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Produrre senso sociale nell'età' digitale
(Completa)

   

della Redazione
tratto da
DECODER #11

E' disponibile anche la versione sintetica.

   
    Sono successe molte cose in questo anno e mezzo, tra l'uscita di "Decoder 10" e questo numero. Molte cose che riguardano il mondo delle telecomunicazioni, che è balzato esponenzialmente alla ribalta di interessi sempre maggiori e forse incontrollabili da parte di soggetti "antagonisti" come noi.

Da un punto di vista strutturale questi avvenimenti sono: l'esplosione di Internet, e oggi di Intranet ed Extranet; il caso dei net-computer della Oracle e l'esplosione di un nuovo media (con tutte le caratteristiche antropologiche del caso) a metà strada tra televisione e computer; la crisi e i tentativi di rilancio della Apple; una sempre maggiore egemonia mondiale di Microsoft; il caso Netscape, il crash dell'Olivetti; il passaggio verso la liberalizzazione del mercato della telefonia con conseguente offerta da parte delle corporation tv.

Mentre dal punto di vista delle regole, osserviamo con malcelata diffidenza: il sempre maggior ricorso al ruolo arbitrale di figure quali quelle dei garanti; la vittoria politica della Siae e il restringimento degli spazi di autoproduzione, soprattutto in ambito musicale; la risibile legge sulla protezione dei dati.

A tutto questo grande movimento di ordine strutturale, che vede proiettare, su grandi scenari, interessi compositi, che promettono di rilanciare l'espansione del capitale su ordini di grandezza planetaria, corrisponde dal punto di vista "antagonista" una situazione di difficoltoso dibattito teorico, con poche intuizioni e molte pastoie "ideologiche" provenienti dal trapassato remoto della storia del movimento operaio. Nel dire questo, il chiaro riferimento è all'abortita discussione relativamente all'impresa sociale, mentre, al contrario, stimolante appare la riflessione che emerge dal movimento zapatista che, al contrario di talune iniziali frettolose interpretazioni, si segnala come un fenomeno di affermazione di democrazia radicale, adeguato ai tempi, e con una chiara comprensione deleuziana di rifiuto del potere e individuazione di una strategia nomadica di resistenza politico-culturale.

L'IDEOLOGIA DELLA PRIVATIZZAZIONE

In un periodo di grande trasformazione degli scenari di sviluppo capitalisti, emerge abbastanza chiaro il fulcro di questa offensiva che, oltre a essere strutturale, è anche un fenomeno caratterizzato da aspetti di carattere ideologico. Tre sono i punti intorno ai quali, da circa quindici anni, il capitale si sta riorganizzando: privatizzazione, deregulation e nuova centralità dell'impresa, assurta a un protagonismo politico-economico di segno inedito.

L'assunzione del neoliberalismo come nuovo cardine ideologico della trasformazione in atto, prevede anche conseguenti modifiche normative che, a vario titolo, riguardano fin da subito tutti i paesi maggiormente industrializzati. Pensiamo in questo senso allo straordinario episodio offerto dal caso sudcoreano, dove si vuole per legge trasformare i rapporti giuridici di produzione fordisti in rapporti di tipo flessibile e postfordisti. Oppure al caso thailandese (un dollaro e mezzo al giorno per una giornata di lavoro di 10 ore), o alla questione delle maquiladoras messicane, poste al confine del New Mexico statunitense (evidente esito del Nafta,) o anche al caso della modifica della carta costituzionale italiana, a gran voce richiesta dal sempre più sparuto gruppo ruotante intorno al "figlio d'arte" Mariotto (?) Segni, che chiede di introdurre nella prima parte della Costituzione il chiaro ed esplicito richiamo al valore del mercato e della libertà dell'impresa economica, cancellando quello sul lavoro.

Ma, come dicevamo, la liberalizzazione è anche un'ideologia che, se da una parte ha acquisito una sua ragione di essere, sia per gli evidenti sprechi di una parte delle imprese a suo tempo gestite dallo stato sia per le estenuanti lungaggini dell'apparato burocratico (ormai insopportabili per dei soggetti sociali postfordisti, che hanno nella gestione del "tempo" la propria vertenza esistenziale maggiore), dall'altro è un'ideologia che nasconde alcuni importanti dati di fatto. Uno di questi ruota sul fatto anche che, al contrario di quel che si racconta, è possibile gestire certe attività dello stato in maniera efficiente (vedi il caso francese) e inoltre che lo stato ha bonificato e sanato aziende, oltre ad aver sprecato, come è successo negli anni scorsi a proposito del settore agro-alimentare italiano.

Ma infine, e non per questo ultimo, lo stato può agire e talvolta ha agito in funzione della rappresentanza degli interessi dei più deboli e soprattutto di interessi sociali condivisi. In una fase come questa che prevede nella propria agenda politica al primo posto la riconfigurazione (leggi downsizing) del welfare state, il fatto che vi siano dei diritti sociali specifici della nuova epoca digitale non appare privo di significato.

La questione è che nella nuova fase appare cruciale la difesa e la rappresentanza di questi nuovi interessi, legati al nodo del sapere e al lavoro come skill professionale.

In realtà ci troviamo come in una sorta di passaggio tra Scilla e Cariddi. Da una parte lo stato, entità depotenziata dal punto di vista ideologico dal liberismo, trova difficoltà a mantenere le proprie posizioni di "occupazione" della società. In questo senso un ruolo importante viene rivestito anche dal personale politico, che appare fortemente inadeguato rispetto a trasformazioni tecnologiche di cui non percepisce il senso complessivo.

Dall'altra i movimenti che, soprattutto sulle questioni relative ai diritti digitali, hanno una visibilità ben minore rispetto a quanto sarebbe necessario, anche per le caratteristiche sinusoidali del loro impegno e localizzazione (soprattutto negli Usa).

Nel frattempo però la liberalizzazione procede col suo corso inarrestabile e, guarda caso, va a riguardare anche il sistema stesso delle telecomunicazioni.

... E SE LATITA LA POLITICA SUL MERCATO?

Il primo grande problema, che apre scenari importanti nei prossimi mesi è quello relativo alla privatizzazione dei servizi di telecomunicazione. La tesi principale, brandita davanti all'utenza e avvalorata anche dal Garante dell'Antitrust, è che la scomparsa del gestore pubblico possa di per sé produrre un abbassamento generalizzato delle tariffe, grazie ai meccanismi della concorrenza che verrebbe a stabilirsi tra i diversi fornitori.

Questa argomentazione non convince per una serie di ragioni. Innanzitutto perché privatizzare significa solo passare da un monopolista a controllo pubblico a un monopolista a controllo privato, il che rende lo scenario ancor più pericoloso. Ma anche la liberalizzazione, se non viene accompagnata a misure in grado di garantire a tutti gli operatori l'accesso a costi ridotti alle infrastrutture essenziali e a un rigoroso controllo sulla formazione di oligopoli, non significa automaticamente apertura del mercato a fornitori plurimi, ma al più a un pugno di attori che, come per i derivati petroliferi, immediatamente dopo una prima fase di relativa concorrenza, raggiungerebbero facilmente un accordo generalizzato su tariffe e servizi.

Secondo, non è vero, che monopolio voglia necessariamente dire prezzi alti e servizio scarso. Difatti molti Pto (Public telephone operator) sono Internet provider e forniscono accesso anche al di fuori dei propri confini (Finlandia) e al costo di una telefonata urbana (Bt, Ft, Dt). In Germania il 25% dell'utenza è Isdn e c'è una profonda integrazione con la linea analogica: in Germania sono avanti di 15 anni "nonostante" il monopolio.

Negli Usa per lo stesso servizio in aree geografiche diverse si possono pagare tariffe diverse. Questo conferma che l'abbassamento delle tariffe per tutti è una chimera, ma sarà discrezionale in base alle aree geografiche e al tipo di utenza e servizi "a valore aggiunto" richiesti.

Come garantire allora a qualsiasi cittadino europeo, a prescindere dal suo livello di vita e dal luogo di residenza, un accesso garantito a prezzi "calmierati" ai moderni servizi di telecomunicazioni? Come garantire soprattutto un servizio universale?

Pur ideologicamente travolti dalla deregulation bisogna ribadire il criterio di accesso garantito ai servizi a un costo abbordabile e con prestazioni di buon livello. Per ottenere ciò bisogna definire un paniere di servizi i cui prezzi devono essere controllati nelle diverse regioni d'Europa, per arrivare alla creazione di un fondo di sostegno al servizio universale, finanziato con un canone aggiuntivo sulle attività commerciali svolte sulla rete, come onere imposto ai gestori, siano essi pubblici o privati.

Come si pensa invece di espletare un servizio universale in una fase di liberalizzazione? Già si parla di adeguare le tariffe per quelle utenze con traffico sporadico o concentrato in certi periodi dell'anno, che costringono il gestore al sovradimensionamento delle strutture, in Italia calcolato in dieci milioni di utenti su circa trenta. Questo si farà aumentando le tariffe urbane e diminuendo quelle in teleselezione, ergo questa forma di liberalizzazione non porta all'abbassamento delle tariffe telefoniche, almeno non subito e non per tutti.

Chi chiede a gran voce le privatizzazioni potrà forse, sottolineiamo forse, ottenere un abbassamento dei costi di facciata. Gioia che svanirà presto a fronte dell'imminente ribaltamento degli standard, che obbligherà a cambiare tutto quello che è stato acquistato finora, pena l'esclusione. In un attimo si perde tutto l'illusorio vantaggio, e allora chi terrà in considerazione gli interessi sociali? Gli interessi sociali non generano profitti e quindi non interessano ai privati a cui in fin dei conti si sarà regalato un bene pubblico, senza ritorno di alcun genere.

Insomma la competizione abbasserà i prezzi? Forse, ma a certe condizioni. Si dovrebbero confrontare una pluralità di soggetti, messi tutti in grado di accedere alle infrastrutture essenziali e dovrebbero esserci delle regole chiare, controllate a loro volte da strutture con finanziamenti e personale. Nessuna di queste condizioni è data ora, né probabilmente lo sarà in un prossimo futuro.

Questo rimanda a delle decisioni eminentemente politiche, a degli atti che stabiliscano quando e come la privatizzazione generi costi sociali non più sostenibili. Il dramma è che però il mondo politico appare particolarmente afono e non in grado di orientare il processo stesso delle telecomunicazioni, sia perché alcuni degli stessi attori politici (Berlusconi) sono direttamente parte in causa nel processo che verrà avviato nel 1998, sia perché certe forze di governo tendono alla conservazione di un controllo sulla gestione come merce di scambio di potere.

INTERNET E INTRANET

La seconda grande novità, anch'essa determinante nell'orientare concretamente gli scenari futuri, è relativa all'ingresso delle aziende su Internet. Esisterà ancora Internet così come finora l'abbiamo conosciuta?

Sfumate le velleitarie ipotesi di un mercato di massa, i produttori e gli operatori stanno convergendo verso un più rassicurante mercato aziendale. In pieno delirio di sopravvalutazione del tasso di crescita (dell'ordine 80-100% annuo) si sono create dal nulla una miriade di piccole aziende e un paio di queste hanno raggiunto una massa critica che le ha portate a essere quotate in borsa. Ora questo potenziale ha un urgente bisogno di uno sbocco di mercato sicuro. Dai primi tentativi di analisi è emerso che le maggiori opportunità non vengono dallo sfruttamento di massa di Internet come mezzo di comunicazione globale, bensì da un utilizzo delle tecnologie Internet per un uso interno alle aziende, cioè Intranet. Evidentemente questa è una forzatura. Le tecnologie che stanno alla base sono state sviluppate per collegare computer diversi e remoti, piegarli a un uso interno alle aziende con lo scopo di facilitarne il lavoro cooperativo, aumentare l'efficienza aziendale e la produttività individuale, denota come le originali ipotesi di sfruttamento della rete abbiano il fiato corto. Questo sembrerebbe confermare la nostra fondamentale diffidenza verso ipotesi di imminenti mercati di massa per la comunicazione mediata dal computer, almeno finché questo avrà le sembianze, le difficoltà d'uso e l'imperscrutabilità delle macchine che conosciamo oggi, anche se molte cose sono cambiate negli ultimissimi anni.

Per quanto si sia evoluto — il computer in generale e il pc nella sua versione casalinga — rimane uno strumento a supporto delle attività aziendali e non adatto al mercato di massa di tipo televisivo.

I ritorni economici per quanto riguarda Internet sono al momento individuabili in due specifici settori: il software (comprese le riviste specializzate con dischetto incluso) e un minimo di investimento pubblicitario.

Per quanto sfuggente chimera inventata dagli uffici marketing cerchiamo di abbozzare una definizione di Intranet come l'utilizzo delle tecnologie di Internet (protocolli, programmi) utilizzate per pubblicare le informazioni internamente all'azienda, in modo da sviluppare il lavoro collaborativo: consultazione di database, comunicazione interna, modulistica mediante un'interfaccia semplice e coerente. Queste informazioni non vengono rese pubbliche, ma sono visibili solo all'interno della struttura aziendale. E' una sorta di Web privato. Questo uso improprio delle tecnologie Internet trova sponda nel processo di ridimensionamento e polverizzazione delle grandi aziende con la conseguente necessità di operare con strutture più piccole e geograficamente disperse, nonché postazioni mobili. Questo comporta che i Web privati debbano comunicare fra di loro. Contestualmente è aumentata la disponibilità e la diffusione dell'Isdn e anche l'accettazione di servizi commutati ad alta velocità (Frame relay, Smds, Atm). Questa convergenza di fattori spiega l'interesse del mercato sia per Intranet/Internet che la campagna ideologica sulla ineluttabilità delle privatizzazioni nelle telecomunicazioni. Le grandi società vogliono spostarsi dalle reti dedicate (costose e poco flessibili) alle reti commutate pubbliche (economiche e facilmente adattabili a nuove esigenze).

Tutto ciò negli ultimi quattro anni, di pari passo con il grande boom mediatico su Internet e con i conseguenti grandi investimenti su di essa.

Netscape afferma che il 70% del fatturato complessivo dell'utenza aziendale per i prodotti Internet (soprattutto server) è relativo a servizi Intranet (secondo alcuni dati la vendita di server Intranet sarà il doppio di quella di server Internet alla metà del 1997; oggi la spesa per server Web interni è di 1,6 milioni di dollari e poco meno di un miliardo per i server Internet). Un mercato più ampio non potrà esistere finché non esisteranno connessioni ad alta velocità indispensabili per le applicazioni multimediali. Il business da qui a quel momento (fino a cinque anni) è solo Intranet. L'utenza consumer finanzierà la creazione di queste strutture, che saranno sempre ad alto prezzo per questa stessa utenza, ma cominceranno a essere abbordabili per l'azienda.

A conferma di ciò, analizzando il fenomeno dei motori di ricerca, non si può far a meno di rilevare una certa analogia con delle dinamiche già sperimentate nel settore dei browser, ovvero il meccanismo del laboratorio tecnologico.

Netscape e Microsoft hanno fornito il software gratuito per navigare in Internet e questa strategia ha portato in due anni la Netscape a Wall Street, oltre a intrecciare collaborazioni con tutti i provider e i carrier telefonici. Negli ultimi tre anni i server di ricerca si sono moltiplicati e hanno notevolmente contribuito all'exploit delle cifre relative al mondo di Internet, fornendo fino a ora un servizio completamente gratuito. Emblematica è la vicenda Yahoo! Nata grazie a due studenti, è stata in parte comprata da una società giapponese per 63 milioni di dollari e successivamente la collocazione del 10% delle azioni in borsa ha fruttato 34 milioni di dollari ne ha fatto triplicare il valore delle azioni.

Allora può apparire folle che società, il cui prodotto o servizio è a tutti gli effetti gratuito, siano quotate a questi livelli e siano oggetto di vistosi investimenti. Il tutto risulta certamente incomprensibile se visto con le lenti distorte del tanto sbandierato mercato di massa, mentre se si accostano passato e futuro è sensato ipotizzare che tutte queste attività di così alto contenuto tecnologico (browser e research server), che attualmente lavorano esclusivamente per Internet, nell'immediato opereranno per ben più remunerativi server per Intranet. Insomma produttori e borsa hanno scommesso sul mercato, valutabile in otto miliardi di dollari nei prossimi due anni, dei servizi informativi aziendali che hanno alla base la tecnologia Internet collaudata e testata da milioni di utenti, di quel grande laboratorio tecnologico e sociale che è l'Internet pubblica. Le ultime tendenze evolutive di questi ultimi due settori chiave rafforzano quest'ipotesi. Browser che integrano un editor sofisticato per generare pagine Html (Netscape 3 Gold) trovano un utilizzo coerente in mano a un impiegato che inserisce le info aziendali per un server Intranet, piuttosto che per la creazione di homepage personali.

Search server veloci e basati su costose tecnologie di punta che possono indicizzare milioni di pagine Html nottetempo, creando database di parole per ricerche con tempi di risposta di un paio di secondi, trovano una giustificazione per applicazioni più redditizie di tipo Intranet, che per meritorie ma gratuite attività di catalogazione per la libera navigazione.

Insomma non si ha nessuna intenzione di sviluppare Internet, ma di utilizzarla come una sorta di mega betatester, per poi trarne profitti altrove.

L'IDEOLOGIA DELL'INFOBAHN: LO SCENARIO DISTOPICO

Infobahn, l'autostrada delle informazioni. Come molte nuove tecnologie, la società delle informazioni, di cui l'autostrada delle informazioni (Ai) è l'infrastruttura portante, viene promossa da chi, con grandi mezzi finanziari, scommette sui suoi successi.

Molti dei promotori contano su una particolare visione dell'Ai, ovvero un canale tra il grande business e i consumatori, e perciò lavorano per marginalizzare visioni alternative. Ma la Rete appartiene alla sfera pubblica, è soprattutto una questione di democrazia e di diritti.

E' necessario rilanciare il dibattito sul suo ruolo e sulle sue finalità, per tre buone ragioni:

a) per fornire un punto di equilibrio. Talvolta anche noi abbiamo tracciato scenari improntati a un eccessivo ottimismo riguardo alle autostrade dell'informazione. In realtà tutti, dall'ingegnere a chi stila le regole, progettano e pianificano su questo terreno avendo solo come punto di riferimento una visione sbilanciata verso gli interessi forti.

b) per cercare di disinnescare un'allarmante tendenza che potrebbe condizionare nel futuro lo sviluppo delle autostrade dell'informazione. Mentre un'Ai disegnata per migliorare la qualità della vita, piuttosto che creare nuovi voraci mercati, non è solo possibile, ma addirittura benefica.

c) per discutere sul fatto che, mentre noi ci schieriamo nel preservare il carattere aperto e libero della precedente Internet, l'altra autostrada dell'informazione, almeno quella che impatterà con il grande pubblico, si sta modellando su altri e ben diversi modelli.

Per avere un'anteprima della peggiore autostrada dell'informazioni, si devono solo tenere d'occhio le varie reti di servizio che i conglomerati di telefonia/tv via cavo/intrattenimento e commerciali stanno sperimentando in varie città in giro negli Usa e in Europa. Questi "Full Service Network" non forniscono alcun servizio di e-mail, di bacheca elettronica e tanto meno di una qualsiasi forma di comunicazione persona-persona.

Naturalmente l'Ai non avrà una sola identità, come il nome stesso potrebbe suggerire. Piuttosto, sarà una collezione di molte differenti reti.

Nonostante questa oggettiva frammentarietà, determinate componenti e determinati servizi saranno dominanti. Proprio come le tv e le radio commerciali oggi dominano completamente il panorama dei media radiodiffusi in Usa e Europa, è probabile che la componente dominante delle Ai sia altamente commerciale, basata su un flusso comunicativo dall'alto verso il basso, su sistemi "pay-per" (a pagamento) per distribuire infotainment e pubblicità verso i consumatori, oltre che per raccogliere ordini d'acquisto. In questo contesto è chiaro che molti "operatori" osteggiano la presenza di componenti alternative, come le reti civiche, reti comunitarie e amatoriali portate avanti da organizzazioni non-profit o da strutture autorganizzate.

In assenza di queste componenti l'Ai sarà probabilmente controllata dalle società comprese nell'elenco di quelle 500 periodicamente redatto da "Fortune", le quali la plasmeranno per i propri profitti. Ci tratteranno come consumatori da bombardare piuttosto che cittadini da connettere, per di più la scelta dei consumatori sarà fortemente limitata dai monopoli, siano essi orizzontali (carrier) o verticali (editori). Il concetto di "puro e semplice trasporto", per cui i carrier non avrebbero controllo su, e non influenzino cosa è trasmesso e da chi, è fortemente compromesso dalla recente deregolamentazione delle telecomunicazioni in Usa e da analoghe proposte in via di approvazione in Europa. Se non interverranno fattori nuovi, entro dieci anni il concetto di "puro e semplice trasporto" scomparirà.

Nei vari mercati, poche compagnie controllerebbero non solo la rete, ma pure molti dei suoi servizi, oscurando le piccole imprese e fornitori di informazioni indipendenti e non omologati. Questo interesserebbe anche le apparecchiature per l'accesso alla rete che verrebbero strumentalmente portate all'obsolescenza rapidamente, obbligando i fruitori a rimpiazzarle o aggiornarle frequentemente per poter rimanere collegati (Microsoft docet).

L'Ai vuole che il mercato spinga informazioni verso i consumatori, al contrario, una ben congegnata Ai dovrebbe permettere a ognuno di mettere le informazioni "sulla rete" e ai "cercatori" di localizzarle e di tirarle fuori all'occorrenza. I compratori dovrebbero in piena libertà, sfogliare, cercare, scegliere e comprare. Non ci sarebbe più bisogno di pubblicità e di conseguenza perderebbe senso il business di raccogliere, scambiare e abusare dei dati personali allo scopo di ricavarne un bersaglio per la pubblicità. Ma, purtroppo, quella che intravvediamo non sarà una rete incentrata sulla libera scelta. Il grande business non è interessato a un mercato libero, ma piuttosto a un mercato sotto tutela: cioè consumatori che comperano per abitudine e mancanza di informazioni sui concorrenti.

Anche Internet non ne sarà immune.

Il World Wide Web originariamente era orientato alla scelta: la gente ci surfava, guardava e/o prelevava le informazioni desiderate. Comunque, appena il Web è stato commercializzato, sono stati aggiunti meccanismi di forzatura. Molti siti Web commerciali richiedono che gli utenti si registrino per ottenerne l'accesso. La registrazione allo scopo di "visitare" il sito regala al gestore l'indirizzo e-mail, come pure un'indicazione dei propri interessi, per inserire il nome in una lista di marketing diretto.

Se per Internet la cattura dei dati dei consumatori deve essere aggiunta a forza, molti degli strumenti cruciali dell'Ai verrebbero progettati sin dall'inizio a questo scopo. In un "glorioso" futuro, il potenziale di raccolta dati sulle transazioni online sarà amplificato al massimo, creando servizi del tipo "Fermati e iscriviti", dove i clienti verranno adescati con prodotti o servizi attraenti ma vuoti, mentre i soldi veri verranno fatti vendendo le liste di questi clienti ad altre compagnie. Le legittime regole sulla privatezza dei dati e contro l'uso delle informazioni delle persone per scopi di cui non se ne sia preventivamente autorizzato l'uso sono avvertite come un ostacolo dal mercato e verranno presumibilmente osteggiate.

C'è un'alternativa a questa visione: un'Ai dovrebbe essere aperta a tutti, specialmente agli individui, alle realtà autorganizzate, alle piccole imprese sociali che vogliano fornire informazioni. Questo la renderebbe orientata alla scelta piuttosto che orientata alla costrizione. Potrebbe supportare forme di scambio diverse dal consumo di prodotti. Potrebbe fornire pubblici servizi e in subordine pure quelli privati. Potrebbe permettere di preservare la nostra privatezza se così desideriamo. Potrebbe migliorare la comunicazione all'interno. Potrebbe metterci in contatto piuttosto che bersagliarci. In breve, potrebbe essere un po' più come la Rete civica metropolitana o il Minitel francese e meno come il Full service network di Time-Warner. I fornitori di infrastrutture potrebbero guadagnare con la connettività e la rivendita della banda piuttosto che con gioielli di zirconio, film e pizza. Un tale sistema potrebbe generare un maggior valore complessivo in quanto contribuirebbe a migliorare lo standard di vita di tutti.

Quale futuro quindi? Come ha evidenziato J.P. Barlow, si notano segnali per cui la visione delle corporation non incontra quella del pubblico. Sfortunatamente, ci sono anche segni che i dirigenti di quelle corporation sono troppo chiusi mentalmente per notarlo in tempo.

IL CASO ITALIANO: SIAE

Lasciamo da parte questi scenari distopici e concentriamoci ora su alcuni episodi, estremamente significativi, accaduti proprio negli ultimi mesi in Italia. Già nel corso di più occasioni avevamo avuto modo di notare che in questo paese le trasformazioni giuridiche relative al digitale marciano a velocità stratosferica e le recenti novità sembrano proprio confermarlo.

Annunciata da una campagna pubblicitaria martellante, alcuni nuovi protagonisti della "cultura" italiana (Salvatores, Abatantuono ecc.) si sono impegnati in prima persona contro il fenomeno della pirateria videografica, aprendo la strada a una serie di modifiche di carattere normativo sulla "legge d'autore" del 1941. Il governo Berlusconi, nel novembre 1994, anche per salvaguardare alcuni propri interessi legati al mantenimento dei diritti di proprietà intellettuale su autori quali Pirandello (in quel momento in scadenza), decide di ritoccare la legge d'autore. Ne appesantisce fortemente le pene, trasformandole da amministrative in penali, e portando l'arco di protezione temporale sugli autori fino a 70 anni dalla morte dello scrittore, in sintonia con parte della normativa europea su questo tema.

Nel contempo vengono introdotti una serie di articoli di legge, proprio per salvaguardare l'opera cinematografica e discografica contro le contraffazioni, che si incentra in particolare nell'ormai famoso art. 171 ter. Questo articolo in particolare al comma c) dice: E' punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 500.000 a lire 6.000.000 chiunque vende o noleggia videocassette, musicassette o altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, non contrassegnati dalla Siae ai sensi della presente legge e del regolamento di esecuzione.

Nel dicembre del 1996, dapprima a Padova e poi via via in città del Centro-Sud (Roma, Pisa, Livorno, Napoli ecc.) parte una serie di iniziative giudiziarie di sequestro di dischi, videocassette o quant'altro, semplicemente perché merci non vidimate dal bollo Siae. Il danno nei confronti degli esercenti, generalmente provenienti dall'area culturale prossima al movimento, è di decine di milioni ciascuno, con l'aggiunta, inoltre, di una serie di comunicazioni giudiziarie estremamente impressionanti e pesanti. Al di là delle argomentazioni giuridiche specifiche che possono essere protestate in sede dibattimentale, e in particolare il riferimento a quel ai sensi della presente legge, che implicitamente dovrebbe permettere anche ai musicisti di poter usufruire delle particolari condizioni contrattuali che regolano l'opera editoriale (non si capisce infatti per quale ragione il musicista sia obbligato a far timbrare le proprie opere, mentre lo scrittore no) resta il fatto delle pesanti conseguenze sociali che questo tipo di operazioni comporta.

Fin da ora difatti lo spazio di vendita di merci provenienti da tutta un'area politico-culturale, per comodità definibile come ruotante, ma non solo, attorno ai centri sociali, sarà fortemente limitato e ristretto. Tutti questi negozi di dischi, nati intorno alla passione, sicuramente non distribuiranno più prodotti non vidimati dalla Siae. Quanto accaduto, di fatto segna un pesante arretramento sulla battaglia relativa al copyright e soprattutto per quanto riguarda l'autorappresentazione culturale e politica. Tutta una area infatti si troverà ad accettare questo pesante diktat, pena la pesante ghettizzazione dei prodotti, con conseguenze anche significative, per questo settore merceologico, su prospettive legate al reddito sociale e ai processi di autoliberazione dal lavoro salariato. Tutto ciò è da leggersi come una grande vittoria politica della Siae su tutto il movimento sviluppatosi in questi anni proprio sul diritto all'autoproduzione.

L'unica strada per potersi opporre a questo tipo di strategia consiste nel negare l'esclusività dell'intermediazione rappresentata dalla Siae (peraltro affermata chiaramente dalla legge del 1941) sui diritti di tutela e rappresentanza dei singoli autori. Tentare cioè di brandire la parola d'ordine della privatizzazione del settore. Ma è questa una strategia a doppia lama, che vede già pronti a schierarsi in prima fila i forti interessi editoriali, per approfittare di un nuovo e lucrativo mercato, già previsto in forte espansione nel prossimo futuro.

LEGGE SULLA PRIVACY

Tutta una serie di consuetudini quotidiane sono sottoposte, che ne siamo consapevoli o meno, alla "sorveglianza elettronica". Dal ritirare i soldi col bancomat al fare un fax, dall'avviso di chiamata all'uso dei telefoni cellulari, dalla richiesta di rimborso della malattia alla patente, dagli acquisti fatti tramite carta di credito al ricevere posta pubblicitaria, dal prendere un libro in prestito dalla biblioteca al passare la frontiera... in ognuno di questi casi i computer registrano la scia dei nostri movimenti, le nostre transazioni, consentendo controlli incrociati con altri dati a disposizione degli elaboratori. Tutto questo potrebbe voler dire che partecipare alla modernità significa essere posti a forme di "sorveglianza elettronica". A questi atti della quotidianità bisogna poi aggiungere i problemi posti dall'uso delle reti informatiche, in cui, come è noto, la trasparenza comunicativa richiesta dalla "netiquette" di fatto permette anche a controllori di stato e privati di "ficcanasare" addirittura sulle nostre opinioni personali e le nostre abitudini. Pragmaticamente, negli Usa si è cercato di rispondere almeno a una parte di questi problemi inventando sistemi di crittografia a doppia chiave, l'amato Pgp, che tende a salvaguardare, almeno in parte, la riservatezza comunicativa.

Il controllo incrociato dei dati, ormai prassi abitudinaria di istituzioni governative e gruppi finanziari e di marketing privati, è oramai parte integrante della nostra vita, con possibili ricadute in ordine a problemi relativi al controllo sociale. La paranoia distopica del Grande Fratello sembra quindi riprendere nuovamente forza.

Anche in funzione dei dati appena segnalati, si è assistito in molti paesi europei all'approvazione delle cosiddette leggi sulla protezione dei dati o privacy, di cui ultimo atto è stata l'approvazione nel dicembre scorso della normativa italiana.

In realtà le leggi in questione, omologamente a quanto avvenuto in Canada e negli Usa, appaiono più che altro essere delle foglie di fico poste a proteggere più gli interessi dei gruppi privati (e della volontà di potenza dello stato) che la necessaria riservatezza degli atti privati dei cittadini.

E questo accade, crediamo, per l'ambiguità insita nello stesso concetto di privacy: una categoria intrinsecamente legata a filo doppio con quello di proprietà, che non sembra coprire adeguatamente la salvaguardia delle questioni poste dalla fase attuale e soprattutto futura della società digitale. Oggi, la razionalità del controllo ha compiuto un salto di qualità grazie al computer matching, il controllo incrociato, una pratica che ha avuto inizio all'incirca nel 1977 negli Usa. Inoltre le nuove tecnologie possiedono una capacità autorafforzante e autoincrementante, tanto da trasformare il problema della sorveglianza stessa da politica in una con caratteristiche e modalità del tutto inedite.

Riassumendo, abbiamo quindi oggi due forme di sorveglianza elettronica. Da una parte quella governativa, insita nello stato-nazione e ulteriormente rafforzata dal suo sviluppo ulteriore: il welfare state. Una modalità, quest'ultima, che per garantire diritti diffusi e distribuiti, ha accentuato il processo del controllo e della catalogazione. Paradossalmente, seppur in presenza di un processo di ordine planetario in cui tende a essere messa in discussione la legittimità stessa dell'esistenza dello stato-nazione e quindi della sua forma novecentesca del welfare, assistiamo a un processo in cui il processo di accumulo di dati dei cittadini tende a incrementare, invece che affievolirsi.

Dall'altra parte, abbiamo una sorveglianza di tipo commerciale, un'esperienza per adesso soprattutto nordamericana, ma che sta già tracimando verso paesi europei come il nostro. Questa tipologia di controllo è finalizzata al bombardamento commerciale, grazie all'uso intelligente e selezionato in base a indici economici, statisticamente elaborati in modo tale da trarre delle vere e proprie categorie sociologiche di acquisto, che a loro volta saranno bombardate con pubblicità mirata e selettiva (direct mail, junk mail, phone mailing eccetera). Questo è un tipo di sorveglianza relativo alla capacità di consumo, che va a comporre dei veri e propri profili elettronici, una vera e propria immagine digitale fatta di dati (data-immagine) con conseguenze significative sulle aspettative e prospettive di vita dei cittadini in carne e ossa. I database vengono difatti venduti e rivenduti, tanto da creare un nuovo e lucroso mercato: i dati relativi alle capacità di acquisto e consumo vengono incrociati con altri indici (quali quartiere di provenienza, lavoro, assicurazione sanitaria, fondi pensionistici eccetera) e quindi utilizzati per concedere fidi bancari e prestiti. Magicamente le poche figure devianti diventano coloro che non consumano, verso cui sarà plausibile ed economico l'utilizzo della violenza pura degli organi esecutivi.

Tutto questo può quindi avvenire perché viene creata intorno alla nostra identità reale una sorta di sé aggiuntivo e vituale, una data-immagine, che pesantemente va a condizionare la nostra stessa vita reale. Ed è una data-immagine che, al di là delle poche assicurazioni formali che le leggi sulla cosiddetta privacy offrono, morde in modo significativo il problema stesso definito dal concetto di privacy. Ormai, a causa della pervasività sempre maggiore rappresentata dagli strumenti elettronici, che mantengono aperta la casa verso l'esterno, la stessa privacy appare un concetto che ha fatto il suo tempo, legata com'è alla preistoria della modernità. Il concetto di privacy elaborato da Samuel Warren e Louis Brandeis, come diritto dell'individuo a essere lasciato solo, affonda le sue radici in un periodo storico, l'Ottocento, in cui è stata nettamente separata la sfera privata da quella pubblica. La casa veniva traformata in luogo dell'interieur borghese, staccata totalmente dal momento della produzione e in cui era possibile il godimento della merce e in buona sostanza della proprietà privata; ma oggi che la casa è sempre meno luogo del rifugio borghese e sempre più luogo della sorveglianza elettronica, questo richiamo alla sfera intima della privacy appare oggettivamente una regressione alla modernità, a fronte del costituirsi del sé aggiuntivo, della data-immagine, caratteristiche dell'età digitale.

Richiesta dalla Convenzione di Schengen, accordo comunitario incentrato su operazioni di polizia e controllo alle frontiere, è stata approvata la legge italiana sulla protezione dei dati e la cosiddetta privacy, che rimanda con una specifica delega al governo la definizione dei compiti e degli obblighi attuativi e la costituzione di un ufficio del garante.

La prima osservazione che può essere fatta è proprio relativa alla duplicità della sorveglianza. La legge difatti non offre alcuna copertura rispetto all'ingerenza dello stato, né a quella degli interessi e delle agenzie private di trattamento dei dati. Basti pensare che si offre assoluta discrezionalità all'attività di accumulazione dei dati da parte degli organi inquisitivi e di sicurezza dello stato e che nella gran parte dei casi non è necessario il consenso dell'interessato. Per quanto riguarda la sorveglianza commerciale e privata viene data implicitamente possibilità di cessione dei dati personali, semplicemente comunicandone notizia al Garante di controllo. Inoltre viene anche detto che nessun atto giudiziario o amministrativo può fondarsi esclusivamente su dati conservati elettronicamente, da cui si deduce che, seppur parzialmente, questi atti possono fondarsi su dati raccolti elettronicamente. Infine — quasi a esplicita conferma del fatto la legge va soprattutto a costruire una botte di ferro intorno alla legittimità della raccolta dei dati anche personali — si afferma che non si applicano le norme riferite ai dati raccolti precedentemente alla data di entrata in vigore della legge o quelli il cui il trattamento sia iniziato prima della legge in questione.

Che parere dare quindi su questa normativa? A una prima analisi il giudizio può essere solamente monocorde. Questa è una legge che non tocca se non marginalmente gli interessi privati di fare business sui dati dei cittadini e non limita in alcun modo la volontà di potenza dello stato attraverso i suoi organi di controllo sulla società. L'unico aspetto positivo sta nel fatto di riconoscere, con la sua stessa approvazione, che esiste il problema. Una legge che forse avrebbe avuto un certo senso se fosse stata approvata alla fine degli anni Settanta, ma all'alba del Duemila, sul crinale dell'avvento della società digitale, appare oggettivamente inadeguata rispetto alle sfide sociali e tecnologiche in atto.

IMPRESA SOCIALE E ORIZZONTE TECNOLOGICO

Infine, e solo per questioni di spazio non ci soffermiamo più a lungo su tutta una serie di aspetti, c'è da richiamare la questione dei movimenti e delle risposte da questi date a una serie di atti decisi in sede economica e legislativa.

Un primo aspetto che ci sembra di poter evidenziare è che, purtroppo, la crisi della modernità ha fatto delle vittime, e tra queste i movimenti sono stati tra i primi a soccombere. L'ideologia della fine delle grandi narrazioni, per brevità raccolte sotto la dicitura postmodernità, ha cominciato a mietere successi. La mancanza di una grande prospettiva unificante della trasformazione ha, da una parte, lanciato numerose intelligenze alla ricerca di nuovi percorsi e strade da esperire. Ecco quindi sentieri prevedibilmente foriere di successi, quali l'analisi del postfordismo e soprattutto quella del lavoro autonomo di seconda generazione, contemporaneamente ad altre, più culturaliste, ma anche meno ricche dal punto di vista teorico, quali alcuni approdi di analisi provenienti da circoli prevalentemente studenteschi.

Dall'altra, l'esito più immediato e percepibile, è un dato di carattere esistenziale, esploso con grande violenza proprio negli ultimi due anni. Si tratta di un fenomeno di diffrazione delle coscienze e delle intelligenze, tutte orientate a ritagliarsi un proprio spazio di visibilità mediatica, e tutte tese a giocare un ruolo, per lo più da portaborse, all'interno del grande gioco della "società dello spettacolo". Ecco quindi l'improvviso protagonismo letterario di "scrittori" giovanissimi, talvolta aventi come proprio universo vitale quello del movimento, a cui a man bassa ha attinto un'impresa editoriale in grave crisi di idee e progetti. Ma ecco anche l'esplodere di un processo di vera e propria balcanizzazione delle coscienze, che vede schierati tutti contro tutti, in qualsiasi luogo: dalla rete alla comunicazione interpersonale, dalla propria attività di autoproduzione all'uso di tecniche di ridondanza e rilancio dell'informazione sui quotidiani nazionali. Probabilmente tutto questo è l'esito momentaneo di un processo caratterizzato come non mai dall'horror vacui proprio della fase, ma al contempo non si può fare a meno di segnalarne gli esiti negativi, soprattutto in vista di compiti più importanti che ci attenderanno in futuro.

E' certo che la mancanza assoluta di un'etica comunicazionale sta facendo implodere certi usi e dinamiche delle rete stessa. Superata insomma la prima grande fase della sua fondazione e successivamente del suo consolidamento, cose avvenute grazie al concorso delle intelligenze di tutt'Italia, oggi la crisi sembra coinvolgere proprio l'uso "sensato" della rete, il fatto in sintesi che la rete produca minor senso sociale di quanto ci si potesse aspettare, conducendo peraltro di riflesso alla rivalutazione di rapporti territoriali e locali, che sembravano messi in discussione in una fase precedente.

Come si supera questa crisi? Nel richiamare l'essenziale avvertimento che, per fortuna, non esiste alcuna avanguardia che possa offrire il giusto rimedio a crisi che appaiono più di carattere generale, al contempo cerchiamo di offrire una nostra ipotesi di lavoro su quanto sta accadendo.

In primo luogo, crediamo corretto avviare una riflessione collettiva sulle dinamiche più sotterranee che albergano in un certo uso delle rete, ponendo attenzione anche all'elemento dell'etica comunicazionale e alla produzione del senso sociale.

Dall'altro, il fatto che, oggi come non mai, la discussione appare verbosa e non collegata ad alcun progetto concreto. Insomma ci pare che si discuta tanto, anche con un livore straordinario, ma che al contempo non si voglia, o non si abbia, la capacità di sporcarsi le mani con dei progetti concreti, di qualsiasi tipo, che allarghino la sfera di produzione del senso sociale.

E' anche alla luce di quanto sopra che ci chiediamo quali siano state le cause che in Italia abbiano impedito la nascita di esperienze di base più avanzate rispetto alle esistenti. Se da una parte qualche anno fa, c'erano delle buone premesse per la presenza e la nascita di esperienze quali Cybernet ed Ecn, a tutt'oggi, come peraltro si leggerà su questo numero di Decoder, sono impensabili, almeno al momento, situazioni analoghe agli Xs4All (Access for All) tedesco e olandese. Cioè di situazioni che, partite con dinamiche di movimento, sono riuscite a proporsi come dei servizi ad alto profilo tecnologico e, in assenza di un servizio pubblico adeguato, a costituire dei servizi con valenze di carattere generale.

Perché ciò è accaduto all'estero e non nel nostro paese? Perché per esempio in Germania e in Olanda, non in Inghilterra e Francia è da suggerire, nei fatti è accaduto che forme di imprese sociali, pur all'interno dell'ambiguità intrinseca del termine, sono riuscite a nascere e a proporsi in maniera intelligente, coprendo terreni d'interesse molteplici, dallo sviluppo ecosostenibile, alla progettazione di ambienti con materiali "diversi", alla creazione di circuiti teatrali di valore pari a quelli "ufficiali", alla progettazione di imprese ad alta qualificazione tecnologica (come per esempio Xs4all). Varie sono le ragioni di questa maggiore pragmaticità delle situazioni estere. Qui formuliamo alcune cause in ordine sparso, senza alcuna pretesa di sistematicità né volontà di trattazione organica, giusto a mo' di agenda: i movimenti degli anni Settanta hanno inciso maggiormente nel progettare ipotesi alternative della società, che però fossero ascrivibili allo sviluppo capitalistico stesso, da cui una minore radicalità e al contempo una maggiore concretezza (macrobiotica, vegan, rete "alternativa" più diffusa di botteghe); maggior trasparenza e intelligenza politica delle istituzioni, anche a causa di precondizioni storiche di tipo etico-religioso; maggior ricchezza e maggior internità ai processi di modernizzazione. Diversamente l'unico ambito di novità emerso dalla situazione italiana si può racchiudere nella parola "centri sociali", un fenomeno molteplice nelle sue origini e derive, che oggi conosce una grande difficoltà nel sapersi trasformare a fronte dell'epocale modificazione postfordista.

Prima di tuffarci nell'esperienza italiana riprendiamo l'analisi sulle modalità di situazioni come Xs4all e consimili: queste esperienze sono di tipo cooperativistico o con altra parola sono imprese sociali nel campo delle nuove tecnologie, dove allo spirito di collaborazione e alla finalità sociale si affiancano caratteristiche interessanti. Per esempio vengono messe in gioco delle professionalità di alto livello in progetti che possono avere un peso rilevante nell'economia dell'informazione di una determinata zona geografica. Viene sottratto alle istituzioni il compito di "togliere ai ricchi per dare ai poveri", ovvero addossare agli acquirenti di servizi commerciali i costi della distribuzione gratuita di Internet all'intera cittadinanza. Questo senza chiedere nulla, ma semplicemente diventando i gestori del progetto stesso.

La nostra situazione è particolare. Abbiamo infatti una forte presenza di soggetti che sono collocati nel punto alto dei processi produttivi moderni (come dimostra l'inchiesta sui centri sociali, da noi pubblicata in Geografie del desiderio) e inoltre proprio intorno alle reti alternative circolano sicuramente capacità e professionalità di un certo livello. Il problema sta nel fatto che tutti costoro viaggiano separati, atomizzati l'uno dall'altro, senza la capacità di saper pensare o progettare qualcosa che sia d'interesse e valore generale.

A un livello minimale, il dibattito nato l'anno passato sull'impresa sociale, aveva secondo noi anche questo senso: mettere in relazione proprio questi soggetti, per costruire progetti di chiara finalità sociale, al fine anche di produrre reddito. O forse la discriminante del reddito va rivista con attenzione. Forse per qualcuno non è appetibile rinunciare al reddito da attività professionali usuali, riversando in certe attività "sociali" esclusivamente richieste affettive-amicali, mentre per altri il rifiuto del reddito o delle relazioni con il mondo che il mercato "necessariamente" determina, fa sì che venga rifiutata in toto una tale possibilità.

SOTTRARRE SPAZI ALLO STATO

Che lo stato debba cambiare, non è una nostra impressione ma una certezza. Lo stato welfarista è in grande trasformazione. Si definiranno diversamente compiti e sfere di attività e il grande dibattito è già iniziato da tempo, anche se subirà una sua accelerazione proprio durante i prossimi due anni. Sicuramente la grande attenzione assegnata ultimamente al volontariato sociale è un segnale di grande importanza politica. Lo stato dismette sfere di attività conquistate durante gli ultimi settant'anni e le delega, a costi minori, a soggetti giuridici e umani generalmente animati da dinamiche d'impegno sociale. Ecco quindi la nascita dell'idea del terzo settore (realtà non solo italiana, è da dire), la legge apposita, che favorisce vere e proprie corporation del terzo settore come Acli e Arci, le iniziative di smantellamento della sanità pubblica in Lombardia, affidate da Formigoni a strutture d'impegno sociale d'ispirazione cattolica clientelare.

Crediamo che questo processo in corso, caratterizzato dalla sottrazione allo stato di sfere di socialità e impresa, debba essere governato meglio. Proviamo a pensare cosa potrebbe succedere se al centro di questa dismissione fosse posta la questione del danaro versato per la pensione. I progetti di Treu e Ciampi tentano in effetti di indirizzare la parziale dismissione di denaro "pensionistico" verso i soliti controlli del mercato finanziario e azionario, attraverso l'escamotage dei fondi pensione. Altro impatto si avrebbe se gruppi numerosi di lavoratori decidessero di autorappresentarsi e pretendessero di ricevere in busta paga l'intero ammontare del salario, compresa la parte che viene accantonata per la pensione. Del resto, questa è già la dinamica in nuce dei lavoratori autonomi di seconda generazione, che tendono, individualmente però, a trovare una soluzione per la questione della pensione.

In sintesi bisogna avere idea che è finita una certa idea di stato, come immediato e meccanico prodotto risultante dal conflitto tra le classi, mutuata direttamente da Hegel e Ricardo. Da Hegel perché è il processo dialettico del conflitto tra le classi che crea la forma-stato, da Ricardo perché la razionalità economica che informa l'attività dei soggetti e ne condiziona l'aspetto legislativo. Oggi questo schema sembra essere in difficoltà: i processi di globalizzazione impongono una ridefinizione dei confini dei flussi commerciali, dei percorsi linguistici e delle affinità culturali; pertanto riferirsi alle stato con una logica prettamente rivendicativa caratteristica del ciclo politico-economico cosiddetto taylorista parrebbe non avere più senso. Diversa invece la strategia dell'esodo che a partire dagli anni Ottanta numerosi soggetti hanno praticato in Europa in un ventaglio di posizioni fondate sul rifiuto: del lavoro, di rappresentanza politica, sindacale, di visibilità. In una parola si sono resi indisponibili scegliendo la via della rivendicazione anziché quella della sottrazione di sé alle istanze istituzionali. Del resto anche Deleuze in più occasioni ha evidenziato come il "nomadismo" sia stato ed è forse il tratto caratteristico dell'antagonismo soggettivo di questa fase storica.

Da un certo punto di vista la pretesa supremazia dei popoli stanziali su quelli nomadi così tanto accarezzata dalla storiografia occidentale risulta essere pura leggenda. Quella mongolica è stata l'unica invasione invernale della Russia svoltasi con successo. L'attività nomade imponeva un non luogo della proprietà privata sulle terre e sulle donne; la supremazia militare derivava esclusivamente dalla velocità in battaglia ovvero dalla capacità di mettere "un mare d'erba fra sé e il nemico". All'opposto, nei popoli sedentari si è assistito allo sviluppo di un senso religioso avviluppato sul'identità e tendente al fanatismo e un senso artistico talmente raffinato da rasentare la decadenza.

Allora, ritornando alla questione dell'impresa sociale, crediamo che se ne possa dare un primo quadro concettuale: essa deve essenzialmente essere in grado di sottrarre spazi allo stato, pur accettando di relazionarvisi tatticamente, ma permettendo il costituirsi di dinamiche sociali almeno al proprio interno non di tipo capitalistico, finalizzate alla produzione di merci e servizi aventi in sé un grado aggiunto di valore sociale e d'uso. Per sfuggire alla volontà di potere e di sussunzione che lo stato, tramite la sua semplice esistenza, tende ad attuare, è necessario confrontarsi e agire su un livello tecnologico e di conoscenza dei saperi di alto livello.

Insomma bisogna sapersi sporcare le mani costruendo progetti concreti, anche di alto profilo tecnologico, che diano da vivere a chi ci lavora, ma che al contempo rendano trasparente le ragioni e la necessità sociali a un'utenza più ampia. Le risorse umane ci sono, come crediamo di aver dimostrato con la pubblicazione del questionario dei centri sociali. Probabilmente ciò che manca è la piena consapevolezza del mutamento di fase epocale che stiamo vivendo. L'esperienza della modernità crediamo si debba esplicare nell'accettazione creativa di questa sfida. Bisogna riempire di senso sociale l'horror vacui della postmodernità.

Buon lavoro.