione, sostiene il sacerdozio tutto maschile e la castità del clero. Buon amico del defunto Aldo Moro, dopo quarant'anni di eremitaggio ridiscende in politica per difendere la Costituzione e preparare la strada a Prodi. Ora il suo sogno è realizzato: ogni conflitto sociale sembra assopito e i cattolici sono finalmente al governo con la sinistra. Le acque nel governo adesso sono tranquille e Don Dossetti non serve proprio più.
Informiamo i compagni che sospenderemo per due settimane la pubblicazione di Canenero, che riprenderà ad uscire con il nuovo anno. Il n. 44 verrà chiuso in redazione alle 22 di Lunedì 6 gennaio, data entro la quale dovranno pervenire articoli, comunicati e scritti. Le spedizioni del n. 44 verranno effettuate Mercoledì 8 gennaio.