CANENERO

settimanale anarchico - 10 gennaio 1997 - numero 44

questo giornale non ha prezzo e non teme imitazioni

copertina canenero 44

Andare alla festa dei padroni?
Fai piano, accendo io...
Per aggiustare il giudizio di Dio
Cronaca della rivolta
Il prezzo di un mondo intero
Dietro le quinte
Un dibattito mancato
Lettera sullo specialismo
Lampi e tuoni
Qualcosa da nascondere
L'ostilità necessaria
Fuoco sul carro funebre
Una sete da eunuco

CANENERO - Casella Postale 4120 - 50135 Firenze -Telefono e Fax 055/631413

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Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n. 18/89 del Tribunale di Cagliari


Andare alla festa dei padroni

Dura oramai da settimane l'assedio all'ambasciata giapponese a Lima. Tutti abbiamo seguito l'evolversi degli eventi, dall'irruzione dei guerriglieri del Movimento rivoluzionario Tupac Amaru nello stabile alle varie fasi della trattativa, con la quale — al di là della volontà del governo peruviano — i guerriglieri sono riusciti a conquistarsi uno spazio politico, un riconoscimento agli occhi del mondo.

La situazione peruviana è tragica e complessa, come lo è quella di tutta l'America Latina. Le ipotesi che, lanciate tanti anni fa, promettevano di scardinare l'ordine del giardino di casa statunitense sembravano essere definitivamente sconfitte insieme al naufragio di quella ridda di sigle che contraddistinguevano ogni gruppo armato: Sendero Luminoso, Unrg, Fsln, Fmln, Mrta, Fpmr, Eln, Farc, Tupamaros impugnavano chi Castro e chi Guevara, chi Mao e chi Lenin contro un mondo di fame e di oppressione. Tanto spesso impugnavano un'oppressione contro un'altra, il comunismo di Stato contro la fame e la militanza contro la dittatura. Ogni ipotesi sul cambiamento del mondo porta in sé il proprio futuro e, scomparsi gli scenari che consentivano a questi gruppi di crescere ed operare, le guerriglie si sono ridotte sempre più al lumicino, apparentemente sganciate dalla situazione che le aveva generate e prive di quelle prospettive di cui prima si facevano portatrici: non più la rivoluzione, non più la presa del potere da parte dell'esercito irregolare, non più la convinzione “fochista” che bastasse armarsi e partire sulle montagne per innescare quel processo rivoluzionario tra le masse contadine che avrebbe fatto esplodere il continente intero. Di tutto questo non resta più quasi nulla, fuorché l'oppressione e la miseria sempre identiche a se stesse. Il continente è ancora là, in barba ai sogni di Che Guevara e dei suoi barbuti discepoli. I gruppi guerriglieri che ora si fanno sentire — zapatisti in testa — sono alla ricerca, dichiarata, di spazi di legittimità per entrare all'interno del gioco democratico. La politica è una prosecuzione della guerra con altri mezzi e l'Mrta ha trovato un buon modo per passare dalla guerra alla politica, in maniera talmente spettacolare da conquistarsi un pubblico mondiale.

Ma non possiamo limitarci a dire questo, non ce ne viene nulla se non incrinare quel mito guerrigliero che sta tornando pian piano in auge, quello spettacolo che ci vuole lontani e plaudenti spettatori. Almeno un'altra cosa bisogna dirla, per incrinare lo spettacolo che complessivamente ci prende e ci ruba la vita.

L'azione dei militanti del Mrta ci fa scoprire una cosa che credevamo scomparsa: esistono ancora quei luoghi in cui in gran numero si ritrovano le carogne peggiori di questo mondo e non sono luoghi del tutto inaccessibili. Alla festa all'ambasciata giapponese c'erano dirigenti di multinazionali, ministri, banchieri e diplomatici. Una parte consistente di chi ha la responsabilità della miseria e dell'oppressione peruviana brindava in poche sale la stessa sera e venti persone sono riuscite ad entrare e a fare quello che ritenevano più opportuno.

E nel momento in cui ad una festa dei padroni e della politica può irrompere anche chi dei padroni e della politica non ne vuole più sapere, potrebbe cominciare una festa più grossa e più imprevedibile.

Il Panda


Fai piano, accendo io...

Già ai tempi della guerra del Golfo si era sentito parlare delle armi “buone”, comunemente dette non-letali. I dati che confermano lo sterminio di migliaia di iracheni ci lasciano supporre che non sia stato fatto molto uso di queste armi. Col tempo sono state perfezionate, mentre ne sono state inventate altre in grado di mettere fuori combattimento qualcuno senza ucciderlo.

Il Pentagono ha investito miliardi di dollari su di un apparecchio che, attraverso pulsazioni sonore a bassa frequenza, può causare in un uomo, a chilometri di distanza, attacchi di vomito inarrestabili.

Poi ci sono i laser, utilizzati in Somalia per illuminare a distanza e mettere fuori uso i dispositivi di puntamento nemici. Oggi esistono anche quelli che possono accecare temporaneamente, per 15/30 secondi, persone a qualche chilometro di distanza (da 1 a 3 km). Se usati a distanza inferiore possono provocare la cecità permanente.

Questo per quanto riguarda situazioni belliche, ma sono state inventate altre armi riservate soprattutto alle situazioni di scontro sociale, come ad esempio le reti balistiche, cioè reti che possono essere sparate a distanza con normali fucili. Durante il volo si aprono e avvolgono il malcapitato in modo inestricabile. Il tessuto delle maglie è imbevuto di colle o sostanze irritanti.

Poi c'è il fucile a schiuma che può ricoprire interamente una persona con un potente collante. Il getto arriva fino a dieci metri di distanza e può essere usato contro le barricate erette dai dimostranti, in modo da impedirne l'avanzata.

Il Sandia National Laboratory sta lavorando ad un nuovo tipo di sistema anti-sommossa: una schiuma che aumenta fino a 500 volte di volume, che può riempire un'intera stanza e isolare gruppi di persone.

E noi, ancora con le fionde, tutt'al più con una molotov, Çe dai, sù, passami 'sta birra, alla salute dei compagni arrestatiÈ. Il potere si affina, dal controllo sociale alle tecniche repressive attive. Difficile per noi restare al passo con i tempi, ma non è impossibile individuare i loro centri di controllo e di addestramento: "fai piano, accendo io...".

A.B.R.


Per aggiustare il giudizio di Dio

L'importanza dei pentiti, nella lotta alla mafia ed alla criminalità, è ormai diventata un luogo comune che, per dirla alla Léon Bloy, è solido come il giudizio di Dio. E non saranno certo le recenti polemiche sui cinquecento milioni dati a Di Maggio — sul suo successivo rifiuto di testimoniare dopo che l'altro miliardo promesso gli era stato negato —, oppure le stizzite affermazioni della vedova del caposcorta di Falcone — che si lamenta per l'impunità garantita ai collaboratori —, a scalfire questa opinione consolidata. Queste sono le contraddizioni che emergono, ma si restringono ad un pavido desiderio di vendetta, all'abitudine acquisita al puzzo dei tribunali, non si acuiscono, vengono semplicemente liquidate con un po' di dialettica democratica. Eppure sembra strano che, nonostante i sempre più potenti mezzi che la tecnologia fornisce alle forze dell'ordine, nonostante il continuo dispiegamento dei signori in divisa, si debba ricorrere in maniera così massiccia all'uso dei pentiti. Che questi costituiscano lo strumento indispensabile per eliminare quei rifiuti che rallentano ed impediscono i processi di ristrutturazione della mafia ed anche dello Stato, è indubbio, ma il problema è un altro.

Il modello di gestione della giustizia che sta prendendo piede è quello dei teoremi, delle prove indiziarie, di qualcosa che si basa su intuizioni o più spesso sul bisogno di trovare a tutti i costi un responsabile, affinché non ci sia sentore di inefficenza; così, senza qualcuno che collabori, qualcuno che punti il dito, qualcuno che sia, necessariamente, in qualche modo implicato nei crimini da giudicare, molti dei processi si sgonfierebbero, altri addirittura non si potrebbero neanche istituire.

Il caso di Lotti, uno di quelli che vengono presentati come testimoni chiave del processo contro Pacciani per gli omicidi del mostro di Firenze — ora che è tutto da rifare — è significativo. La sua collaborazione deve essere incondizionata, strutturata, organizzata. Lotti deve arrivare fino al punto di auto-accusarsi della partecipazione attiva ad un omicidio affinché il castello accusatorio risulti coerente, per far sì che un procedimento giudiziario che fa acqua da tutte le parti venga ripristinato — porcherie come queste le stiamo già vivendo sulla nostra pelle. Il fatto stesso che qualcuno venga convinto ad incolparsi viene utilizzato come garanzia della credibilità delle più fantasiose affermazioni, giustificando con la scusa della paura la “confessione” tardiva del soggetto. Lo stipendio, la protezione e l'impunità sigillano il tutto, contribuendo a distruggere gli ultimi residui di dignità rimasti. Sullo sfondo si staglia Il volto della giustizia e del potere che, per consolidare qualsiasi loro realizzazione, non possono curarsi più di tanto, se non in termini prettamente economici e di servizio, nemmeno dei suoi servi più infimi.

Davide


Cronaca della rivolta

19 dicembre - New York (Usa). Un'animalista si è introdotta in uno dei ristoranti più famosi di Manhattan, dove era in corso un pranzo di gala, ed ha lanciato un procione morto nel piatto della direttrice della rivista “Vogue”, seduta accanto al sindaco della città.

22 dicembre - Parigi (Francia). Una bomba è esplosa davanti all'ufficio dell'agenzia governativa Insee, che si occupa di statistica, senza provocare vittime. L'attentato non è stato rivendicato.

24 dicembre - Teramo. Bloccate con silicone, polvere di ferro e pezzi di lamette da barba le serrature di diversi negozi del Corso centrale cittadino.

25 dicembre - Tortoreto (Te). Anche tre chiese sono state prese di mira da sconosciuti, i quali hanno bloccato le porte delle case di Dio con silicone e mastice, impedendo o ritardando la celebrazione della Santa Messa nel giorno di Natale.

25 dicembre - Mompantero (To) A colpi di fucile e col fuoco contro una stazione di servizio dei ripetitori Enel della Rai e dell'Omnitel. Sul posto scritte contro i treni ad alta velocità.

27 dicembre - Bussoleno (To). Un assessore leghista amante della cementificazione selvaggia si è ritrovato sotto la cassetta delle lettere una bottiglia molotov. Lo scorso novembre qualcuno gli aveva bruciato un autocarro, facendogli trovare sul posto tre proiettili di fucile.

1 gennaio - Pisa. Per festeggiare il Capodanno, alcuni animalisti hanno liberato quattro cani utilizzati come cavie dalla facoltà di veterinaria.

1 gennaio - Seminara (RC). Invece dei petardi hanno preferito festeggiare la notte di San Silvestro sparando contro lampioni, insegne e tabelle dei carabinieri.

1 gennaio - L'Aquila. Il nuovo anno si apre nel migliore dei modi per tre ragazzi che sono evasi dall'Istituto penale per minorenni approfittando del compito a loro affidatogli: spalare via la neve che ostruiva l'ingresso dell'edificio. Uno di loro è stato poi riaccom-pagnato dal padre.

2 gennaio - Aosta. Tutto in una notte. Il Palazzo di giustizia, una filiale di una banca e il circolo sottoufficiali degli alpini sono stati l'oggetto delle attenzioni di qualche incendiario. Limitati i danni.

3 gennaio - Torino. Una sessantina d'immigrati non ne hanno voluto sapere di lasciare un dormitorio della Caritas in cui erano previsti lavori di ristrutturazione ed hanno ingaggiato violenti scontri con la polizia. Molti di loro erano abusivi.

6 gennaio - Amburgo (Germania). Nel giro di una settimana sono evasi tre detenuti dal carcere cittadino. I primi due non sono più rientrati da un permesso, il terzo ha approfittato della distrazione dell'assistente sociale che lo aveva accompagnato all'ufficio di collocamento per trovargli un lavoro, giacché la sua liberazione era ormai imminente. Troppo impaziente, il detenuto ha preferito bruciare i tempi.

7 gennaio - Nuoro. Alcuni colpi di pallettoni sono stati esplosi contro le serrande del garage della caserma del Corpo Forestale di Villagrande Strisaili.


Il prezzo di un mondo intero

Non appesantitevi nella pesantezza dell'obbligo e del lavoro. Siate leggeri. Alleggerite.

È successo di nuovo. Questa volta non in Italia ma in Spagna. Una rapina in una banca, avvenuta lo scorso 18 dicembre a Cordoba, fa accorrere i guardiani della proprietà e del denaro. Chi ha osato allungare le mani e prendere direttamente ciò di cui ha bisogno deve essere punito. Si scatena così una caccia all'uomo, al termine della quale due donne poliziotto restano uccise, una guardia giurata e tre rapinatori restano feriti. Vengono tratti in arresto Claudio Lavazza, Giorgio Edoardo Rodriguez, Giovanni Barcia e Michele Pontolillo, questi ultimi due anarchici conosciuti qui in Italia — il primo perché accusato di aver partecipato al sequestro di Mirella Silocchi (il verdetto di colpevolezza emesso dalla corte d'Appello di Bologna è stato annullato dalla Cassazione proprio lo scorso 18 dicembre) e latitante da anni, il secondo perché obiettore totale, nonché abituale frequentatore di spazi occupati, di locali ed assemblee anarchici. Sui particolari di questa vicenda ancora si conosce nulla. La stampa spagnola non è stata prodiga di informazioni, mentre quella italiana ha fatto un quasi totale silenzio. Pare inoltre che gli inquirenti spagnoli abbiano accusato i rapinatori, secondo un ben noto copione, di aver commesso altre rapine (non si sa se tutti e quattro o solo alcuni di loro) e che l'Italia e forse la Francia abbiano già fatto richiesta di estradizione per qualcuno di loro. Inoltre, secondo quanto riportato dai pochi articoli usciti su questa vicenda sulla stampa italiana, sembra che Claudio Lavazza fosse anch'egli un latitante, in quanto su di lui peserebbe qui in Italia una condanna all'ergastolo per fatti relativi ai “Proletari armati per il comunismo”, un gruppo armato esistente alla fine degli anni '70.

Non è difficile immaginare che questo episodio verrà usato dagli inquirenti italiani per cercare di rendere più credibile la tesi dell'esistenza di una banda armata anarchica dedita a rapine e attentati, giacché Barcia e Pontolillo figurano entrambi fra gli indagati dell'inchiesta Marini. Facciano pure il loro lavoro, i signori inquisitori. Noi continueremo a ribadire che ogni anarchico è responsabile delle sue scelte di vita e delle sue azioni, e che ogni tentativo di attribuire questa responsabilità individuale ad una “collettività” composta da altri anarchici, non è altro che una meschina manovra poliziesca. E naturalmente esprimiamo con forza la nostra solidarietà agli arrestati, che in questo momento si trovano nelle mani dello Stato spagnolo, in balìa della sua vendetta. Le scarne notizie in nostro possesso ci permettono di comunicare per ora soltanto l'indirizzo del carcere in cui si trova Michele Pontolillo, che è il seguente:

Prisiòn de Badajoz
Carretera de Ulivenza km. 7
Badajoz (Estremadura)
Spagna

Questa società della gerarchia e del denaro produce ogni giorno violenza e, allo stesso tempo, un fitto sistema di anestesie morali con cui sopportarla. La capacità di percepire la violenza è diventata uno sforzo oltre che una condizione necessaria per ribellarsi. I rapporti quotidiani sono un grande e complesso gioco di dissimulazione della brutalità.

La regola prima è frammentare le attività degli individui, di modo che sia impossibile scorgerle nella loro unità. Cosa penserebbe l'operaio se, di fronte agli occhi, di colpo, avesse la totalità delle cause e degli effetti dei suoi piccoli e ripetitivi gesti? Le macchine che fa funzionare producono sfruttamento, miseria, dolore, morte. Ma solo con uno sforzo può collegare il bambino scheletrico dell'Africa che ha visto in televisione alle materie prime che usa, ai prodotti che fabbrica. Rimanere concentrato sul suo minuscolo pulsante è un'anestesia della coscienza. Il piccolo burocrate che riempie moduli per otto ore al giorno non vede l'immigrato che verrà rispedito a casa perché il suo nome, su quei moduli, non c'è. Non vede chi finirà in carcere perché non va d'accordo con le carte bollate. Non ha mai chiuso a chiave nessuno, lui.

La passiva contemplazione verso un'attività lavorativa che sfugge completamente è la stessa che incatena agli schermi. I telespettatori escono direttamente dalla fabbrica e dall'ufficio. Ci si lamenta del proprio lavoro come ci si lamenta del politico che appare in televisione. Ma se, mentre quest'ultimo parla, si vedessero dietro gli uomini schiacciati dalle leggi, morti per l'amianto, bombardati, lacerati dal filo spinato e torturati in qualche questura, e si collegasse il loro sangue, la loro sofferenza al sorriso di paccottiglia del politico, che cosa accadrebbe?

La violenza che si percepisce è solo quella rappresentata. La mafia uccide per soldi. Il cittadino si indigna, e più si indigna più si sente innocente quando usa il denaro (la grande mafia). I terroristi mettono le bombe sui treni. Il cittadino si indigna, e più si indigna più si sente a posto quando va a votare (i grandi terroristi). Tante persone che guadagnano tutti i giorni, che portano i soldi in banca, che fanno la spesa nei supermercati, non hanno mai impugnato un'arma, o minacciato, o ferito, o ucciso. Lavorano nelle assicurazioni, in posta, alle dogane o chissà dove, sono pacifici e non amano né il sangue né la prepotenza. Brave persone. La violenza non l'hanno mai voluta vedere, quindi non l'hanno mai vista.

L'economia, nella sua astrattezza, sembra muoversi da sé. Ecco perché il denaro appare innocuo. La violenza tra le banconote non si vede, quindi non c'è. Ma prova ad allungare le mani e ad afferrare una merce senza dare in contropartita il suo valore di scambio corrispondente, il valore socialmente stabilito, il suo equivalente generale, insomma, il denaro. Ecco subito la società ricomporsi dai suoi frammenti di fronte alla proprietà violata. Il capitalista, il giudice, il poliziotto, il carceriere, il giornalista, il prete e lo psicologo verranno a difenderla, a dirti che il valore di una cosa non è il tuo piacere, la tua attività o il tuo bisogno, bensì una misteriosa misura sociale che ti concede una merce solo se ti prendi anche il suo lungo seguito di cortigiani, solo se accetti anche il capitalista, il giudice, eccetera; verranno a insegnarti il valore del lavoro e l'abitudine a vedere nelle cose il tempo che devi farti rapinare per averle — questo è il denaro — e quindi a sacralizzarle, a servirle, a valutare te stesso in rapporto ad esse, e non viceversa; verranno a ricordarti che il rispetto della proprietà è amore per la persona umana, che se pensi il contrario hai problemi mentali o famigliari, che forse cerchi nel furto l'affetto di tuo padre, comunque che vai aiutato, seguito, educato, inserito; verranno a processarti, a imprigionarti; oppure, se resisti, se ti difendi, verranno a bastonarti, a spararti, a ucciderti. Quando qualcuno interrompe l'abituale circolazione del denaro, ecco comparire, sotto la simulazione, il vero volto della merce: la violenza. ÇRubare, rapinare, com'è possibile?È pensa il cittadino, concentrato sul suo minuscolo pulsante, sui suoi moduli, o davanti al televisore. Perché la pratica illegale invece del lavoro? Forse perché allungando le mani direttamente sul denaro si strappa tempo — vita — all'organizzazione dell'economia. Si sottrae ai tempi morti del lavoro la propria possibilità di fare ciò che piace, di sognare, di discutere, di amare, di costruire i propri progetti. Meno tempo per il lavoro, più tempo per distruggerlo. Il denaro è tempo. Attaccando la proprietà non si sfugge certo allo sfruttamento e al sistema della merce (pensare questo è, ancora una volta, concentrarsi sulla propria mano tesa, quindi un'ennesima anestesia morale). Ciò che si ottiene, avendone la forza, è qualche possibilità in più. Le cose, non più misurate col metro del denaro (cioè dell'attività estorta del sacrificio), si prestano maggiormente alla sperimentazione, al dono, all'uso, alla distruzione. Il lavoro non appare più soltanto come salario (la prima delle sue catene), ma come organizzazione sociale, come un insieme di rapporti. Sottraendosi al salario — in senso stretto — si ha qualche strumento in più (sempre che non ci si lasci schiavizzare dal denaro, dal ruolo del ladro, dallo specialismo) nella lotta contro l'economia. Ma questa lotta, o è diffusa, o è niente. Solo quando il saccheggio diventa una pratica allargata, quando la gratuità si arma contro il valore di scambio, quando i rapporti non sono più mediati dalla merce e gli individui danno alle cose la propria misura, solo allora la distruzione del mercato e del denaro — che è tutt'uno con la demolizione dello Stato e di ogni gerarchia — diventa una possibilità reale.

Ma quando dietro una rapina le autorità intravedono tutte queste pretese, alzano il prezzo. Se a rapinare sono alcuni individui anarchici, oltre al rischio di sparare o di essere ammazzati, oltre al rischio di perdere in galera quel tempo che volevano strappare al lavoro, oltre a tutto questo ora i magistrati hanno preparato per loro anche l'accusa di “banda armata”. Il castigo aumenta. Se qualche compagno decide, individualmente, di risolvere i propri problemi di soldi rapinando, ecco pronto per lui un teorema che lo vuole imprigionare, prima che in galera, in una struttura clandestina con capi, cassieri e contabili. Così lo Stato presenta un conto sempre più salato e tenta di creare un'odiosa responsabilità collettiva per farci diventare l'uno il controllore dell'altro. Ancora una volta, la violenza illegale viene rappresentata per nascondere quella legale e quotidiana. Nel caso dell'anarchico, il seguito di cortigiani del denaro è ancora più lungo. La merce è ancora più costosa, perché in questione è l'esistenza stessa del capitalista, del giudice, del poliziotto, del carceriere, del giornalista, del prete, dello psicologo, del burocrate, dell'operaio e del rapinatore.

Il surplus di repressione è per difendere un intero mondo di prezzi. Nessun prezzo deve apparire esagerato.

Massimo Passamani


Dietro le quinte

La più grande schiavitù della società è il denaro. Tutti ne hanno bisogno. C'è chi lo elemosina, chi per esso si fa miseramente sfruttare, chi si prostituisce allo Stato e chi lo rapina.

Quasi sempre si è costretti a pagare il prezzo della propria scelta. È successo in Spagna che due sbirre intente a guadagnarsi la pagnotta difendendo il patrimonio del potere, sono state uccise in un conflitto a fuoco con i presunti rapinatori di una banca. Quattro sono le persone arrestate di cui due sono conosciute in Italia come anarchici. A venti giorni dall'accaduto non si conosce altro né sulla vicenda né sulla sorte dei sequestrati se non le notizie vaghe e discordanti riportate dai giornali spagnoli, i quali pubblicano le commoventi scene del funerale delle due mamme/sbirre, che probabilmente pensavano di percepire lo stipendio fino alla pensione andandosene in giro a chiedere documenti, a perquisire ed arrestare qualche disperato fra una chiacchierata e l'altra. Accanto alle foto dei familiari, dei cittadini e degli sbirri tutti uniti nel cordoglio, i giornali pubblicano anche le foto dei presunti rapinatori/mostri che pare siano salvi grazie a dei giubbotti antiproiettile nonostante i quali due o forse tre risultano feriti. Probabilmente, ora, alle famiglie delle defunte andrà una medaglia al valore e qualche risarcimento economico, a coloro che saranno condannati daranno delle pene esemplari per placare la sete di vendetta dell'opinione pubblica. A tutto questo qualcuno ha reagito, dicendo spavaldo (?) che Çalmeno questa volta non ci hanno rimesso solo i compagniÈ.

A mio parere, in questa vicenda gli unici a non averci rimesso niente sono le persone che partecipano a questi episodi di guerra allo Stato, alle sue istituzioni, ai suoi guardiani e ai suoi servitori, come morbosi e divertiti spettatori di un ennesimo showÉ

E naturalmente, anche la banca e i suoi padroni.

Lucia


Un dibattito mancato

Quando, tre settimane fa, abbiamo pubblicato il comunicato dal carcere di Garagin Gregorian e di Pippo Stasi pensavamo che si sarebbe potuto aprire un interessante e proficuo dibattito. Quel documento poteva suscitare una serie infinita di riflessioni su argomenti sempre attuali (lo specialismo, l'organizzazione armata specifica, l'attacco, la giustizia) e su altri ancora che dopo tanti anni — pur non essendo mai scomparsi — sono tornati a scuoterci le vite (la questione della latitanza, per esempio). Tutti questi argomenti dovrebbero essere affrontati, a nostro avviso, in prospettiva. Vale a dire, non affrontati solo in base alla logica fin troppo ovvia de i compagni sono grandi, svezzati e scelgano loro cosa fare. Fin qua ci arriviamo tutti e ci pare ridicolo ripeterlo. Ciò che bisognerebbe dire in più non è quale ipotesi ci pare più o meno compatibile con “l'etica e le tradizioni anarchiche”, ma quale ci sembra possa andare verso una prospettiva nostra: una banda armata potrà forse essere persino organizzata in maniera orizzontale, ma che cosa ha che fare con la nostra insurrezione? Con l'articolo che accompagnava il comunicato dei compagni non abbiamo fatto che ribadire le banalità di base sulla questione “lotta armata”, le faccende importanti che Canenero ha sempre tenuto a sottolineare. Ma tante altre domande importanti rimangono aperte, domande che prima o poi bisogna porsi.

Un esempio per tutti: la polizia bussa alla nostra porta con un mandato di cattura. Nel caso in cui riusciamo a darcela a gambe poi che facciamo? Badate, questo è un problema serio perché la clandestinità forzata non deve causare l'interruzione dei nostri progetti. Dovremmo metterci in grado di affrontare la nuova situazione in modo di poter attaccare ancora il dominio, in modo di poter continuare a vivere appieno e con passione tutti gli spazi che riusciamo nonostante tutto a conquistarci. Per fare questo ci servono — prima del mandato di cattura — idee chiare e strumenti utilizzabili, per far sì che la nostra vita non sia ridotta ad una fuga. Questi strumenti sono anche il nuovo modo di organizzarsi rispetto alla nuova situazione, il nuovo modo di collegarsi con le lotte in corso e con i compagni che ancora non sono ricercati. Il tutto con la stessa prospettiva di ribaltamento complessivo della vita, del sacrificio e dell'esistente che ci animava prima della latitanza obbligata. Ed anche questo, che cosa può aver mai a che fare con una organizzazione specifica combattente — se pur orizzontale, ma con sigla, programma e limiti che ne conseguono?

In ogni modo ci siamo sbagliati. Questo dibattito stenta a decollare e soltanto un contributo alla discussione ci è giunto finora (un contributo lunghissimo, che viene pubblicato così com'è proprio perché l'estensore è latitante e non possiamo chiedergli di essere più breve). Tutti gli altri sono comunicati e prese di posizione collettive che pubblichiamo, ma che ci pare non trattino gli argomenti in questione col necessario approfondimento. Al contrario, ci sembra rivelino, per lo meno in parte, delle pecche comuni e ci spingono a fare alcune considerazioni. La prima è che, in generale, bisognerebbe saper leggere. Il che vuol dire che, se qualcuno scrive che l'organizzazione armata specifica, anche se si dichiarasse anarchica, è una struttura che consideriamo nostra nemica — come abbiamo scritto sullo scorso numero — perché crea tutt'altre prospettive rispetto a quelle che auspichiamo, non si può leggere che chi la propone o chi la pratica è nostro nemico. Se noi, a titolo di esempio, affermassimo che la prospettiva anarcosindacalista ci è non solo estranea ma anche nemica, siamo certi che nessuno equivocherebbe le nostre parole. Nessuno penserebbe che è nostra intenzione aspettare sotto casa i compagni che la condividono per far loro la pelle, o che rifiuteremmo di dare la nostra solidarietà se questi venissero colpiti dalla repressione. Quel che ci va stretto è che nella loro visione del mondo c'è un posto pronto anche per noi, che però non vogliamo occupare: ed è dal loro progetto di chiuderci in quel posto e dalla nostra ferma intenzione di non farci rinchiudere che nasce la nostra critica. E queste due prospettive, la loro e la nostra, hanno tutto da guadagnare da una critica reciproca, costante e serrata, anche dura se necessario. Perché solo attraverso la critica si possono divaricare o colmare le distanze, si può trovare insomma la maniera di rendere proficuo lo scontro di progetti tanto differenti da essere nemici.

Saper leggere vuole anche dire che quando si trova scritto che un'esperienza come Azione Rivoluzionaria si può definire anarchica solo a costo di una macroscopica forzatura non si può leggere che dentro ad AR non c'erano anarchici. Dentro ad AR c'erano tanti anarchici ma anche tanti altri compagni rispettabili che, non è colpa nostra, anarchici non erano. Non per niente riteniamo più interessante il dibattito su AR che quello sulle Brigate Rosse o sugli altri partiti combattenti.

E se poi chi propone certe prospettive — ecco un'altra pecca — ha la sfortuna di stare in carcere, non possiamo certo metterci a fare le crocerossine, accogliendo con un sorriso di accondiscendenza o con un applauso qualsiasi cosa ci arrivi da dietro le sbarre, anche quando la riteniamo una bestialità. Finché considereremo i compagni in galera come dei poverini cui dare sempre ragione per non far loro dispiacere o come degli eroi cui dare ragione perché, in quanto carcerati, la ragione ce l'hanno sempre, i problemi rimarranno tragicamente aperti, le situazioni nuove ci coglieranno ancora una volta impreparati e i compagni in galera — di rimando — saranno sempre più isolati. Sarebbe meglio scrollarsi dalla testa miti guerriglieri o politiche delle medagliette — per cui uno più è stato o deve stare in galera, più è rivoluzionario e quindi più ha ragione — e ragionare con passione sui problemi nostri, che poi sono anche quelli di chi è detenuto e su cui anche lui dice la sua. Per questo Canenero dedica queste pagine a questo argomento, e se arriverà materiale interessante verrà pubblicato volentieri sul prossimo numero, che sarà l'ultimo di vita del giornale.

Infine, un'altra cosa ancora traspare da alcune delle prese di posizione che seguono: la preoccupazione che Canenero debba o voglia essere il giornale rappresentativo di “un'area”. Canenero rappresenta un pezzettino di vita di chi lo fa, e non vogliateci male se non consultiamo tutti (tutti chi? quale area?) prima di dire la nostra su ciò che più ci pare, o se non siamo tanto esperti ad insegnare la dottrina, visto che di dottrine non ne vogliamo sapere.

La redazione


Lettera sullo specialismo

(Non mettere in gioco la propria sorte se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità)

Oggi pensavo a quanto sia triste l'abitudine di definirsi a partire da una fra le tante attività in cui ci realizziamo, come se fosse quella attività soltanto ciò che qualifica la totalità della nostra esistenza. Tutto questo ricorda fin troppo da vicino le separazioni che lo Stato e l'economia infliggono alle nostre vite. Prendi, ad esempio, il lavoro. La riproduzione delle condizioni di esistenza (il fatto, cioè, di adoperarsi per mangiare, dormire, stare al caldo, eccetera) dovrebbe essere tutt'uno con la discussione, con il gioco, con la continua trasformazione dell'ambiente, con i rapporti amorosi, con il conflitto, in breve con le mille espressioni della nostra unicità. Invece, non solo il lavoro è diventato il centro di ogni preoccupazione, ma, forte della sua indipendenza, esso impone la propria misura anche al cosiddetto tempo libero, ai divertimenti, agli incontri, alla riflessione — insomma, si presenta come la misura della vita stessa. Infatti, quasi tutti gli individui si definiscono, perché tale è la loro identità sociale, a partire dal lavoro che svolgono, cioè a partire dalla loro miseria.

Mi riferisco in particolare al riflesso che la frammentazione imposta dal potere alla vita di ciascuno ha sulla teoria e sulla pratica dei sovversivi. Prendi, ad esempio, le armi. Che senza armi una rivoluzione sia impossibile mi sembra chiaro, ma è altrettanto chiaro che le armi non bastano. Anzi, credo che più rivoluzionario è un cambiamento e meno lo scontro armato diventa la sua misura. Più ampia, cosciente e gioiosa è la trasformazione e maggiore è la condizione di non ritorno che si crea rispetto al passato. Se la sovversione è portata in tutti gli ambiti dell'esistenza, la difesa armata della propria possibilità di distruggere diventa tutt'uno con la creazione di nuovi rapporti e di nuovi ambienti. Allora si è tutti armati. Diversamente, nascono gli specialisti — i futuri padroni o burocrati — che “difendono” mentre gli altri demoliscono e ricostruiscono... la propria schiavitù.

Tanto più che non sulle sconfitte “militari”, bensì sullo spegnersi dell'azione autonoma e dell'entusiasmo, soffocati dalle dure quanto false necessità della transizione (il sacrificio prima della felicità nel comunismo, l'obbedienza al potere prima della libertà nell'anarchia), si è sempre innescato il processo di riflusso e, di conseguenza, il trionfo del vecchio mondo. E proprio in questo riflusso si sono sempre giocate, storicamente, le repressioni più brutali, mai nel momento dell'insurrezione diffusa e incontenibile. Paradossalmente, un anarchico dovrebbe spingere, armi in pugno, perché le armi servano il meno possibile, e perché non siano mai separate dall'insieme delle rivolte. Mi domando allora cosa vorrà mai dire “Lotta armata”. Lo capisco se a parlarne è un leninista, che della rivoluzione non possiede che la misera controfigura — il colpo di Stato, la presa del Palazzo d'Inverno. Ma un antiautoritario? Forse può avere il senso, di fronte al generale rifiuto di attaccare lo Stato e il capitale, di sottolineare l'inoffensività di ogni contestazione parziale e l'illusorietà di una liberazione che vuole abolire il dominio semplicemente “delegittimandolo”, oppure autogestendo il proprio “altrove”. Può essere. Ma se c'è qualcosa di parziale sono proprio le mitologie guerrigliere, con tutto il loro corredo di slogan, di ideologia e di separazioni gerarchiche. Inoffensivi per il potere, poi, si è anche quando, accettando di percorrere le strade a lui note, si contribuisce ad impedire tutte quelle che non lo sono. Quanto all'illusione, come altro chiamare la tesi secondo cui la vita quotidiana — con i suoi ruoli, i suoi obblighi e la sua passività — si critica attraverso l'organizzazione armata? La ricorderai senz'altro, la tesi: il tentativo era quello di fornire un'alternativa libertaria e non avanguardista alle organizzazioni combattenti staliniste. Quanto ai risultati, erano già scritti nei metodi. Come se per attaccare lo Stato e il capitale ci fosse bisogno di sigle, di rivendicazioni noiose, di comunicati illeggibili e tutto il resto. E ancora si sente parlare di “Lotta armata” e di organizzazioni “combattenti”. Ricordare — in mezzo a tanta amnesia interessata — che anche le armi fanno parte della lotta non può che essere positivo. Ma questo cosa significa? Che non dovremmo più pubblicare giornali, fare dibattiti, invitare pubblicamente all'eliminazione del Papa, tirare uova ai giudici o yogurt ai giornalisti, saccheggiare durante i cortei, occupare gli spazi o bloccare la redazione di un qualsiasi quotidiano? Oppure significa — proprio come sogna qualche magistrato — che si dovrebbe lasciare questo “livello” ad alcuni perché altri possano diventare gli specialisti degli “attacchi”? Per di più con l'intenzione di risparmiare così inutili coinvolgimenti di tutto il movimento per le azioni di alcuni, come se non fossero da sempre le separazioni a preparare il migliore terreno alla repressione.

Occorrerebbe liberare le pratiche di attacco da ogni fraseologia “combattente” e da ogni modello leninista, farle diventare l'incontro reale di tutte le rivolte. Questo è il modo migliore per impedire il loro affossamento. Tanto più che gli sfruttati stessi passano talvolta all'attacco, senza aspettare le indicazioni di una qualche organizzazione. L'insoddisfazione si arma contro lo spettacolo terrorista del potere, talvolta alimentando lo spettacolo. E non dovrebbero essere gli anarchici a disarmarla. Per nascondere ogni segno d'insoddisfazione, per dimostrare che nessuno — tranne gli ultimi “terroristi” — si ribella alla democrazia, lo Stato cerca di inventarsi un'organizzazione anarchica clandestina a cui attribuire, per negarle, le mille espressioni di una rivolta che oltrepassa ogni “banda”, armata o meno che sia. Così si amministra il silenzio e il consenso. Proprio perché i padroni vorrebbero rinchiudere in una struttura militare le nostre attività, per dividerle in diversi “livelli”, bisogna allargarle e unirle il più possibile in un progetto rivoluzionario che superi per eccesso ogni mitologia armata. Ognuno con le sue attitudini e i suoi desideri. Ancora, portare la sovversione in ogni ambito dell'esistenza. L'arma che contiene tutte le armi è la volontà di vivere con tutte le proprie possibilità, e subito.

E della tesi secondo cui bisogna, rivendicando le proprie azioni, prendersi le proprie responsabilità nei confronti del potere? Che le sigle pronte da appiccicare agli individui scomodi facciano la felicità della polizia, mi sembra evidente. La responsabilità, poi, perché non sia una menzogna o un pretesto per il controllo, deve essere individuale. Ognuno è responsabile di fronte a se stesso delle proprie azioni. Il riconoscimento reciproco delle responsabilità avviene solo su un piano di reciprocità. Nessuna responsabilità, quindi, nei confronti di chi, sfruttando, si pone contro ogni reciprocità. Nei confronti dell'autorità, nessun terreno — lo scontro politico o militare — di riconoscimento comune, ma solo inimicizia. Cosa significa allora, prendersi le proprie responsabilità politiche di fronte al potere? Forse vuol dire — in perfetta osservanza leninista — essere da esso riconosciuti in quanto organizzazione? Qui finisce la responsabilità e comincia la sua controfigura collettiva, lo spettacolo della guerra sociale.

Il democratico di sinistra, rispettoso delle leggi, è il primo a innamorarsi dell'iconografia guerrigliera (soprattutto se esotica), e il guerrigliero è il primo, una volta posate le armi, a ritornare, lentamente e da sinistra, alla legge e alla democrazia. Da questo punto di vista, è proprio chi dichiara chiusa l'ipotesi insurrezionale in tutta la sua portata, che, aderendo più o meno direttamente al riformismo, contribuisce a rafforzare il falso bisogno dell'organizzazione combattente — proiezione rovesciata dell'impotenza politica. I militanti di sinistra sono capaci di utilizzare anche il subcomandante Marcos per legittimare, attraverso il gioco dei rimandi, il proprio ruolo contro la destra. Il subcomandante, dal canto suo, non aspetta altro che poter agire democraticamente per la propria patria.

Lasciando perdere i leninisti più o meno modernizzati, veniamo all'ambito anarchico. Anche qui, tra gli specialisti dei dibattiti, quante strette al cuore per il “Chiapas insorto”, purché dalle nostre parti di insurrezione — questa malattia infantile dell'anarchismo — non si parli mai... E purché si prendano le debite distanze da chi continua a parlarne.

Una volta un amico mi ha detto, al termine di una riunione sugli spazi autogestiti, che negli anni settanta c'era la convinzione che chi sparava aveva, per ciò stesso, ragione, mentre adesso sembra che la ragione si sia trasferita armi e bagagli dalla parte di chi occupa. Specialismi intercambiabili. Occupare è, di per sé, un metodo di lotta importante, che contiene in nuce la possibilità stessa di ogni sovvertimento: la risolutezza di allungare le mani e di prendersi i propri spazi. Questo non vuol dire, evidentemente, che tale metodo possa da solo farla finita con un mondo di costrizioni e di merci. Sono, come sempre, le idee e i desideri di chi lo applica a fare la differenza. Se qualcuno negli spazi occupati cerca la garanzia di sopravvivere alla meno peggio, ve la trova, come può trovarvi — mettendo in gioco l'occupazione stessa — il punto di partenza per le più smisurate pretese. Lo stesso vale per i libri, gli esplosivi o gli amori. Ciò che più importa è non porre limiti — né in un senso né nell'altro — mutuati dai criteri dominanti (la legge, il numero, la felicità di riuscita).

Personalmente non conosco “gli insurrezionalisti”, io conosco solo individui che sostengono — ognuno con le proprie ragioni e a proprio modo — la necessità dell'insurrezione. Necessità, come diceva un nostro amico, determinata dal fatto che all'interno della presente società è possibile soltanto proporre modi diversi di rispondere alle questioni esistenti (magari con una democrazia diretta, con comitati cittadini, eccetera), mentre con l'insurrezione si cambiano le domande stesse.

E se si rifiuta ogni specializzazione, perché definirsi “squatters”? Perché definirsi attraverso una pratica soltanto? Forse perché di questa pratica si può parlare pubblicamente, perché può diffondersi più di altre e perché implica una dimensione collettiva? Criteri miseri, a mio avviso. Anche di sabotaggio si può parlare pubblicamente, dal momento che non c'è alcun bisogno di dire Çio ho fatto questoÈ o Çtizio ha fatto quest'altroÈ per discutere di un problema. Anche un sabotaggio può essere realizzato da più individui assieme, ma se a metterlo in pratica fosse solo un individuo, non per questo l'azione perderebbe il proprio significato. Quanto alla capacità di diffusione, mi sembra che essa stessa dovrebbe costituire un argomento di riflessione, non certo un'unità di misura. Se qualcuno, dal momento che ama rompere le vetrine delle banche e dei centri commerciali, ti dicesse Çciao, io sono un casseurÈ, ti metteresti a ridere. Ugualmente ridicolo sarebbe se un sovversivo si definisse “scrittore” perché non disdegna di pubblicare qualche libro o articolo. Io non ho mai udito un anarchico presentarsi come “sabotatore”, in caso contrario avrei pensato di avere di fronte un cretino. Inoltre, chi ha mai criticato l'occupazione in quanto tale? Chi ha mai detto che la dinamite è “più rivoluzionaria” del piede di porco? Fare della lotta, in ogni sua forma, una totalità indivisibile — questo è il punto. Direi non della lotta, ma della mia vita. Senza “propaganda” e “armi della critica”, “lotta armata” e “critica delle armi”, “vita quotidiana” e “rivoluzione”, “individuo” e “organizzazione”, “autogestione” e “azione diretta”, e via incasellando.

Ma, senza proposte specifiche (lotta sindacale, occupazione degli spazi o altro), come creare un coinvolgimento più ampio? Le proposte sono possibili, anche se bisogna intendersi su cosa e a chi. Ma tali proposte, o sono momenti di una critica teorica e pratica globale, oppure sono... proposte accettate.

Tuttavia non tutto è da distruggere. Non si deve distruggere la possibilità della distruzione. Non è un gioco di parole. La distruzione va pensata, desiderata, progettata e organizzata. Per fare questo nessun contributo utile, teorico e pratico, va sprecato, nessun metodo va abbandonato. Non è certo con i bei proclami di sovversione che si può andare all'assalto del mondo. Così si diventa soltanto i pensionati della rivolta. La possibilità della distruzione è tutta da inventare, e non si può dire che gli sforzi per farlo siano molti. Spesso, con l'alibi che non si vuole costruire alcunché, si va poco a fondo con i ragionamenti e, altrettanto spesso, manca la volontà di essere spregiudicati e pronti come le proprie idee, di non rimanere in balìa degli avvenimenti. La capacità, insomma, di saper scegliere l'occasione. ÇNel cuore dell'occasione, ogni cosa è un'arma per l'uomo la cui volontà non sia disarmataÈ.

Torno a dire: tutto assieme, o niente. Quando si pretende di sovvertire il mondo solo con la discussione, o con le occupazioni, o con i libri, o con le armi, si finisce per voler dirigere le assemblee, per occupare le baracche, per scrivere male o per sparare peggio. Il fatto è che a ripetere queste banalità che dovrebbero essere la base per cominciare a discutere davvero, si diventa noiosi come gli specialisti della ripetizione. I dialoghi logori si cambiano cambiando le situazioni.

Massimo Passamani


Lampi e tuoni

Dal “Solydarity Committee for Spyros Dapergolas”, Atene, Grecia

Spyros Dapergolas è stato arrestato il 21 giugno 1995, durante una tentata rapina. Da allora è rinchiuso in “carcerazione preventiva” in attesa del processo, anche se ha superato il periodo legale di detenzione, che in Grecia è di diciotto mesi. Spyros ha cominciato lo scorso 9 novembre 1996 uno sciopero della fame contro l'azione della macchina repres-siva. Ha già perso venti chili e la sua salute è in pericolo. Quella che segue è una lettera scritta da Spyros il 22 dicembre dalla prigione in cui è rinchiuso:

"Sto facendo uno sciopero della fame da 44 giorni. Mancano pochi giorni al completamento dei 18 mesi di carcere: un periodo di 18 mesi pieno di “diritti co-stituzionali”, leggi, discussioni e soprattutto giustizia. Un giorno dopo l'altro questi 18 mesi sono passati; io sarò ancora in prigione e non importa quanto io tenti, non riuscirò a ridere della mia situazione.

La mia salute è in cattive condizioni e non vedo davvero nessuna ragione per cui non debba peggiorare. Non ho dubbi, secondo i miei impegni, per lottare fino alla fine. Ho scelto di comportarmi in questo modo, se non per evitare la mia sicura estinzione, almeno per preservare la mia dignità, senza sedermi quietamente ad accettare la brutalità e la persecuzione della macchina oppressiva. Ad ogni modo, poiché mi dichiaro anarchico, non potrei agire diversamente e non sono sorpreso della piega che stanno prendendo gli eventi. Anche il meno sveglio tra i carcerati realizza immediatamente il potere delle leggi che si suppone debbano proteggere i diritti umani.

Non sono il primo (e temo che ce ne saranno molti altri) per cui il “carcere provvisorio” dura anni. Forse l'unico aspetto positivo sta nella capacità di riconoscere nei fatti che le idee per le quali sto lottando sono giuste e corrette. L'autorità e i meccanismi sembrano voler spingere ogni cosa al limite estremo. Forse credevano che io non fossi in grado di continuare. Che mi sarei ridotto nel silenzio e nell'isolamento. Come prima cosa, posso promettere che le loro attese non si realizzeranno. Poi, resteranno nuovamente delusi. Indifferenti ad ogni problema, ci sono persone e gruppi nella società che portano avanti la bandiera dalla libertà e della solidarietà, che non si lasciano portare via, che ridono della repressione. Queste persone mi sono vicine e in realtà queste sono le persone che io voglio avere accanto... Contro la serie di cattive sorprese che mi hanno preparato e contro le altre che stanno preparando, sono determinato a lottare con ogni mezzo a mia disposizione.

Spyros Dapergolas "

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Per il secondo anno consecutivo la notte di San Silvestro ha visto un centinaio di compagni ritrovarsi davanti alle carceri Nuove a Torino, per festeggiare a modo loro l'arrivo del nuovo anno. Slogan contro le galere, petardi, uova piene di vernice colorata e una bottiglia incendiaria sono stati lanciati contro le mura e il portone della prigione. La polizia, stizzita, ha effettuato una carica e lanciato lacrimogeni.


Qualcosa da nascondere

Torino. Informazioni riservate ricavate dai registri dei libretti, dai buoni postali, dai vaglia e versamenti, soprattutto utilizzando la grande “disponibilità” di portalettere e fattorini; tutto destinato alla compilazione di tabulati segreti sugli ignari utenti.

Specifica una circolare interna della direzione postale di Piemonte e Val d'Aosta: ÇNon si debbono distribuire questionari o fare domande diretteÈ. Ma i dirigenti postali spiegano che si tratta solo di un'operazione di marketing, volta a comprendere meglio le esigenze degli utenti: ÇFacciamo tutto di nascosto per evitare inutili allarmismiÈ. Già, in fondo, se non si ha nulla da nascondere, perché preoccuparsi?

Il connubio fra i vari tipi di informazioni, quelle “tecniche” e quelle ricavate dalle investigazioni, è prezioso in un periodo come questo in cui ogni processo è imperniato su qualche pentito doverosamente prezzolato, in cui si parla di taglie (le autorità le definiscono “premi”) sui lanciatori di pietre, in cui dovunque sorgono telecamere opportunamente occultate. E sicuramente anche questa schedatura avrebbe potuto essere giustificata dal bisogno di sicurezza, di trasparenza e civiltà, e presentata come uno strumento di controllo e prevenzione contro — a seconda del momento — l'usura, l'evasione fiscale, il riciclaggio di denaro sporco, e via dicendo. Quale onesto cittadino poteva avere qualcosa da ridire?

Le informazioni sono la base necessaria per il controllo sociale: male hanno fatto le Poste italiane a vergognarsi di questa ennesima schedatura; ai suoi amministratori sarebbe bastato presentarla in altro modo, come una comodità — così come già succede per le tessere telefoniche, quelle autostradali, i bancomat, il censimento ed ora per il sistema di guida satellitare per le automobili. Quest'ultima invenzione (un altro evidente derivato dell'industria bellica) permetterà all'automobilista di sapere esattamente dove sta andando senza perdersi, grazie al collegamento costante con un satellite collegato ad un computer installato a fianco del volante che visualizzerà il tragitto. Ovviamente, oltre a poter individuare sempre gli spostamenti del veicolo (un guaio per i ladri d'auto!), le autorità potranno controllare quelli del guidatore, ricostruendone i movimenti; basterà registrarli dal satellite. Magari, quando questo optional costerà meno, verrà installato in ogni nuova auto e l'uso sarà reso obbligatorio (per la vostra sicurezza, ovviamente).

Sapranno dove siete, quanto e come spendete, quanto avete in banca o in posta, a chi scrivete, a chi telefonate, dove abitate, quanto viaggiate, che rapporti aveteÉ naturalmente sono tutte comodità. Se siete sicuri di non aver nulla da nascondere.

Mario Spesso


L'ostilità necessaria

Sulla necessità dell'attacco allo Stato, alle sue strutture ed alle imprese del capitale che perpetuano il dominio e lo sfruttamento, un rivoluzionario non dovrebbe avere tentennamenti. La costruzione di una società diversa presuppone l'annullamento di tutto ciò che è di freno alla libertà individuale e al raggiungimento dell'autogestione e della solidarietà nel campo lavorativo e produttivo. Quindi dovrebbe essere scontata la profonda inimicizia verso le industrie del sistema, anche per il solo fatto che esistono. Ma per i più restii ad accettare la necessità dell'inimicizia, basterebbe uno sguardo più attento a ciò che esse producono o agli interessi che perseguono per non trovare più scuse attendiste.

Salta subito all'occhio la responsabilità delle industrie belliche che vivono e si sviluppano grazie ai barbari massacri in guerre fomentate nei diversi angoli della terra. In Italia il vanto dell'industria bellica sono le mine antiuomo che hanno disseminato milioni di morti in mezzo mondo. Si distinguono per la loro produzione la Bombini-Parodi-Delfino di Colleferro, vicino Roma; la Valsella di Brescia e la Tecnovar di Bari.

Ma anche industrie apparentemente più innocue e non responsabili direttamente di crimini si scoprono invischiate in sporchi affari. In Colombia circa settanta società straniere sono sospettate di stretti legami con i narcotrafficanti locali. Principalmente si tratta di imprese statunitensi e tedesche, ma non sono da meno quelle spagnole, svizzere, danesi, indiane, brasiliane e ovviamente anche italiane. Il capitale non ha confini. Per quanto riguarda l'Italia si distinguono la Resfar srl, la Amsa materie sintetiche, la Ims Intermedi Medicinali e la Viani di Milano, la Ima Industria macchine automatiche di Bologna e la Tecnomaco srl di Roma. Un'altra cinquantina di aziende — tra cui alcune ditte orafe di Arezzo — sarebbero coinvolte nel riciclaggio di denaro proveniente dalla vendita di cocaina. Insomma, ce n'è per tutti i gusti e, al di là di questi esempi venuti alla ribalta della cronaca in questi giorni, non è difficile evidenziare responsabilità precise e marciume in tutte le strutture che perpetuano lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

P.R.


Fuoco sul carro funebre

È morto a Carrara all'età di 93 anni Ugo Mazzucchelli, l'anarchico più amato dai giornalisti italiani, che vedevano in lui il Sandro Pertini dell'anarchia, il presidente e portavoce del movimento anarchico. In effetti Mazzucchelli condivideva con Pertini un passato da partigiano e un'arteriosclerosi galoppante, mentre differiva per condizione economica, giacché con Mazzucchelli scompare anche un industriale del marmo. Fra le sue interviste più conosciute, ricordiamo quella in cui sostenne l'intervento militare nella guerra del Golfo e quella in cui rivendicò la virtù radicale del voto. Invece la sua “azione sovversiva” più rinomata è stata l'erezione del monumento a Gaetano Bresci imposta all'amministrazione comunale della sua città. Malgrado questa lapide funebre, lo spirito della rivolta anarchica è ancora vivo e vegeto. Mazzucchelli invece no. Le nostre più sentite condoglianze ai lavoratori della stampa, gli unici a essere rimasti straziati dal dolore alla notiza della sua dipartita.


Una sete da eunuco

Da quando alcuni anarchici carrarini inneggiavano al giudice Di Pietro di tempo ne è passato, forse troppo, se un compagno, dalle pagine di Umanità Nova del 15 dicembre scorso, ha sentito l'esigenza di contribuire ancora a rifare la facciata alla città di Carrara (un tempo famigerata “patria” degli anarchici iconoclasti), Çcittà degli anarchici veriÈ — come ha tenuto a sottolineare il pm Bruno Giardina quando ha chiesto in primo grado una condanna ad otto anni per quattro anarchici accusati di una doppia rapina a Trento.

Già ci sono anarchici favorevoli alle elezioni per partecipare all'amministrazione delle città, ma che adesso si invochi la galera per qualcuno mi sembra troppo. Forse sono io a non capire che amministrare una città significa anche gestire le prigioni site nella stessa. È che mi sembra tanto assurdo quanto l'andare a votare.

Comunque, il compagno in questione ha reputato scandalosa la decisione presa dai giudici di Genova di scarcerare colui che ha ammazzato un nostro compagno anarchico.

Non voglio soffermarmi sugli starnazzamenti forcaioli da parte di un anarchico, quanto su uno degli esempi che cita per portare acqua al suo mulino, alle sue farneticazioni.

Diffido questo compagno dallo strumentalizzare ancora la carcerazione che decine di compagni stanno vivendo sulla propria pelle e altrettante decine di compagni stanno rischiando — chi a piede libero, chi agli arresti domiciliari e chi latitante — a causa di una incredibile montatura repressiva. Quella stessa montatura a cui lui fa riferimento.

Lo diffido dall'usare ciò che stiamo vivendo per giustificare la sua sete di vendetta, una sete da eunuco visto che, anziché gioire per la possibilità che si è creata, invoca lo Stato affinché gli dia giustizia.

Lo diffido dall'usare, per i propri scopi, compagni ai quali è stata negata la solidarietà sia dal giornale che ha ospitato i suoi deliri sia da lui stesso.

Hanno liberato colui che ci ha ammazzato un compagno, e ci si lamenta? Che ognuno si assuma le proprie responsabilità o vada a dormire in silenzio insieme alla propria codardia. Puah, che schifo!

Antonio Budini


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