CANENERO

settimanale anarchico - 17 gennaio 1997 - numero 45

questo giornale non ha prezzo e non teme imitazioni

copertina canenero 45 Un'avventura senza rimpianti
Lei non sa chi sono io
Fuori dei binari
Spariti
Cronaca della rivolta
Nella pancia del mercato
Il bastone e il bastone
Al mulino di Marcos
Basta che sia per poco
Provate a controllare il vento
Lampi e tuoni
Non l'ho letto - non l'ho visto...
La costrizione del momento
Infamità e puttanesimo

CANENERO - Casella Postale 4120 - 50135 Firenze -Telefono e Fax 055/631413

Tenuto conto della forma agile del giornale, i contributi scritti non devono superare lo spazio di una cartella, spazio 2. La redazione si chiude alle ore 22 di ogni lunedì, tranne che per notizie dell'ultima ora di particolare rilevanza. Le spedizioni partono mercoledì sera e arrivano a destinazione entro venerdì.

Supplemento ad "Anarkiviu"
Redattore responsabile Costantino Cavalleri - Registrazione n. 18/89 del Tribunale di Cagliari


Un'avventura senza rimpianti

Cari lettori,

quello che avete tra le mani è l'ultimo numero di Canenero. I motivi che ci hanno spinto a deciderne la chiusura sono diversi, tutti riconducibili a quanto avevamo affermato nell'editoriale del numero 33, il primo della nuova serie: "Canenero è una scommessa che ha un senso solo se c'è qualcuno disposto a giocare". Ecco, chi fino a questo momento è stato disponibile a puntare su questa scommessa ora non lo è più.

Non siamo più disponibili a fare Canenero perché la sua realizzazione ha finito con l'occupare troppo tempo delle nostre vite, impedendoci non solo di portare avanti altri progetti che abbiamo a cuore, ma anche di riuscire ad utilizzare appieno lo stesso strumento cui abbiamo dato vita. Un settimanale anarchico, se non vuole avere lo scopo di essere una mera testimonianza, deve necessariamente venire usato e, paradossalmente, proprio chi lo faceva non ha avuto la possibilità di usarlo come avrebbe voluto.

Inoltre la lunghezza limitata prevista per gli articoli in un settimanale così concepito (la famosa cartella e mezza) spesso e volentieri ci ha consentito al più di abbozzare certi discorsi, lasciandoli poi in sospeso. Il successivo approfondimento non poteva che essere rimandato come è ovvio ad altra sede più idonea, cui nessuno ha ritenuto finora di dar corpo, dato che non è pensabile possa avvenire in un settimanale come questo. Una tale situazione alla fine ci è diventata intollerabile, soprattutto a causa dell'attuale assenza di altri strumenti, quali riviste con una periodicità più a lungo respiro o libri per noi di un certo interesse.

Infine ci siamo resi conto, soprattutto in tempi come questi, che un settimanale con molta difficoltà riesce a spingere alla riflessione, a stimolare un proficuo dibattito. Incredibilmente, proprio per la sua scelta di porre sul tappeto questioni da affrontare, Canenero ha finito col diventare esso stesso oggetto di dibattito, e non uno dei suoi soggetti. Per parlare chiaramente, un settimanale è vivo quando riesce a coinvolgere quanti più individui è possibile, cioè se le idee che vi sono espresse riescono a scatenare reazioni a catena, anche violente se si vuole, a patto che queste avvengano sempre in condizione di reciprocità. In caso contrario il giornale ripiega su se stesso e non gli rimane che morire, se non vuole sopravvivere come patetico monumento all'Idea. Ecco, questo confronto/scontro è mancato. Non vi ha contribuito chi non condivide le nostre idee, capace solo di inviare lettere di insulti o di accuse prive della minima argomentazione, e non vi ha contribuito nemmeno chi le condivide, anche se solo in parte. Peggio ancora, ci siamo accorti che al settimanale era stato affidato un compito rappresentativo: essere la voce di chi non ne ha. E le sole discussioni che Canenero sembra essere riuscito a sollevare sono state quelle relative alla sua capacità o meno di assolvere un compito che nessuno di noi ha mai desiderato. A questo proposito, le prese di posizione apparse sullo scorso numero, nel suo “inserto mattone”, sono un esempio indicativo. Dallo scontro di due prospettive diverse non è nato un dibattito ampio, interessante, con le immaginabili numerose sfaccettature e le sfumature che avrebbe potuto esprimere: è nata solo una desolante corsa a dichiararsi pro o contro. Ma pro o contro che cosa, e perché? Silenzio. Tutto tace.

Un silenzio che riconferma i nostri dubbi sulla attuale validità di Canenero, e che non fa che incrementare il bisogno di abbandonare uno strumento analitico come un settimanale che, forse, per i suoi tempi troppo stretti, non consente una migliore sedi-mentazione delle idee che vi sono contenute, limitandosi inevitabilmente ad accatastare problemi e questioni che tuttavia rimangono aperti.

Ed è anche per tutti questi motivi che abbiamo deciso di porre fine a Canenero. Senza rimpianti.

La redazione


Lei non sa chi sono io

Uno degli argomenti ricorrenti contro Canenero è stato quello dell'utilizzo di pseudonimi per firmare alcuni suoi articoli. I nomi inventati e le sigle di comodo si sono alternati continuamente per tutta la durata di questo settimanale. Su questa usanza, praticata scrupolosamente da alcuni redattori di Canenero, non abbiamo mai voluto spendere troppe parole. Ora che questo giornale si appresta a chiudere, affrontiamo volentieri il discorso, almeno per quello che riguarda i suoi redattori che hanno fatto questa scelta.

Perché l'anonimato? Gli imbecilli, genìa che purtroppo non manca mai, ci accusano di non voler assumere le responsabilità di quanto affermiamo. Argomento miserabile, giacché se qualcuno vuole sapere chi è l'autore di un articolo non ha che da chiederlo. Nessuno di noi ha l'abitudine di nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso.

Il fatto è che all'interno del movimento anarchico è diffusa la pessima abitudine di giudicare uno scritto non per il suo contenuto ma per il suo autore. I personalismi, le ripicche, le simpatie come le antipatie, pare siano diventati il solo metro di misura quando si ha che fare con l'esposizione di una idea. Conosciamo diversi compagni pronti a denigrare o ad esaltare un articolo non per le idee che vi sono espresse ma per l'identità di chi l'ha scritto. Ecco, nelle nostre intenzioni l'anonimato è un mezzo per costringere i lettori a leggere al di fuori di ogni pregiudizio — a favore o contro non importa — a scendere nel contenuto, senza consentire facili vie di fuga. Ci siamo riusciti? Non lo sappiamo.

Sappiamo però che deprechiamo la triste aura che circonda chi viene reputato Çcapace di scrivereÈ, sappiamo che deprechiamo chi ci approva o chi ci critica ancor prima di sentirci proferire parola, sappiamo che odiamo ogni forma di “celebrità”, anche quella ristretta al solo ambito anarchico. Sappiamo che abbiamo in odio ogni forma di specialismo, ogni ruolo, foss'anche quello di Çcompagno che sa scrivereÈ.

L'uso dello pseudonimo, così come lo abbiamo praticato, non è stato dunque una protezione contro la polizia di Stato, che ha dimostrato di saperci trovare molto più facilmente dei nostri amici, ma contro la polizia del pensiero, che è alla continua ricerca di chi sostiene determinate idee per potersene meglio sbarazzare.

C.V., V.C., S.I., C.H., M.M.,
T.P., P.N., N.N., P.V., N.P.,
L.S., M.Z., A.P., K.T., U.C.,
L.R., M.F., R.F., F.M.,
Gruppo anarchico insurrezionalista “E. Malatesta”,
Aldo Perego, Maria Zibardi,
Penelope Nin, Simona Dessa,...


Fuori dei binari

“Rieccoci a contare i morti” titola un quotidiano riferendosi alla strage provocata Domenica scorsa dal “Pendolino”. L'angoscia e la paura accompagnano indistintamente tutti, dall'illustrissimo senatore Cossiga al più umile dei pendolari. A mietere morte stavolta ci ha pensato il modello più avanzato dei treni disponibili in Italia, l'orgoglio dei gestori delle ferrovie, presentato a suo tempo (eravamo nel '93) come il portato più eccellente della tecnologia avanzata. Qualcuno è rimasto sconcertato. A furia di associare tecnologia e sicurezza, tecnologia e benessere, di fronte all'ennesimo disastro avrà avuto un fremito di incertezza. Se un Pendolino, fiore all'occhiello delle ferrovie, deraglia per banali “errori tecnici o umani” (dov'è la differenza?), che fine potremmo fare — e anche qui gli esempi non mancano — usando una antiquata littorina locale? La domanda non è fuori luogo. Proviamo a distaccarci un poco dall'opinione corrente che prende per oro colato ogni innovazione tecnologica. Le garanzie tecniche e scientifiche sembrano alimentare una diffusa paura della morte e a poco servono gli illusori benefici apportati, poniamo, dal percorrere in un tempo minore la tratta Milano-Roma. A preoccupare ovviamente non sono solo le disfunzioni del sistema ferroviario, poiché gli effetti nocivi vengono prodotti da ogni struttura e attività concepite con un'applicazione massiccia di nuove tecnologie, superando i limitati confini nazionali e coinvolgendo l'insieme degli esseri viventi. In questo quadro andare in treno è lo stesso che usare l'automobile o l'energia nucleare per illuminare la propria casa situata vicino a una fabbrica. La civiltà tecnologica ci tiene assieme in uno stato permanente di paranoia, sottoposti all'imprevedibilità di disastri incontrollabili.

I nomi dei responsabili della costruzione di un treno come il Pendolino (vedi Fiat, Ansaldo, Breda, Firema, Tecnomasio e Sasib) dovrebbero bastare a dimostrare i reali interessi legati a questo progetto a tutti coloro che fantasticano intorno all'utilità pubblica del treno. I padroni, a differenza degli sfruttati, sanno bene che allo sviluppo tecnologico corrisponde un aumento dei profitti, ma non una migliore capacità di previsione delle sue implicazioni. Forse per questo assoldano numerosi “esperti” che ci spacciano con autorevolezza la fine della Storia e del Progresso, consigliandoci magari di affidare la nostra sorte a qualche setta religiosa, alla realtà virtuale o alla tristezza della vita di campagna. Ci chiedono, in sostanza, di rimanere inerti spettatori della loro irresponsabilità.

Di questo avviso non sono le popolazioni attualmente aggredite dal progetto “Treno ad Alta Velocità”, che si stanno opponendo a questo ennesimo flagello dalle pesanti ripercussioni sociali e ambientali, organizzando proteste e numerosi atti di sabotaggio.

Gionatan Suing


Spariti

Antonio Marini e Claudio D'Angelo. I nostri lettori probabilmente conosceranno già questi due nomi. Il primo è il pubblico ministero che sta conducendo l'inchiesta contro decine di anarchici, il secondo è il giudice per le indagini preliminari che ha firmato gli ordini di custodia cautelare eseguiti lo scorso settembre e che dovrà decidere se rinviare a giudizio gli indagati — i prossimi 16, 17, 21 e 24 gennaio.

Due giorni prima sempre questi due signori si sono ritrovati al Palazzo di giustizia di Roma per discutere di un'altra inchiesta, quella relativa alla scomparsa di centodiciassette persone, di nazionalità italiana, avvenuta in Argentina durante la dittatura militare di Vileda. L'indagine, iniziata nel 1983, è stata condotta proprio da Antonio Marini, che dopo undici anni ne ha chiesto l'archiviazione, adducendo come motivo la mancata collaborazione delle autorità argentine. D'Angelo preferì non pronunciarsi su questa richiesta e scaricò la patata bollente al ministero, il quale a sua volta provvide a restituirgliela, decretando che non c'erano motivi sufficienti per interrompere l'iter giudiziario. Così sarà Claudio D'Angelo a decidere se accogliere la richiesta d'archiviazione formulata dal buon Antonio Marini, che preferisce non prendersela troppo con i potenti.

Come si vede, ci sono sequestri e sequestri, omicidi e omicidi. Quelli imputati agli anarchici, frutto della fantasia di qualche carabiniere, vanno puniti senza esitazione. Quelli realmente avvenuti, compiuti dallo Stato argentino, vanno dimenticati.

Che nessuno si sorprenda di ciò. Ma che tutti ne tengano conto.


Cronaca della rivolta

24 dicembre - Cecina (LI). Nella piazza principale qualcuno ha salutato il Natale appiccando il fuoco al portone della chiesa, al portone di An, a quello di Forza Italia e decapitando il bambin Gesù del presepe, cui era stato riservato un medesimo trattamento appena tre notti prima.

25 dicembre - Potenza. La Messa di natale è stata celebrata senza l'apporto del microfono, rubato ore prima.

3 gennaio - Paceco (TP). È stato bruciato nottetempo il portone della chiesetta di S. Francesco da Paola, sito accanto alla caserma dei carabinieri.

4 gennaio - Mentana (RM). Qualcuno ha lanciato sassi e petardi contro la capanna del presepe, posto nella piazza del paese, e ne ha asportato le statuine.

5 gennaio - Peveragno (CN). In un locale pubblico nel centro del paese alcuni ragazzi hanno rifiutato di fornire le proprie generalità ad alcuni carabinieri. Quando i militi sono usciti dal locale, hanno trovato la loro “gazzella” con la targa staccata, lo specchietto laterale danneggiato, un cartello stradale sul tettuccio, mentre le chiavi della vettura erano state gettate in mezzo alla neve.

7 gennaio - Pieve Emanuele (MI). Tre famiglie, in precedenza sfrattate e sistemate temporaneamente in un residence a spese del Comune, hanno occupato gli uffici del sindaco minacciando di trasformarli nella propria abitazione.

9 gennaio - Rio de Janeiro (Brasile). Colpi d'arma da fuoco sono stati esplosi all'indirizzo dell'ingresso della residenza dell'arcivescovo di Rio, cardinale Eugenio Sales.

10 gennaio - Alessandria. Quattro medici dell'ospedale cittadino sono rimasti intossicati da una torta margherita loro recapitata. Il dolce era stato imbottito con psicofarmaci — quelli usati di solito per calmare gli “schizofrenici” — che hanno avuto effetti diversi su ciascuno di loro.

11 gennaio - Avigliana (TO). Qualcuno ha deposto un grosso masso sui binari della linea riservata al passaggio di treni ad alta velocità, bloccando per qualche tempo il passaggio dei Pendolini. Nelle vicinanze è stata trovata la scritta Çno all'Alta VelocitàÈ.

12 gennaio - Brescia. Una vetrata degli uffici della sede provinciale di Forza Italia è stata infranta da ignoti.

13 gennaio - Reggio Emilia. Per la terza volta in pochi mesi è stata asportata la copia del primo Tricolore dall'atrio del Municipio cittadino, dove due secoli fa era stata proclamata bandiera d'Italia.


Nella pancia del mercato

Bambini, è l'ora della merenda. E non preoccupatevi se la merenda potreste essere voi, così va il mondo. Al massimo ribellatevi.

La Mattel, l'industria del rincoglionimento dei figli imprigionati negli appartamenti, ha rovesciato nella pancia del mercato un nuovo prodotto: una bambola-mostro con una cyberganascia per far compagnia ai bambini all'ora della merenda biascicando pezzetti di plastica. Gnam gnam, ecco, tesoro, mangia la merendina, gnam gnam, piano che ti va di traverso, gnam gnam, ehi birichina ti ho detto la merendina non i capelli, gnam gnam, fermati stronza, gnam gnam, mamma, aiuto, fermalaaaaÉ È successo che il surrogato tecnologico degli amichetti della bambina le stava per fare gnam gnam alla bionda chioma ric-cioluta. Si è saputo inoltre che la bambola in questione ha anche sgranocchiato qualche tenero ditino. La Mattel ha ritirato dal mercato il prodotto in seguito alle denunce di molte mamme, quelle mamme che l'avevano comperato.

Nessun danno per la multinazionale, per l'industria dei giochi dei bambini. Ma nessun danno anche per l'industria dei bambini. Certamente nessun genitore s'accorgerà d'essere un fabbricante di mostri. Nessuno concederà ai propri figli aria, movimento, illimitate possibilità di gioco. Rimarranno rinchiusi in quella gabbia di plastica e transistor che è divenuta l'infanzia democratico-industriale, rinchiusi nei rapporti da camerata, da cortile condominiale, da giardinetti pubblici, in attesa di perdersi in uno dei ruoli del delirio autoritario.

E la prossima volta, invece della bambola che fa gnam gnam, verrà regalata loro quella che fa i ruttini alla vaniglia.

Il notturno


Il bastone e il bastone

Nell'ultima lettera vi parlavo a grandi linee del coordinamento del movimento delle occupazioni in Spagna, precisando che in questo periodo lo stesso movimento sta prendendo forza in vari punti del paese. Soprattutto si sente la necessità di riorganizzarsi in un momento in cui la risposta delle istituzioni è più pesante quanto a repressione poliziesca e giuridica. L'inizio, se di inizio si può parlare, di questo inasprimento nei confronti delle occupazioni si può indicare formalmente nell'entrata in vigore del nuovo codice penale dove sono stati inseriti due articoli che sanciscono il delitto di occupazione. Occupare in Spagna è oggi considerato un reato perseguibile penalmente, così come è diventato punibile penalmente pure allacciarsi alla luce, al gas, eccetera. L'applicazione pratica della “novità” giuridica ha portato dal 24 maggio scorso, data dell'entrata in vigore del nuovo codice penale, a una serie di sgomberi ai quali è stata data, più o meno, una buona risposta da parte del movimento così come da parte di altri “settori” sociali.

Ora le istituzioni, non soddisfatte di aver penalizzato le occupazioni dal punto di vista giuridico, cercano di criminalizzarle usando come pretesto i movimenti indipendentisti, soprattutto in Catalunya e in Euzkadi, e l'acutizzarsi all'interno della dinamica indipendentista di quella che prende il nome, nell'opinione pubblica, di “violenza di strada”, che già è parte integrante, in maniera diffusa e frequente, della lotta di indipendenza (sabotaggi urbani, guerriglia, sabotaggi ai lavori di costruzione delle infrastrutture, eccetera). Questa strategia di criminalizzazione del movimento delle occupazioni si è manifestata esplicitamente nel caso dello sgombero di una occupazione a Terrassa (in Catalunya), seguita dalle dichiarazioni di un dirigente della Generalitat che formulava la connivenza e la collaborazione fra le frange indipendentiste radicali catalane e basche e il movimento delle occupazioni, prendendo a esempio slogan come “Gora Eta” gridati durante il raduno di compagni a sostegno degli sgomberati.

Alla luce di questi fatti, e con la consapevolezza che non esistono situazioni isolate, ma che le varie tappe del percorso istituzionale, giuridico, informativo, poliziesco, rispondono ad una strategia repressiva globale, bisogna considerare gli avvenimenti accaduti durante e dopo la manifestazione a favore delle occupazioni convocata per Sabato 14 dicembre a Iru–ea da parte del coordinamento centri sociali e case occupate di Euzkadi. Quel giorno più di un migliaio di persone si erano riunite in una piazza del centro cittadino. Immediatamente è arrivata la polizia con armi “antidisturbios” (fucili con pallottole di gomma, caschi, scudi e manganelli) che non ha esitato, prima ancora dell'inizio del corteo, a caricare brutalmente costringendo i compagni a sciogliersi. La parte vecchia della città è stata invasa dalla polizia che ne ha bloccato le strade, recintando fisicamente una zona del quartiere. La gente è riuscita a concentrarsi nuovamente in una piazza vicina e pure lì gli sbirri hanno caricato subito, arrestando almeno sei persone. Fin dal momento del loro arresto i sei detenuti sono stati continuamente picchiati, insultati e minacciati, e a suon di manganellate è stato impedito loro di parlarsi, toccarsi o anche solo guardarsi. Quando sono stati portati in carcere, ammanettati nonostante le ferite causate dai pestaggi, sono stati incappucciati con un sacchetto e costretti a camminare per l'edificio per farli disorientare prima dell'interrogatorio, nel corso del quale sono rimasti incappucciati, mentre venivano picchiati e minacciati. A questi sei detenuti, baschi ma non di Iru–ea, gli sbirri hanno domandato con insistenza che cosa facessero lì, che cosa fossero andati a fare alla manifestazione. Due giorni dopo è stata organizzata una conferenza stampa al centro sociale di Iru–ea ed è in preparazione un raduno fuori dal carcere dove è rimasto sequestrato uno dei sei compagni arrestati.

Il fatto che ci sia una repressione così brutale (questo è il trattamento riservato specialmente ai detenuti indipendentisti) risponde sicuramente alle direttive del Ministro degli Interni, del Governo centrale di Madrid, e fa parte di una strategia di criminalizzazione del movimento delle occupazioni destinata ad estendersi in tutto il paese. È importante essere consapevoli di questa strategia istituzionale, per smettere di pensare alle varie manifestazioni dello Stato e del capitale come a qualcosa di isolato, come se si trattasse di fatti a sé stanti.

Giovanni A.


Al mulino di Marcos

Tutti sappiamo che la settimana scorsa Bertinotti ha incontrato il subcomandante Marcos nel fondo della selva Lacandona, a sud del Messico. Tutti abbiamo visto Marcos arrivare a cavallo insieme a Tacho e Moises, guadare il torrente, fermarsi a far bere i cavalli. Tutti l'abbiamo visto spronare il cavallo, farlo imbizzarrire e poi smontare, con il passamontagna, la pipa e il kalashnikov per abbracciare Bertinotti. Poi Marcos se ne va, con perfetto senso del ritmo della scena; poi ancora ritorna e si ritira con il segretario di Rifondazione che lo invita in Italia. Parlano a lungo i due, e poi si lasciano. Intanto le mogli e gli accompagnatori sorridono ai fotografi, conversano, pensano a come racconteranno la scena ai nipoti rimasti a casa, a come riusciranno a rendere tutta l'emozione di un momento storico, di un pezzo di mito moderno.

Il quadro ricorda un poco l'iconografia risorgimentale, le illustrazioni di Garibaldi a Teano, la scenografia di un vecchio western.

Ma cosa c'è dietro ad un fatto come questo? Non tanto dietro all'incontro fra Bertinotti e Marcos, cosa che non ci fa né caldo né freddo, quanto a tutto il resto: Bertinotti che ha attraversato la selva circondato da un nugolo di giornalisti e di fotografi per ritrovarsi su di un set perfetto, in mezzo ad una perfetta scenografia da territorio liberato, dove tutto era pronto per accogliere le televisioni e per redigere le pagine web di Internet. Il sospetto è serio: questa è davvero una rivoluzione o gli zapatisti ne vogliono solo riprodurre la pantomima, la polvere e le armi? Il processo che sta ricominciando a scuotere il Messico, e con esso l'America Latina, è tutto lì o quella ne è solo una scintillante immagine per turisti? Cosa c'è in realtà al di sotto, cosa è esploso, cosa sta per esplodere, quali meccanismi sono improvvisamente scattati dopo vent'anni di pace apparente, e che parte ha l'esercito zapatista se non quella del recupero spettacolare? Ecco, a tutto questo non sappiamo rispondere e non lo potremo fare finché nella testa avremo questa marea di immagini e di parole che ci confondono e che ci impediscono di vedere e anche solo di ipotizzare qualche cosa da così lontano.

Non per nulla Marcos regala a tutti i suoi ospiti illustri lo stesso libro: una vecchia edizione messicana del “Don Chi-wsciotte” della Mancha — a suo dire Çun manuale di scienza politica moderna, molto utile nella lotta per l'umanità e contro il neoliberismoÈ.

Un regalo che, anche questo, ci può sviare, che ci traghetta ancora in uno spettacolo romantico e senza storia.

Ma in fondo viene il sospetto che a quell'incontro ormai ci sia rimasto solo Sancho Panza in compagnia di Ronzinante. Don Chisciotte ha disertato per correre ancora alla conquista della sua Dulcinea, ma dove sia ora, da qua, non riusciamo proprio a vederlo.

S.V.


Basta che sia per poco

Andare in vacanza significa interrompere, beninteso per un periodo rigidamente fissato e programmato, l'asfissiante continuità degli orari di lavoro, delle noie familiari e degli impegni mondani. Significa anche andare in cerca di emozioni nuove, di esperienze particolari: tutto ciò che una normale agenzia di viaggi non sempre può promettere con i suoi depliant uguali uno all'altro, le sue pallosissime crociere, gli animatori scelti per intrattenere le giovinette in fregola e le anziane signore non del tutto avvizzite. Il turista in questa ricerca non può restare da solo, ed un affarista non può che cogliere al volo le possibilità offerte dalla guerra e dalla povertà.

La World Vision Travel, a La Spezia in via Galilei 10, offre per la somma di appena sessanta milioni una vacanza nei “luoghi di guerra”, garantendo al viaggiatore ogni sicurezza. Invece a Caracas, rivolgendosi all'agenzia Estudio Partner, si può condurre una settimana di vita da barboni nelle baraccopoli della città, dopo di che si viene portati in limousine in un albergo di lusso per meglio provare sulla pelle la distanza che esiste tra la peggiore miseria ed il lusso più sfarzoso. Il ricco turista in tal modo potrà sperimentare le sue paure, per assaporare meglio il privilegio del proprio status e di una sicurezza che non deve abbandonarlo mai.

Dalle sue vacanze estreme egli saprà di poter ritornare senza che qualcuno gli chieda il conto delle sue responsabilità.

D.M.


Provate a controllare il vento

Ci sono azioni che parlano da sole. Che non hanno bisogno cioè di parole che le precedano o che le seguano, di grandi analisi che le interpretino. L'assalto popolare a un carcere avvenuto in Palestina mesi fa, ad esempio, è una di queste azioni. E lo è anche, è cronaca di questi giorni, un altro assalto popolare, quello al Parlamento bulgaro a Sofia.

Al termine di una giornata piena di manifestazioni di protesta, centinaia di persone hanno sfondato i cordoni della polizia, si sono introdotte all'interno dell'edificio più rappresentativo del potere, hanno anche appiccato fuoco in alcuni suoi angoli, e sono state costrette ad abbandonare l'edificio solo dopo violenti scontri con le forze dell'ordine, mentre alcuni parlamentari, terrorizzati, si asserragliavano all'interno.

Fatti del genere purtroppo non accadono tutti i giorni e riempiono il cuore a chi vede nel Parlamento uno dei principali luoghi di ritrovo dei responsabili della miseria che ci circonda.

Certo, avanzare dubbi sui motivi che animano questa protesta è facile. I dimostranti bulgari che in questi giorni hanno dato alle fiamme le bandiere rosse, simboli dei regimi del passato, non sono i marinai di Kronstadt. Non vogliono una rivoluzione sociale, pare che chiedano solo elezioni anticipate. E pare che la decisione del governo socialista di aprire le trattive con l'opposizione per stabilire le modalità di queste elezioni sia bastata a placare parzialmente gli animi, giacché le manifestazioni che ci sono state nei giorni successivi all'assalto di venerdì notte si sono caratterizzate per la loro compostezza. Un fuoco di paglia? Può darsi. Rimane il fatto che la paglia brucia e che nessuno è padrone del vento. Ciò che può accadere in Bulgaria, così come ciò che può accadere nell'ex Jugoslavia o in Corea o dovunque viene incrinata la pace sociale, è al di là di ogni previsione; al di là dei calcoli dei politicanti come delle speranze dei rivoltosi. Malgrado le apparenze, tutto è ancora possibile.

C.V.


Lampi e tuoni

A Cuneo, intorno al 20 dicembre un anarchico di diciannove anni è stato fermato dai carabinieri mentre stava rientrando a casa; invece di mostrare prontamente i documenti ha cercato di entrare nel portone di casa per lasciarsi dietro gli sbirri, ma sfortunatamente questi sono riusciti a placcarlo; a questo punto il compagno è stato aggredito e pestato da tre di loro, che se la sono presa pure con la sua cagnetta di due mesi rompendole una costola con un calcio.

Non contenti hanno poi arrestato il ragazzo, che si è fatto qualche giorno nel carcere di massima sicurezza di Cuneo ed in seguito è stato denunciato per violenza, lesioni, oltraggio, resistenza e rifiuto di dare le generalità. Attualmente deve recarsi tre volte alla settimana in Questura a firmare perchè, avendo già avuto qualche piccolo inconveniente con la giustizia, dopo questa vicenda è stato classificato “individuo violento” ed è stato pure minacciato di dover sottostare a una sorta di coprifuoco: divieto di rincasare dopo il tramonto, di frequentare pregiudicati, eccetera.

Sergio

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Grecia. 10 dicembre 1996

La Banca dell'Agricoltura nel centro di Atene è stata attaccata con bottiglie molotov; l'attentato è stato rivendicato dalla “Gioventù anarchica” che ha dichiarato ai giornali di averlo compiuto in solidarietà con gli agricoltori in rivolta.

28 dicembre 1996

Il gruppo “Violenza Rivoluzionaria” ha rivendicato l'attacco incendiario contro la Citybank di Kypseli alla periferia di Atene; nel messaggio diffuso da una stazione radio hanno detto che l'azione è stata fatta in solidarietà con l'anarchico Spyros Dapergolas, detenuto che sta effettuando lo sciopero della fame, di cui reclamano il rilascio immediato. Ricordiamo che Spyros Dapergolas era stato arrestato nel giugno `95 durante una tentata rapina e, nonostante siano già scaduti i previsti diciotto mesi di carcerazione preventiva senza essere stato sottoposto a processo, non è ancora stato scarcerato. Per questo motivo è in sciopero della fame dal 9 novembre (vedi Canenero n. 44, pag. 6).

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Sullo scorso numero di Canenero, nella “Cronaca della rivolta”, avevamo dato notizia di alcuni attacchi incendiari compiuti ad Aosta contro il Tribunale, la filiale di una banca e il circolo sottufficiali degli alpini. Qualche giorno fa abbiamo ricevuto questo messaggio firmato con una “A cerchiata”: ÇAosta 2/1/97. In Spagna come in Italia. Compagni liberi!È.

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Per quanto riguarda i quattro arrestati in Spagna: conosciamo per il momento solo l'indirizzo del carcere dove sono detenuti Michele Pontolillo — Prisi—n de Ba-dajoz, Carretera de Olivenza km 7, Badajoz (Estremadura), Spagna — e Claudio Lavazza — Prisi—n Provincial de Jaen, Carretera Bailen Motril, Jaen, Spagna. Per ora sappiamo che Michele non è più in isolamento, quindi adesso può finalmente scrivere e ricevere visite.


Non l'ho letto - non l'ho visto - ma qualcuno mi ha detto

Teresa Macrì
Il corpo postorganico
Costa e Nolan
1996, L. 24.000

l sogno di molti artisti, da Hšlderlin in poi, è stato quello di distruggere la distanza che separa l'arte dalla vita, il sogno dalla realtà. Molti tentativi sono stati fatti in questo senso, dalla scrittura automatica dei surrealisti agli oggetti della quotidianità trasformati da Duchamp, dai quadri utilizzati come barricate dall'I.S. al teatro di strada del Living theatre. L'accademia è quasi sempre riuscita a recuperare anche le intuizioni più geniali, sia per un suo vizio congenito, sia perché l'attacco non è mai stato portato sino alla radice, non dissolvendo cioè l'arte nella vita ma cristallizzando il movimento nella forma dell'avanguardia artistica. Questo libro parla di quel sogno, di quel che oggi è diventato.

Alcuni artisti, sul finire degli anni settanta, avevano iniziato a sperimentare i rischi e gli oltraggi che il corpo può subire. Niente di eccezionale per dire la verità, più che altro la voglia di scioccare se stessi e gli altri con ferite da taglio e anche d'arma da fuoco. Tutto naturalmente in un ambito controllato che ben poco spazio lasciava alla possibilità che la performance si tramutasse in qualcosa di completamente diverso, limitandosi a ribadirla. Ma all'autrice tutto ciò serve come prefazione per farci mettere a nostro agio ed introdurci nel mondo dei nuovi performer: di Orlan, di Sterlac, di Marcel Li Antunez Roca, verso i quali si protende con odi disperate. Per ognuno di loro il corpo è massa vuota in cui immettere o da cui espellere informazioni, come un terminale di qualsiasi elaboratore, come un “sito” di Internet. L'io, configurazione astratta, pensa il corpo, pensa a come lo vuole. I nervi, la carne e il sangue devono perdere consistenza per non opprimere l'io che può rimodellare con innesti tecnologici e plasmare un corpo che, in quanto vuoto ricettacolo, non ha più niente da comunicare, non ha più la capacità di insorgere e sovvertire.

Orlan, che in scena si fa tagliare e ricucire da un'équipe di chirurgi plastici, sorridendo ai fotografi ed al pubblico pagante rivendica pienamente la sua obbedienza alla dittatura del modello, anche se antiestetico, anche se non corrispondente agli schemi imposti dal capitale. Insieme a Sterlac, che arriva a far comandare il proprio corpo da un satellite in orbita, non si limitano a rappresentare la tendenza del nostro tempo, miseramente la vivono, vivono di una volontà rimbambita ed impotente che non può e non deve dispiegarsi se non con l'aiuto indispensabile dei tecnici e dei loro strumenti.

Siamo lontani dalla paura che rende immobili le membra ma che possiamo affrontare, dall'odio che arma le mani ed i cuori, dalla gioia di correre in un prato con le lucciole — la bocca ansimante, le gambe dolenti — così come siamo lontani dalle torture in una questura, dalla bellezza e dalla bruttezza, da un lieve tocco che scuote ed irrompe scalfendo le nostre solide costruzioni.

Stiamo, invece, assomigliando sempre di più al disegno che di noi stanno facendo e che questi artisti si preparano a riempire col colore della propaganda.

Davide


La costrizione del momento

Gli avvenimenti degli ultimi mesi — soprattutto quelli repressivi — hanno fatto nascere accese polemiche. L'aspetto che è però prevalso a mio avviso riguarda la limitatezza delle idee espresse, ma anche delle occasioni e degli strumenti di comunicazione e discussione. Vi sono stati e vi sono tuttora argomenti affrontati solo perché oggetto di avvenimenti contingenti, e altri che non sembrano interessare affatto.

Mi limito a fare due esempi: il dibattito sull'organizzazione armata mi è parso accendersi solo quando una lettera di due anarchici in carcere è stata pubblicata su Canenero. Eppure, almeno dal 16 novembre 1995, molti anarchici avrebbero avuto ben altri motivi per discuterne, essendo stati indagati proprio per il reato di “banda armata”. Invece, niente. Non ci sono state discussioni né dibattiti, solo il rigetto comune di un'accusa considerata ridicola; questo non era certo preludio di un approfondimento collettivo della faccenda, sulla quale — lo abbiamo visto — continua a non esserci chiarezza. E infatti si continua a discutere mescolando confusamente e alla rinfusa concetti come “lotta armata, organizzazione armata, gruppi d'affinità, attacco diretto, capacità offensiva”, eccetera. Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Purtroppo però in certi casi è troppo tardi per affrontare lucidamente talune questioni, e affrontarle in modo confuso non aiuta in un periodo in cui decine di anarchici sono in carcere con l'accusa di “banda armata”. Nessuno ha sentito l'esigenza di creare un momento specifico di discussione, infatti se n'è parlato solo e sempre in altre occasioni, alle volte di straforo, alle volte sottraendo tempo e attenzione ad altre questioni specifiche di cui si doveva inizialmente dibattere.

Nessuno ha provveduto a dotarsi di uno strumento di comunicazione su questo argomento: non solo nessun giornale anarchico ne ha parlato (a parte Canenero), ma nessuno sinora ha pensato di farne uno, o di mettere per iscritto in qualche modo il proprio pensiero. Questi non sono certo sintomi e prodromi per un confronto efficace. Mi domando se e cosa sarebbe successo se questo giornale non ci fosse stato.

Questo è solo un esempio: altre sono le questioni che continuiamo ad evitare facendo finta di nulla e che affronteremo solo quando altri prenderanno l'iniziativa. E quando arresteranno un anarchico accusandolo di spaccio di droga? E quando ci troveremo con un nostro amico o convivente tossicodipendente, o che si ammala di Aids? Quando mai abbiamo parlato di simili problemi? C'è qualcos'altro a parte i comportamenti individuali legati all'uso della “droga” — oltre alla recrudescenza della repressione — che sta più profondamente modificando la nostra quotidianità? E quando ne parleremo perché costretti dagli avvenimenti, cosa diavolo verrà fuori?

Non ho particolari proposte da fare, ma mi rifiuto di assoggettare alla bieca contingenza quotidiana, alla miseria e all'ignavia individuale, questioni e problemi sui quali ognuno dovrebbe pensare ed agire autonomamente, senza aspettare che altri mettano a sua disposizione il tavolo dei dibattiti per dire tutto ciò che gli passa per la testa in quel momento.

Mario Spesso


Infamità e puttanesimo

Sono una entreneuse. Il mio nome d'arte è Julie. Lavoro di notte nei dintorni di Torino da ormai tre anni a questa parte. Mi sono avvicinata alle idee anarchiche un po' per caso un po' per amore, ed è qui che ho sentito la prima volta quella canzone anarchica che così recita: “Son nostre figlie le prostitute che muoiono tisiche negli ospedaliÉ”.

Ho iniziato così a leggere alcuni giornali anarchici che mi capitavano fra le mani, tra cui Canenero. Ho seguito con un certo interesse tutta la vicenda degli arresti e della montatura Marini.

Una cosa però non digerisco. Perché mettere in mezzo puttane, le conigliette e le bocchinare quando parlate di Mojdeh Namsetchi? Il fatto che svolgesse questo lavoro non è garanzia o sinonimo di infamità, e viceversa non è detto che tutte le infami siano puttane. Mi sembra di capire che esiste un problema di termini e di cultura: voi usate “puttana” per offendere, senza considerare che le puttane esistono realmente!!! Io che della società sono così chiamata e per questo disprezzata di giorno (e cercata di notte) non digerisco i termini con cui voi chiamate le infami e le pentite. Questa è ormai una cosa talmente naturale e gratuita negli scritti sulla montatura Marini (volantini giornali manifesti) che mi sembra il caso di puntualizzarla: le puttane sono donne degne del massimo rispetto sia come donne che per il mestiere che svolgono. È ora di finirla con questa mentalità bacchettona e moralista che amplia i termini dell'insulto fino alle nostre sottovesti.

Julie

P.S. spero che mi pubblicherete la lettera, grazie.

Cara Julie,

ma certo che pubblichiamo la tua lettera, e con piacere. E poi, condividiamo gran parte di ciò che dici. Definire Mojdeh Namsetchi una “puttana” è in effetti una offesa nei confronti di tutte le prostitute. Eh sì, la pratica dell'insulto diventa ogni giorno più difficile. Ma hai ragione, completamente ragione: è ora di farla finita con questa mentalità bacchettona. Brava.

Detto questo, Julie, non trovi che sarebbe altrettanto ora di farla finita con la pratica di addebitare a qualcuno espressioni che non ha mai utilizzato? Cara e dolce Julie, quando mai Canenero ha definito Namsetchi Mojdeh “puttana” o “bocchinara”? Ti saremmo veramente grati se tu ce lo facessi sapere, giacché a noi risulta di averla chiamata solo “ex ragazza di Carlo” o “collaboratrice di giustizia” o “falsa pentita”.

Se poi con quel “voi” non intendevi indicare il nostro giornale, ma più genericamente tutta una serie di compagni che presumi ne siano sostenitori, ti ricordiamo che uno dei princìpi fondamentali dell'anarchismo è quello della responsabilità individuale. Ciascuno è responsabile di ciò che fa e dice. Lui, non i suoi amici, conoscenti, compagni: solo lui.

Cara Julie, è davvero disdicevole che anche tu faccia un po' di confusione su questo punto: la stessa, identica confusione che fanno — mossi tuttavia da ben altri intenti — il dottor Marini e il dottor Ionta. Quel fastidioso “voi”, Julie, lascialo a loro. Altrimenti qualcuno potrebbe pensare che le entra”neuse sono veramente persone di cui diffidare. E tu mica vuoi questo, vero Julie? ×


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