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SCUOLA UNIVERSITA' E IMPRESA

Deformazione professionale


LA SCUOLA DI PRODI
In una economia tutta tesa a soddisfare le esigenze delle imprese, ogni ambito vitale viene piegato a questo imperativo. Così i governi, semplici garanti dei profitti privati, così i sindacati confederati che lungi dal rappresentare una qualche controparte diventano componente integrante della pianificazione aziendale; così gli enti locali (Regione e Comune in testa) che ricevono sempre più autonomia nella gestione di risorse (soprattutto di spesa) per soddisfare meglio le richieste delle imprese locali.
In questo contesto anche il sistema di istruzione deve fare la sua parte: deve essere sempre più subordinato alle esigenze di mercato, ma pagato con soldi pubblici (sempre meno dallo stato e sempre più dalle famiglie). E’ il liberismo in salsa italiana: tutti invocano il mercato ma tutti vogliono i soldi dallo stato: per la rottamazione, per finanziare le scuole private, per comprare nuovi aerei da guerra, per i contratti di formazione-lavoro (molto lavoro e poca formazione) che riducono e scaricano i costi della manodopera. Il “sistema integrato” (tra pubblico e privato), la formazione permanente, la pluralità e la flessibilità dei percorsi formativi, tutti finanziati con soldi pubblici (dalle Regioni, dal Fondo Sociale Europeo e dai contribuenti comunitari) servono proprio a questo: non più formazione intellettuale garantita a tutti, ma una pioggia di quattrini a disposizione delle imprese che li utilizzano per le proprie necessità di abbattimento dei costi di produzione e di trasmissione dei (dis) valori aziendali della cultura d’impresa, della qualità totale.
Dunque il sistema d’istruzione é chiamato a svolgere una duplice funzione. Una funzione materiale di costruzione del nuovo esercito precario di riserva (manodopera addestrata quanto basta e flessibile in quanto a salario). E una funzione ideologica di trasmissione dei disvalori dominanti e di omologazione culturale. Questa duplice funzione viene articolata ed attuata da una serie di (contro) riforme che disegnano un sistema d’istruzione ridotto ad un’immensa scuola di avviamento professionale, dove le prime “scelte” nel percorso educativo avvengono a dodici anni, sanzionando così una flessibilità precoce. Una scuola dunque dove si impara meno a pensare, ma dove la flessibilità diventa un dato antropologico, genetico, instillato fin dall’infanzia. Contenuti ben delineati già nel programma elettorale dell’Ulivo, dove nella parte dedicata alla scuola (dal titolo “un’Italia che sa, un’Italia che vale”); alla tesi n° 66 si parla di “autonomia e flessibilità dei servizi scolastici”, di “pluralità dei soggetti di offerta scolastica”; ancora, alla tesi n° 67: “va istituito un vero e proprio sistema di Istruzione Tecnica Superiore, cioè un canale post-secondario parallelo all’università, con le seguenti caratteristiche: massima flessibilità e piena possibilità di discontinuità nell’erogazione dei corsi; alta sensibilità nei confronti della domanda del mercato (...), coinvolgimento in forma di joint venture delle imprese”. Alla tesi n° 68 sull’università, infine, si vuole “il completamento e lo sviluppo dell’autonomia” e si afferma che “la qualità totale deve essere realizzata anche all’università”; nonché naturalmente “numero programmato (chiuso) per tutta l’istruzione universitaria”.
Dunque noi tutti paghiamo la competitività delle imprese nostrane ricevendone in cambio un nuovo attacco alla scuola di massa, un peggioramento delle condizioni di vita con la conseguente devastazione del tessuto sociale.

FACOLTA’ DI DEFORMAZIONE
La facoltà di scienze della formazione costituisce un buon esempio di mercificazione del sapere e di asservimento alle necessità del mercato. Già al momento dell’iscrizione lo studente si trova inserito non più in un corso di studi, ma in un mercato del titolo. L’implicita logica pseudo-professionalizzante taglia definitivamente i ponti con l’idea di un sapere inteso come strumento di comprensione, di critica e di capacità di progettare scenari e mondi nuovi, migliori; lo studio si limita a un mero baratto in cambio di una qualifica di formatore o educatore che vengono così a delinearsi come forza-lavoro mentale duttile e massimamente flessibile, a disposizione delle mutevoli e volubili esigenze della nuova produzione di merci materiali e “immateriali”.
Così mentre il mercato si frantuma, ci viene fatto credere di poter accedere a un titolo spendibile.
Dei tre indirizzi previsti (ancora flessibilità).

Il primo:
insegnanti di scuola media superiore, prevede un improbabile accesso all’insegnamento, reso ancora più arduo dall’incessante riduzione dei finanziamenti alla scuola nonché dall’istituzione di scuole di specializzazione per insegnanti, post-laurea, a numero chiuso, una per regione e a fondi zero. In questo modo l’accesso alla scuola viene riservato alle “figure di sistema”, figure di gestione manageriale, addetti alla valutazione di qualità (basata sul risparmio), una sorta di “capetti” al servizio del preside-manager.

Il secondo indirizzo:
educatori professionali extrascolastici, sforna un esercito di precari da buttare nella giungla delle cooperative, di quel privato sociale a cui ormai sono affidate le politiche sociali: un ambito in cui la flessibilità di lavoro e salario é pressoché totale e in cui la parola d’ordine sta diventando “creatività imprenditoriale”.

Il terzo indirizzo:
esperti nei processi formativi, é quello probabilmente più funzionale alla ristrutturazione capitalistica in corso. Con un piano di studi farcito di discipline quali “formazione e gestione delle risorse umane”, il nostro esperto potrà essere utilizzato dalle agenzie di lavoro interinale, nella formazione aziendale come portatore del verbo della qualità totale, delle virtù della flessibilità, della cultura d’impresa e della competitività: parole d’ordine a cui piegare ogni ambito di lavoro e di vita.
Per formazione non viene inteso altro che il modello della formazione aziendale (da applicare tout court a ogni settore lavorativo), il cui significato é reso bene dalle parole di Fiat auto (1989,71): “l’asservimento del fattore lavoro alle necessità critiche del sistema”, la domanda a cui la formazione deve rispondere è “come si fa a costruire un’organizzazione del lavoro nella quale il lavoratore si senta contemporaneamente non estraniato anche se asservito?” (ibidem, 2,73). Ciò che conta ormai non é più il valore di scambio ma la qualità della forza-lavoro, il valore d’uso; la formazione diventa veicolo di trasmissione non solo di conoscenze tecniche, ma anche di un modello, di un codice di lavoro a cui attenersi.
A partire da queste poche riflessioni teoriche, vorremmo dare inizio ad un’analisi dei rapporti, previsti e già esistenti, tra Università e impresa nella nostra regione così come vengono delineati da leggi, decreti e accordi.



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