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SPAZIO LETTERE

Dopo i manicomi


Pubblichiamo una lettera che ci è pervenuta da un operatore in ambito psichiatrico della Valle del Serchio. La redazione, pur non condividendo l’intero contenuto della lettera, ne ritiene utile la pubblicazione ed auspica l’apertura di un dibattito su tali tematiche che trovi spazio non solo sulle pagine di questo giornale, ma abbia riscontro anche in iniziative pubbliche da svolgersi sul territorio.

Trent’anni fa usciva “L’Istituzione Negata”, il libro con cui Franco Basaglia e il gruppo di psichiatri che lavoravano nel manicomio di Gorizia aprivano con lucida intelligenza politica una stagione di lotta contro l’istituzione totale che avrebbe portato, dopo un decennio di esperienze pratiche alternative, all’abolizione per legge dell’internamento manicomiale (legge n°. 180 del 13 maggio 1978). L’anno in cui si dava inizio a questo progetto (il 1968) non è casuale. La critica radicale al manicomio si saldava strettamente a quel grande movimento di lotta sociale, politica e culturale che si proponeva una trasformazione globale della società e delle sue istituzioni classiste. Nello stesso anno usciva il libro di don Milani “Lettera ad una professoressa” che con eguale lucidità di analisi svelava la logica di classe dell’istituzione scolastica.
Ma la lotta contro il manicomio, per la restituzione dei diritti umani e civili a quella popolazione di emarginati che, etichettati come folli e pericolosi, la razionalità borghese voleva esclusi dalla vita sociale ordinata alla produzione e al profitto, al contrario di tante altre lotte portate avanti nello stesso periodo, ha vinto. La legge di Riforma Psichiatrica ha attraversato indenne, nonostante ripetuti attacchi e tentativi di controriforma, gli anni della restaurazione e della globalizzazione del dominio del capitale, e sembra resistere anche all’attuale distruzione di quei brandelli di stato sociale che i lavoratori avevano faticosamente strappato.
L’internamento manicomiale è stato abolito. Il suo carico di violenza e di sofferenza sarà tra breve completamente cancellato e quelle strutture che furono di reclusione potranno avere un più civile utilizzo. Ed è paradossale che siano stati spesso accusati di negare la sofferenza psichica quanti negavano invece il manicomio, non accorgendosi che in realtà era proprio tale istituzione che negava tale sofferenza ritenendola incurabile, senza soluzione, e quindi segregandola e nascondendola dietro i propri muri. E’ stato necessario abbattere quei muri e quell’ideologia per poter riconsegnare la follia, e quanti soffrono di questa condizione, alla società e alla possibilità della cura.
Ci troviamo dunque di fronte ad una anomalia. C’è un pezzo dell’utopia concreta del ‘68 che continua a vivere e a produrre effetti.
Non possiamo accontentarci di prendere atto con soddisfazione di questa vittoria. Le eccezioni meritano una attenta analisi perché nascondono anche ragioni che hanno a che fare con la logica del dominio.
Certo, l’aver dimostrato che si possono curare coloro che soffrono un disagio psichico senza il manicomio, anzi che solo con l’abolizione del manicomio si può pensare la possibilità della cura, non è stato certamente inutile. E’ stata la vittoria di una scienza che ha saputo mettersi dalla parte degli oppressi, con un progetto di liberazione di grande significato etico e politico. Il manicomio infatti deve essere distrutto perché possa scomparire dalla cultura sociale l’idea (e la tentazione) di usare spazi separati dove escludere coloro che in qualche modo sono diversi, quando la diversità si scontra con le norme funzionali ai poteri stabiliti e non ha da parte sua abbastanza potere da imporre l’accettazione. L’attuazione delle norme della 180 dunque è anche un messaggio di civiltà contro il riemergere sempre più minaccioso dell’intolleranza verso le nuove diversità che, insieme alla povertà e all’emarginazione, stanno crescendo nel nostro paese. Ma dobbiamo essere consapevoli che se quest’operazione di smantellamento dei manicomi, e di smascheramento dell’ideologia pseudoscientifica che li giustificava, è stata possibile lo si deve anche alle convenienze economiche: i costi della psichiatria territoriale sono incomparabilmente inferiori alla custodia e al mantenimento dei pazienti nelle strutture asilari. Ed è per questo motivo che il processo di superamento degli ospedali psichiatrici è in atto in quasi tutti i paesi industrializzati, anche se non con la radicalità che è stata propria dell’esperienza italiana.
Ma l’esperienza italiana è anche segnata da una diminuzione di risorse per la psichiatria che non ha eguali in nessun altro paese. All’interno di una spesa sanitaria, che dopo i ripetuti tagli delle finanziarie è ormai ridotta al 5% del P.I.L. (mentre nelle altre nazioni europee è intorno al 7-8-%), il peso delle risorse assegnate alla salute mentale incide per il 3-4% contro il 10-12% di Francia, Germania, Inghilterra, ecc.. Ciò significa che si risparmia soprattutto sulla pelle degli ultimi, dei meno protetti che non sono in grado di rappresentare interessi forti. Ciò significa che c’è il rischio di passare da una politica di internamento ad una di abbandono territoriale dei malati di mente, non stanziando risorse adeguate a rispondere ai loro bisogni di assistenza. Lo stesso Progetto governativo “Tutela della salute mentale”, che sembrerebbe animato di buone intenzioni, al contrario di altri precedenti progetti obbiettivo (tossicodipendenze, AIDS, ecc.), non ha alcun finanziamento. Di questi tempi rischia perciò di rimanere una pura esercitazione cartacea di programmazione sanitaria senza alcuna ricaduta sulla realtà dei servizi. La Regione Toscana interviene dal canto suo con ulteriori tagli alla spesa diminuendo dal precedente 5% all’attuale 3.5%, nel bilancio complessivo delle UU.SS.LL., il peso del finanziamento attribuito alla salute mentale.
Del resto lo stesso rinnovato interesse per la dimissione dagli ex manicomi degli ultimi internati (17.000 negli 84 ex O.P. pubblici e privati, 900 nei 5 O.P. della Toscana), più che rispondere a ragioni umanitarie e di risarcimento verso quei cittadini che hanno subito l’esclusione, ha lo scopo di mettere a disposizione delle aziende sanitarie le risorse economiche che possono essere ricavate dalla vendita degli edifici manicomiali una volta resi liberi dagli ultimi degenti (finanziarie del ‘95 e del ‘97).
Un altro motivo che ha portato all’abbandono del modello manicomiale è legato ai processi di ristrutturazione sociale ed economica in atto dalla metà degli anni 70.
Alla centralità della grande fabbrica fordista, ordinatrice e regolatrice anche della vita del territorio, si è andato sostituendo nel nuovo assetto produttivo del capitale una organizzazione a rete che attraversa il territorio con una pluralità di punti di produzione. Una risposta davvero efficace alla crisi che il controllo capitalistico centralizzato aveva subito per le lotte operaie degli anni 60 e 70. Disarticolando la produzione, grazie anche alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie informatiche, si spezza l’unità delle lotte dei lavoratori, si diminuisce il loro potere contrattuale, si flessibilizza l’uso della manodopera aumentandone lo sfruttamento. Insomma si recupera e si accresce il controllo capitalistico sul processo produttivo e sul mercato del lavoro. Il modello psichiatrico ha subito una analoga trasformazione. Del resto, pur senza schematicamente ricondurre ogni realtà alla struttura economica di base, è comunque vero che, nel processo di sussunzione che il modo di produzione capitalistico opera su tutti gli aspetti della vita sociale, il modello produttivo tende ad informare e rendere omogenei tutti i settori importanti per la riproduzione del sistema. Così alla grande fabbrica centralizzata del controllo manicomiale, smantellata dalla lotta antiistituzionale degli anni 60 e 70, si è andato sostituendo un controllo frammentato, parcellizzato, territorializzato in molteplici punti ed agenzie. E se non è più possibile affidare questo compito di gestione sociale del disordine solo al settore psichiatrico, perché il rifiuto della delega al controllo del comportamento è stato nella cultura psichiatrica troppo forte, è sufficiente ridurre il ruolo centrale della psichiatria per questa funzione. L’emarginazione oggi, non più concentrata nei manicomi, non si è comunque ridotta, anzi è in costante aumento perché investe sempre più ampie categorie di cittadini rese inutili dalla ristrutturazione in atto e dall’espulsione dal mondo del lavoro. Soprattutto ai servizi sociali è affidato oggi il compito della gestione delle vecchie e nuove emarginazioni. Il moltiplicarsi delle residenze sociali assistite (che riproducono in piccolo le caratteristiche dei vecchi manicomi), dove viene reclusa una popolazione di anziani, inabili, malati di mente, handicappati, ecc., è il segno di questo processo, purtroppo più nascosto, meno evidente e quindi meno “scandaloso” di quanto sia apparso il manicomio alla coscienza civile, e perciò anche meno attaccabile da una critica rigorosa verso il trattamento che la società riserva a quanti appaiono inutili alla valorizzazione incontrollata del capitale. Se questa breve analisi ha una qualche verità, allora non possiamo farci illusioni. La chiusura dei manicomi è stata certo una vittoria importante perché è stato abolito l’orrore di un trattamento antiterapeutico e disumano riservato a soggetti affetti da una malattia che li rende deboli e senza risorse. La legge 180 ha restituito dignità e libertà a dei cittadini che erano stati privati di ogni diritto civile e deportati violentemente negli asili di reclusione (30 anni fa 150.000 persone erano rinchiuse nei nostri manicomi). Ma la situazione non è confortante. Il processo di ristrutturazione economica in atto allarga a dismisura le fasce degli esclusi che devono comunque essere controllati e resi inoffensivi.
L’esperienza accumulata nella lotta contro l’istituzione manicomiale può però essere un solido punto di partenza per combattere la realtà della nuova emarginazione sociale. Certo non possiamo nasconderci le molte difficoltà proprie della situazione attuale. Nella disgregazione territoriale anche della miseria e nella frammentazione degli apparati di controllo, che caratterizzano oggi i meccanismi dell’esclusione, è più difficile ricomporre e condurre ad unità l’obiettivo di un’azione critica di denuncia e di trasformazione di quanto non sia stato individuare nel manicomio l’apparato da abbattere per restituire alla comunità la contraddizione della follia. Pure è solo questa la strada da percorrere. Quella di una analoga radicalità scientifica che sappia aggredire e svelare le ragioni e i metodi di tutte le molteplici emarginazioni, comunque mascherate, imposte dalle convenienze del capitale. Quella di una analoga capacità di collegare la lotta contro ogni esclusione alle lotte della classe operaia per conquistare diritti, migliori condizioni di vita, spazi di democrazia e potere nei luoghi di lavoro.
Riuscire a ricostruire questi nuovi obiettivi di liberazione, a ricreare un movimento che voglia cambiare le condizioni che perpetuano in altre forme la distruzione organizzata di coloro che non servono al profitto, sarebbe il modo migliore di ricordare nel 1998 i trent’anni dalla pubblicazione de “L’Istituzione negata” di Franco Basaglia e i vent’anni dalla conquista della legge 180.
Come diceva Franco Fortini infatti: “memoria è capire quel che abbiamo davanti”.



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