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Il termine cyberpunk non è stata
un'invenzione del particolare gruppo di scrittori che con
tale termine venivano definiti.
Cyberpunk, come "Hippy", era in origine un
termine essenzialmente giornalistico. Un tentativo di
descrivere certi fenomeni di letteratura e
paraletteratura associati con gli anni Ottanta. Come
qualunque neologismo giornalistico, o il miglior slogan
creato da un pubblicitario, all'inizio era vuoto in
attesa di ricevere significato. Oggi può significare
molte cose. Nel "Wall Street Journal", ad
esempio potrebbe significare le attività degli hackers.
Qualcuno mi ha anche detto che significa un movimento
politico italiano (eh, eh, eh, N.d.R.). Ho
precedentemente espresso frequenti dubbi a proposito del
fatto che il cyberpunk esista, o sia almeno esistito,
come movimento letterario formale.
Cercherò di fare un tentativo di definizione letteraria,
ma ogni atto di definizione deve in qualche modo essere
auto-referenziale. Per cui debbo dirvi che sono nato nel
1948, durante quella che potrebbe essere descritta come
l'ultima alba della primissima era dell'informazione. Il
che vuol dire che inconsciamente faccio riferimento ad
ambienti in cui la TV era largamente sconosciuta. La mia
adolescenza era fortemente colorata da un rapido
ottimismo tecnologico e da un costante e concomitante
sottofondo di paranoia e terrore tecnologico. I due poli
dell'immaginario di massa in quei giorni erano una
luccicante Futuropolis, tirata con Cera Grey, e lo
spettro del disastro nucleare. E diversi personaggi
autoritari continuavano a dirmi che l'atomo avrebbe
cambiato ogni cosa. Più tardi mi fu detta la stessa cosa
dell'LSD. Mi sembrava, in quanto bambino, di vivere in
realtà in uno scenario di fantascienza di qualche
genere. Penso di aver preso molto naturalmente il
linguaggio e le metafore della fantascienza di quel
periodo. Ora, in realtà, mi sembra che quel rapporto tra
tecnologia e fantascienza che noi percepivamo fosse solo
una forzatura da parte degli scrittori. Sembrava che il
futuro stesse per arrivare servito su un piatto
d'argento, molto probabilmente di design scandinavo, per
essere immediatamente e voracemente consumato
nell'applicazione a qualsiasi scopo i produttori lo
intendessero fatto. Adesso, negli anni Novanta, essendo
arrivati nel futuro, attraverso la lentissima macchina
del tempo rappresentata dal corpo umano, mi si dice che
ogni cosa sta per cambiare e forse è vero. Ma il piatto
d'argento degli anni Cinquanta è diventato un flusso
continuo di pacchetti sotto vuoto spinto. Ho notato che
non sempre impieghiamo le nuove tecnologie agli scopi dai
quali erano state inizialmente concepite per i loro
inventori: per esempio mi arrivano voci insistenti che il
cartello Columbia Metaline impieghi sistemi esperti nella
programmazione del flusso globale dei loro prodotti.
Evidentemente la "strada" trova i propri usi
per le cose. La mia fantascienza, come tant'altra
cosiddetta cyberpunk, mi sembra meno interessata ad
anticipare nuove tecnologie che a considerare i vari usi
che lo stupendo e confusionario animale umano può
trovare per queste. E se potessi darvi un consiglio
questo sarebbe: se vi si presentasse una nuova tecnologia
dovreste chiedervi cosa potrebbe farne un poliziotto, un
politico o un criminale. Inoltre quando incontri un
poliziotto, un politico o un criminale con un nuovo pezzo
di tecnologia chiediti che cosa faresti tu con questo. E
quando ti paragonano a quei visionari che predicono i
cambiamenti che una certa tecnologia porterà, ricordati
delle predizioni degli antichi profeti. Colui che ha
inventato la televisione si sarebbe potuto immaginare
MTV?
Questo tipo di domande sibilline risiedono al centro
dell'attitudine cyberpunk, se mai è esistita. In
conclusione penso che fosse C.P. Snow che fece la prima
distinzione fra due culture nella civiltà occidentale,
parlando di dicotomia tra scienza e arte o, in
riferimento a quello che voglio dire, tra arte e
tecnologia: egli disse che, in effetti, molto pochi tra
di noi sono pratici di entrambe, dichiarazione che penso
sia ancora valida. Comunque, alla fine del ventesimo
secolo, ci è diventata familiare l'ipotetica figura
dell'artista "barra" ("/")
scienziato. Ma se si ascoltano con più attenzione gli
scienziati/artisti, si può spesso avvertire che parlano,
da momento a momento, da una parte o dall'altra della
"barra". Il Cyberpunk, sia che fallisca o che
riesca, che sia fallito o riuscito, mi rappresenta nel
senso che è un tentativo di parlare dalla
"barra"; simultaneamente nell'una o nell'altra
lingua. Penso che sia difficile, e delle volte
impossibile, ma è quantomeno una cosa che vale la pena
di tentare.
... una dichiarazione sul futuro
dell'umanità?
Non ne faccio mai. È Bruce che se ne occupa in un
certo senso. Bruce è il braccio polemico del
cyberpunk americano e io sono più l'aspetto del
"recording angel". Io vado solo in giro e
osservo. La cosa che mi è più chiara, sul finire
del secolo è che mi sembra siamo realmente entrati
in un periodo di turbolenza dal quale, se la
"teoria del Chaos" è esatta, come pare,
emergerà un nuovo ordine. Ma dubito che uno possa
anticipare la natura del nuovo ordine deducendolo da
quello attuale, apparente natura del caos. La gente
dirà "L'Europa dell'Est sta facendo
questo", così che sarà parte del nuovo ordine,
ma io penso che la cosa interessante è che quando
passiamo dall'altra parte non troviamo nessuna Europa
dell'Est. Abbiamo iniziato una nuova partita, è
qualcosa che non possiamo prevedere.
È vero che hai disertato dall'esercito degli USA?
In un certo senso. Non voglio però avere la
responsabilità morale di rivendicare la diserzione
perché non sono mai stato coscritto, e questo
perché qualche maggiore sapeva che ero in Canada e
quindi qualche burocrate deve aver pensato: "Non
vale neanche la pena di spedirgli la cartolina, è
già là!" Siccome non mi hanno mai spedito
niente essere disertore non mi è costato nulla, non
ho dovuto neanche prendere la difficile decisione di
dire "Vado e non tornerò". Sono
semplicemente andato là a fumare hashish, ad
ascoltare musica, ignorando tutto. Pochi anni più
tardi il sistema era demolito e io non avevo mai
avuto la chiamata. Se fossi stato chiamato però non
sarei andato. In realtà, alcuni dei miei migliori
amici in quel periodo erano tedeschi dell'Est che si
nascondevano in Canada dopo la diserzione. Da come
l'ho capita, il loro sistema gli permetteva... se
stavi via per un paio di anni poi potevi tornare.
Dal Canada arrivano interessanti teorie sulla
comunicazione, come quelle di McLuhan, oppure in campo
cinematografico quelle di Cronenberg...
Non penso che il mondo anglosassone canadese sia
particolarmente stimolante. In realtà il Canada è
piacevole.
Perché i tuoi personaggi sono così soli o
agiscono in modo solitario?
Inizialmente perché avevo preso a prestito, per
Neuromante, molte cose dalla tradizione filmica: i
western di Sergio Leone, per esempio Lonely Man. Per
cui vi è una formula western che ho mutuato come
un'armatura, una sorta di supporto architettonico per
il resto del materiale e mentre usavo questo antieroe
cominciavo ad interessarmi a ciò che poteva
realmente significare e che poi è seguito attraverso
i primi tre libri. Ho sempre pensato all'eroe di
Count Zero (in Italia pubblicato come Giù nel
Cyberspazio, N.d.T.) come un cowboy alla Clint
Eastwood, che ti prepara a certe aspettative sul suo
agire, ha questa enorme pistola ed è estremamente
cupo. Prova a fotterlo e sei sicuro che qualcosa
succederà. Quello che succede è, quando finalmente
uccide qualcuno, che spara alla persona sbagliata, e
questo è tutto. Ti dà fastidio, più o meno,
perché è un soddisfatto padre di famiglia. Ha un
figlio e una figlia e abita in campagna. Ho preso il
personaggio durante la stesura del libro e poi ho
risistemato i pezzi. Qualcosa che non mi aspettavo di
fare quando ho iniziato il libro. Non so, non sono
particolarmente solitario. Penso che, ovviamente,
c'è molta solitudine nella società
urbana-industriale e che sembra veramente pervasiva.
Per cui di cos'altro avrei dovuto scrivere? É
difficile scrivere di personaggi felici.
Qualcosa a proposito dello stile poiché in Italia
i tuoi libri sono tradotti molto male...
Tutti mi dicono la stessa cosa ovunque, eccetto
forse in Giappone. Le traduzioni giapponesi sono
apparentemente pezzi di arte radicale di per sé,
anche se non conosco questa lingua. Penso che
stilisticamente una traduzione deve essere molto
difficile, perché parte della mia scelta stilistica
ha che fare con l'uso con venti o trenta diversi tipi
di slang, slang inglese e americano che sono stati
risistemati interamente al di fuori del loro contesto
storico. La versione inglese ti fornisce diversi
livelli di significato, specifici, tratti da piccoli
frammenti di testo. Per un traduttore avere a che
fare con questa roba dev'essere particolarmente
difficile. Ad esempio, in Neuromante, è molto
importante che alcuni dei personaggi parlino in uno
stile rastafariano dell'inglese, una variante
futuristica del dialetto rastafariano, così che è
impossibile da tradurre letteralmente. So che
nell'edizione tedesca i personaggi rastafariani
parlano una specie di slang hippy degli anni
Sessanta, che è la cosa più simile che il
traduttore è riuscito a trovare. È nella natura del
linguaggio. La traduzione non è mai possibile
letteralmente, è solo un'approssimazione.
Il tuo stile è frutto di uno studio particolare o
è un tuo modo naturale di esprimerti?
No... Si è totalmente sviluppato come effetto
collaterale del processo di apprendimento della
scrittura. Non ero cosciente di essere sulla strada
di sviluppare uno stile se non dopo averlo fatto. È
una cosa piuttosto pericolosa realizzare che di fatto
sei diventato "caposcuola di uno stile", è
mortale. Una volta che sei cosciente di te stesso
come di un maestro di stile stai diventando un
classico. E poi dove sarai? Il libro che ho scritto
con Bruce Sterling, The Difference Engine, è stato
scritto con un'approssimazione del più prettamente
formale inglese vittoriano.
Lo stile di Dickens?
Proprio così.Ci sono dei veri e propri pezzi
tratti da Dickens che abbiamo "campionato"
e alterato, e molti altre piccole campionature dal
resto della letteratura vittoriana. Per me è stata
una rinfrescante fuga dall'architettura dello stile
che avevo elaborato nei primi tre libri. Il prossimo
libro che scriverò tutto da solo... sarà
interessante. Temo che lo stile sarà ancora una
volta diverso. Tu canti con la stessa voce, ma ci
sono modi diversi di cantare.
Perché hai proprio scelto il periodo vittoriano
per ambientarvi la storia?
Avevamo avuto un dialogo sulla natura della
società industriale e della sua rivoluzione che era
durato anni, e a un certo punto abbiamo capito che
avevamo il materiale per una storia; un concetto che
potevamo sfruttare. Per cui non è stata una scelta
cosciente, ma piuttosto tener conto del materiale
disponibile, che è sempre stato un po' il mio
metodo. In Count Zero la macchina che ricicla i
rifiuti in sculture è una metafora cosciente di come
i miei libri prendano vita. Li vedo come collage di
cose disponibili che arrivano a caso. Quando iniziai
il libro con Bruce, fu necessario cercare materiale
vittoriano. Ne raccogliemmo parecchio, lo esaminammo
e dopo aver trovato i pezzi che andavano bene li
mettemmo insieme. Almeno è un libro più cosciente.
Negli USA non c'è molto materiale disponibile da
esaminare sulla realtà del XVIII e XIX secolo,
mentre in Europa molto di più. Così abbiamo fatto
coscientemente la scelta di andare in biblioteca e di
portarci tutta quella roba a casa.
Ti aspettavi un tale feed-back dai movimenti?
No, ma è stato molto gratificante. Però sotto
sotto parzialmente sì; era quello che speravo di
ottenere, perchè non pensavo che quello che stavo
facendo avesse un qualche potenziale commerciale. Un
mio sogno era che Neuromante diventasse un cult book
in Inghilterra, o piuttosto, in Francia. Sarebbe
gratificante che ci fosse un gruppetto di persone che
pensasse: "Proprio bello!". Negli USA, mi
aspettavo che venisse ignorato, ma dopo la
pubblicazione, notai, con mia grande gioia, che,
molte delle risposte che ricevevo, provenivano da
differenti parti della "comunità"
artistica americana. Veniva dalla gente che ascolta
rock. E dopo Count Zero, una cosa che mi ha fatto
molto piacere è stato che questo feed-back positivo
proveniva dai neri americani, un sacco di ragazzi
neri che dicevano: "È proprio come ci sentiamo
in questa epoca". Questa cosa mi è proprio
piaciuta e c'è della gente come i Living Colors a
cui Count Zero è piaciuto molto.
Hai avuto relazioni personali prima di scrivere i
libri con gente di strada?
Sì, quando andai a Toronto avevo 19 anni e quella
era la "Summer of Love" e tutto era in
fermento, ma poi per 4 o 5 anni non ho fatto nulla e
vivevo in giro con i miei amici. Poi sono cresciuti e
sono diventati avvocati e commercialisti, mentre io
me ne stavo ancora seduto là a pensare a cosa stavo
facendo e sono finito a fare lo scrittore, ma più
per pigrizia che per altro. Non avrei mai pensato di
potermi mantenere, pensavo di farcela invece
lavorando in un negozio di dischi di seconda mano
all'università o qualcos'altro, come un sacco di
altra gente che conoscevo.
Ora che hai a che fare con grosse case editrici e
case cinematografiche, cosa ne pensi della questione
comunicazione per quel che ti riguarda?
È molto difficile riuscire a fare qualcosa
oggigiorno, a volte succede che un editore paghi un
agente editoriale che vende libri con un qualche
potenziale, soprattutto perchè questi vendono e non
per il potenziale che potrebbero avere. L'editoria è
relativamente sottocapitalizzata, è molto poco il
denaro investito nell'editoria. Molte case editrici
sono di proprietà di grosse multinazionali, le quali
non guadagnano molto dall'editoria però non mollano.
In campo cinematografico o televisivo è ancora più
difficile fare qualcosa di originale perchè c'è
troppa gente di mezzo tra l'artista e il pubblico.
Centinaia di persone che insistono tutte nell'averne
una parte. Il risultato è una sorta di prodotto
omogeneo e inoffensivo che tutti ci becchiamo, a
volte anche fantasie spudoratamente fasciste,
qualsiasi cosa essi pensino che possa vendere.
Occasionalmente ci scappa anche qualcosa di originale
che subito cercano però di replicare in 15
imitazioni. Per ciò che invece ho visto di Hollywood
non c'è proprio niente da fare: se ne fai parte
qualsiasi cosa tu possa fare sarà ridotta
inevitabilmente alla forma più stupida possibile.
Com'è possibile per un autore mantenere la propria
identità in questa relazione?
Penso che nell'editoria sia molto più facile
rispetto a qualsiasi altro mass-media, mentre i
musicisti pop sono molto più limitati di coloro che
lavorano nel cinema. A Hollywood gli sceneggiatori
sono una categoria che guadagna appena più degli
altri, ma non sono veramente parte del processo
esecutivo, anche se hanno un sindacato molto forte.
Anche i registi e i produttori hanno una specie di
sindacato, ma quello di quest'ultimi mi sembra che
sia uno strumento per difendere gli interessi delle
multinazionali. Uno sceneggiatore può essere
licenziato e rimpiazzato, è come fare l'idraulico o
il falegname: non si fa per arte ma per pagare
l'affitto. Sarebbe interessante lavorare su dei film
con persone che hanno a disposizione un sacco di
soldi. C'era un progetto che avevo appena iniziato
con un giovane regista sovietico di girare un film a
Leningrado in tempi brevi, solo che il musicista rock
sovietico che doveva fare il protagonista nel film è
morto in un incidente automobilistico e abbiamo
dovuto sospendere tutto. Ma artisticamente questo
progetto era molto interessante perchè Rachid, il
regista, disponeva paradossalmente di una libertà
incredibile. Nessuno controllavo quello che faceva e
finchè aveva un certo numero di rubli ha sempre
fatto quello che voleva.
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