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Della musica techno hanno paura in
molti a parlare, forse perché troppo post-modernamente
vuota o perché sound amato dalla teppa di strada ovvero
perché fa sballare eccessivamente. Le riviste
underground italiane non ne hanno mai parlato, più una
radio è "di sinistra" e meno la fa sentire (e
le radio commerciali godono). Tuttavia esistono
sicuramemte motivazioni culturali tali per cui tale forma
musicale si è diffusa sotto la pelle di migliaia di
giovani nel mondo ed è diventata il "tam-tam"
del rito estatico collettivo della danza e dei rave
trasformandosi essa stessa in una "nuova
droga", nel rinato spauracchio del quieto vivere
familiare terrorizzato dalle "stragi del sabato
sera". Nella piena convinzione che l'Apocalisse
Cyber è in pieno corso, Decoder è andato alla ricerca
dei Grey Area (un duo, Stefano e Fred che hanno anche
costituito l'etichetta indipendente Evolution), uno tra i
più intelligenti gruppi della pur consistente scena
italiana, per scoprire quali siano gli strumenti usati
per costruire questa musica "fatta in casa", le
sue radici e le relazioni con l'"house music",
il rapporto con il business e il fantasma del
rock'n'roll. Che strumenti usate per suonare e
come funzionano?
Stefano: Abbiamo iniziato dai primi
computerini come il "Commodore 64", il
"CX 5" fino a arrivare all'Atari con i vari
programmi che usiamo oggi come il "Pro 24"
e il "Q Base". L'Atari è comodo perché ha
un'interfaccia "midi" incorporata, sugli
altri computer la devi aggiungere. Questo sistema
midi è la cosa importante e rivoluzionaria, perché
è una interfaccia universale per tutti gli strumenti
che permette di avere un controllo centralizzato dal
computer sugli strumenti stessi, che possono essere
campionatori, tastiere, batterie elettroniche ecc.
Usiamo anche strumenti analogici che danno dei bassi
molto subsonici e i campionatori che ti permettono di
"rubare" voci o altre fonti sonore o di
manipolare anche le tue idee. Le tastiere sono
fondamentali per inserire la musica dentro nel
computer, altrimenti dovresti conoscere la musica e
comporla attraverso la tastiera del computer. Quella
che usiamo è tecnologia povera. Se hai una buona
conoscenza delle macchine oggi, con una spesa tra i 5
e i 10 milioni, puoi fare dischi.
Perché usate macchine elettroniche?
Fred: Per comodità, opportunismo e per un
odio profondo per tutto ciò che era strumento
tradizionale. La cultura del musicista classico vuole
che tu abbia studiato la musica, che tu sappia
suonare perfettamente il tuo strumento per poter fare
assoli, per creare chissàcosa. Noi ci siamo
avvicinati agli strumenti elettronici perché eravamo
vicino a certe necessità a livello ideologico, a
livello pratico perché era l'unica possibilità per
staccarsi da una cultura rock che è andata avanti
per trent'anni. Noi non vogliamo scrivere canzoni pop
o rock.
Stef: Però quando abbiamo iniziato,
dodici anni fa, queste cose le abbiamo fatte in
gruppi punk o post punk, è stato un graduale
arrivare al rifiuto degli strumenti tradizionali per
avvicinarsi a questi strumenti alternativi come
computer, sintetizzatori, campionatori...
Fred: É stato il punk a suscitare
in noi l'interesse per fare musica: la musica pre-77
era soprattutto rock sinfonico a solo beneficio di
musicisti diplomati al conservatorio che facevano del
virtuosismo la loro bandiera. Ma dopo il punk è
cambiato tutto e noi abbiamo cercato di andare sempre
avanti e di cercare nuovi stimoli anche perché
abbiamo notato che, in campo musicale, qui in Italia,
nonostante tutto, la scena non si era evoluta molto.
Cerchiamo costantemente di crearci nuovi orizzonti
come "musicanti". Negli anni Ottanta c'è
stata un'altra evoluzione: la possibilità di
accedere alla tecnologia che è diventata sempre più
alla portata di tutti. Questo però non deve far
pensare che fare musica techno o dance sia così
facile. La macchina fa solo quello che l'individuo
gli dice di fare. Ci vuole di base la creatività e
la voglia di dire qualcosa. Per noi questa voglia è
partita dall'amore per certe sonorità: Kraftwerk,
D.A.F., Front 242, l'acid-house, la techno di Detroit
e l'house di Chicago. Tutte influenze che sono
confluite naturalmente nel nostro modo di far musica
e nelle nostre idee sulla musicha: lontani dalla
tradizione di mercato della casa discografica e
contro l'idea di artista da commercializzare, da
vendere in formato video-tape. Per noi non ci sono
artisti, la musica parla da sola, è il disco che, se
vende, vende per le sue qualità e non per il nome
dell'artista. Oggi la musica che funziona in
discoteca è fatta da gente che non ha interesse a
esporsi, a farsi ritrarre in copertina per farsi
notare, ma vuole farsi notare solo per la musica.
Come mai la dance-music è diventata, o pare essere
diventata, undeground?
Fred: Alla base c'è un rifiuto
dei media tradizionali. Il rock è e resterà il
grande business delle case discografiche. La dance
invece nei negozi occupa gli angolini, non è di
massa. Se poi ci sono dei successi da discoteca,
questo avviene perché il pubblico che ascolta rock
va in discoteca e si innamora di un pezzo, ma succede
raramente. A livello mondiale un disco di dance vende
10.000-15.000 copie, non di più, a livello italiano
circa sulle 1.000. I negozi che li vendono sono
negozi strani, quelli che non trovi sulle guide
consigliate. È una musica che va per la sua strada,
che se entra nel circuito ufficiale viene recepita
con non meno di un anno di distanza dall'uscita.
Quando la dance va in classifica nell'undeground c'è
già una nuova tendenza e quel disco è già stato
dimenticato. La tendenza all'evoluzione è forte.
Stef: Tutte le nuove idee vengono
gestite da piccole etichette indipendenti e
underground. Quando la musica non è più underground
entrano le major e diventa pop.
Fred: All'inizio degli anni Ottanta,
dopo la fine della disco-music, in discoteca c'è
stato un buco pazzesco e andavano gruppi pop come gli
Spandau Ballet. Parallelamente esistevano in Europa
gruppi elettronici duri che sono arrivati
all'orecchio di alcuni D.J.'s afro-americani i quali
hanno iniziato a suonare questo tipo di musica
europea, fredda, che era così lontana dalle loro
origini. Così, nell'84-85, sono usciti i primi
dischi di house come quelli di Marshall Jefferson,
Larry Herd, Derek Main, Juan Hatkins che nell'82
aveva un gruppo che si chiamava "Cybotron",
Model 500, Future, Mister Finger: erano tutti neri e
facevano cose da fantascienza. Questa contaminazione
di due generi: come la musica elettronica europea con
una impostazione ritmica funky ha generato la musica
house. Si chiama "house" perché venivano
date delle feste occasionali in scantinati o case,
organizzate alla spicciolate dove dai D.J.'s veniva
suonata questa musica che altrimenti in discoteca non
avrebbero potuto mettere. Questa comunque è una
delle tante definizioni, credo la più vera perché
è la più scalcinata, poi ognuno dà la sua. Del
resto anche i dischi stessi vengono fatti "in
casa" con una strumentazione di fortuna,
prestata o noleggiata. Questo ha creato una vera e
propria rivoluzione a livello della produzione della
musica. Fino a quel momento la musica da discoteca
stagnava, era un ripescaggio di cose vecchie, un
continuo deja vù. Oggi invece anche nessun amante
della musica elettronica può restare incontaminato
dalle sonorità dell'house. Quando ho iniziato a
sentire i primi dischi ho pensato subito che fosse
l'unico genere rivoluzionario musicale degli anni
Ottanta. Perché house vuol dire musicalmente un
sacco di cose: puoi fare tecno, garage, c'è la deep
house, sono nati parallelamente molti modi di fare
questo tipo di musica che influenzano tutta la scena
musicale. Viene anche usata come musica tradizionale,
o per fare jingle in televisione, ma poi alla fin
fine la cosa la devi vedere in determinate discoteche
e non ovunque. Se uno sta attento e non si ferma sul
passato ma guarda a quello che sta accadendendo nel
presente orientandosi verso il futuro, vede sempre
una costante evoluzione in questa scena perché c'è
della gente che vuole andare sempre avanti. Se ti
fermi, dopo aver scoperto la ricetta per fare soldi e
fai venti dischi uno sulla falsariga dell'altro,
allora sei finito.
Quali sono le altre scene che chiamate
"parallele"?
Fred: Da Chicago è nato Detroit,
da Detroit è nato Sheffield, dopo Sheffield
Francoforte e Berlino. In Olanda c'è una scena molto
grossa e anche in Belgio da dove sono usciti
moltissimi dischi del new beat degli ultimi anni,
dischi molto belli e anche molte schifezze. C'è una
scena in Spagna e nei paesi dell'Est: si incominciano
a organizzare rave anche in Russia. C'è anche una
scena italiana, molto rinomata nel mondo, soprattutto
commerciale, che ha sfornato dischi da milioni di
copie, gente da Reggio Emilia, Bologna, Bergamo,
Brescia, Milano. L'house è stata una specie di virus
che si è diffuso non solo nei paesi solitamente
produttori di tendenze nuove, non ci sono più
frontiere. Dalla provincia più sperduta puoi fare
qualcosa che funziona a Francoforte, Bruxelles,
Amsterdam, Detroit. É una sorta di "united
house nation", dove tutti operano a modo loro,
individualmente... uno dei pochi elementi comuni è
il fascino di certe sonorità elettroniche, anche
vecchie, suonate con gli strumenti di oggi, e
l'attitudine dei musicisti a essere schivi, senza
fare le rock-star, ma a creare emozioni senza essere
troppo notati. Non è solo infatti musica per
ballare, ma anche per sognare, si cerca di creare una
dimensione di spazialità che con certa musica da
discoteca non si produce perché concepita a mo' di
canzone. La struttura dell'house è abbastanza libera
e non schematica come una canzone pop, e questo è
anche il senso per cui noi facciamo tre o quattro
versioni della stessa canzone: per destinarle a
luoghi e umori diversi.
Qual è il pubblico dell'house?
Stef: Se un disco vende sulle
1.000-2.000 copie è sicuramente stato comprato solo
da D.J.'s. Dipende poi dal D.J. quanto questo disco
gira, quante volte lo mette in una serata o se lo
passa in una radio. Quindi non si può proprio dire
quale sia il pubblico, a meno che, proprio attraverso
i D.J.'s, il disco diventi un successo commerciale e
allora lo comprano i ragazzini. Se ti manda ad
esempio Radio D.J. puoi star sicuro che vendi, ma lì
la cosa cambia, perché quel giro è pieno di
produttori che pensano solo a far soldi e di altri
che sfruttano la moda.
Se c'è moda la cosa è diversa, non è più tecno.
Guarda ad esempio Derek Main, uno degli inventori
dell'house che ha sempre fatto i suoi dischi con la
sua etichetta "Transmat"; ha prodotto 16
dischi fino al '90 poi si è rifiutato di far uscire
roba nuova perché critico sulla questione della moda
e con i gruppi che si proclamavano tecno ma non
c'entravano niente.
Che cos'è l'Evolution, la vostra etichetta?
Fred: A noi piace considerarci e
farci considerare come una unità di lavoro
indipendente da qualsiasi influenza esterna.
Facciamo musica soprattutto per amore ma, essendo
questa anche una merce, guardiamo a quel ritorno
economico che serve per evolverci. Alla base, come
per qualcuno in questo giro, non c'è la volontà di
far soldi fine a se stessa ma quella di produrre
delle cose in cui poterci rispecchiare ora e anche
nel futuro. Non andiamo a implorare o a pagare da
nessuno D.J. per avere dei passaggi. Se una cosa
piace, bene, altrimenti niente.
Una scelta di libertà che però è anche rischiosa:
da un giorno all'altro può crollarti tutto addosso
per problemi economici.
Noi usiamo i canali convenzionali per fare musica con
la nostra maniera: il giorno che ce lo impediranno
troveremo un altro modo.
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