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CULTURA

Intervista esclusiva a Pino Cacucci


Comunicazione Antagonista: La tua posizione, all’interno dell’attuale panorama letterario, non è certamente neutra, hai fatto delle precise scelte di campo, puoi riassumere il tuo percorso?

Pino Cacucci: Ho sempre considerato la “neutralità” come sinonimo di ipocrisia, un modo di stare dalla parte dei “vincitori” fingendo distacco. Nulla di quanto accade nel mondo può lasciare “neutrale” un essere umano. Il problema, semmai, è non avere le forze per seguire tutto e tutti, per cui... si operano delle scelte, e si resta con le antenne dritte. Il mio percorso è del tutto “naturale”, considerando che sono cresciuto in una famiglia di operai dove si stava a sinistra da generazioni. Fin da ragazzino ho militato nell’anarchismo, e anarchico lo sono sempre, anche se può voler dire tante cose diverse tra loro. Il significato che ha per me, è essere anarchico in ogni istante dell’esistenza, nei rapporti, sul lavoro, scrivendo o parlando, in viaggio come nel condominio dove si abita...
Difficile, riuscirci. Ma sarebbe peggio non provarci.

C.A.: Il viaggio è sicuramente, leggendo alcuni tuoi libri, uno dei luoghi principe da cui parte la narrazione. Però non in chiave postmoderna, ma con una precisa operazione di recupero della memoria. Parlaci del tuo “viaggio di storia orale”.

P.C.: Per la mia generazione (come per altre, del resto) il problema della memoria è assillante: negli anni settanta eravamo in tanti a vivere in piazza e in strada, la “militanza” era naturale come respirare, e anche se le differenze erano innumerevoli e spesso laceranti, tutto quel patrimonio creativo, di energie vitali, di passioni ed entusiasmi, è stato frantumato, disperso, infangato...
Non siamo stati capaci di strappare dalle mani dei mezzibusti televisivi e dei politicanti, con tutto il corollario di grandi firme giornalistiche, la nostra storia e la nostra memoria. Oggi, ce la ribattono in faccia ricostruita con i pezzi peggiori, manipolati, falsati, ignobilmente mistificati: e il risultato è un’atmosfera cupa, di pallottole e sangue, di comunicati rozzi e di pentimenti tardivi... Per non parlare di certi cialtroni che, distintisi già allora per l’arrivismo, oggi si presentano come ex-ribelli e intascano lauti stipendi per sputare fiele su esperienze che in realtà non hanno mai vissuto. Quindi, la memoria è per me un bisogno assillante di riscatto dall’oblio, e strada facendo, ho incontrato altra memoria in altre latitudini, constatando che, purtroppo, certi errori (averne fatti non significa che quelli dall’altra parte avessero ragione) si sono sempre ripetuti, e che c’è un grande bisogno di recuperare la storia vera, quella che i perdenti non riescono mai a scrivere. Il viaggio dovrebbe servire soprattutto a questo: ascoltare le esperienze altrui, arricchendo le proprie. Metterle in un libro è poca cosa, ma non farlo sarebbe una colpa.

C.A.: Sulla memoria si è sviluppato un dibattito, in questi ultimi anni, all’interno del movimento. emoria non per imbalsamare i “momenti più belli”, ma per riattualizzare e attribuire un nuovo significato agli elementi di contraddizione utili per nuovi percorsi di lotta. In proposito che dici?

P.C.: A parte che “i momenti più belli” ce li hanno sepolti e andrebbero ricordati, se non altro per toglierci di dosso quello a cui accennavo prima ... comunque, il Vecchio Antonio diceva: “La memoria è la chiave del futuro”. Sembra che ripetere gli errori sia un imperscrutabile destino degli esseri umani, ma provare a tenere presenti i percorsi fatti in precedenza, è un tentativo per andare avanti, per non impantanarsi. Spesso provo una annichilente tristezza (e un conseguente senso di impotenza) di fronte alle tante divisioni che oggi, come ieri e come sempre, si manifestano in ogni occasione, tra quanti dovrebbero idealmente stare dalla “stessa parte”, con un continuo fiorire di fratture, liti, accuse... Un cannibalismo incessante. Ecco, la memoria dovrebbe aiutare proprio in questo, a tenere sotto controllo certe ossessioni e assolutismi, a vedere il panorama in maniera più variegata e senza chiusure preconcette...
Facile a dirsi, no? Comunque, per stare a sinistra (con il cuore, non con lo stipendio di un partito o del parlamento) ci vuole una buona dose di masochismo. Quello che non va accettato in nessuna forma, è il sadismo.

C.A.: Oggi l’Internazionalismo trova nel Chiapas uno dei luoghi più significativi, nella lotta dell’E.Z.L.N. La scelta di trasferirsi in America Latina E’ una scelta storica (e politica) che pone delle contradizioni per uno scrittore. E per te?

P.C.: Lo zapatismo ha il grande merito di aver rinnovato linguaggio, metodi, rapporti e strumenti d’analisi della sinistra antagonista, individuando nel neoliberismo il nucleo centrale della questione, quando da noi il termine era ancora a uso e consumo di pochi addetti ai lavori, dimostrando una lucidità straordinaria, che gli europei solo adesso cominciano a capire (tranne pochissimi all’inizio). Internazionalismo, oggi più che mai, significa rendersi conto che il capitale globalizzato va contrastato con forme di lotta globalizzate, cioè capire che se in America Latina (o in Asia) si aprono filiali di multinazionali dove impiegare migliaia di derelitti come schiavi, pagandoli 5 dollari per dodici ore di lavoro a ritmi estenuanti, gli operai francesi o italiani o tedeschi devono immediatamente preoccuparsi, perché saranno loro a subirne le conseguenze.
Imporre i diritti dei lavoratori nelle maquiladoras del Messico o di Singapore, significa preoccuparsi anche del proprio posto di lavoro da questa parte del mondo. Purtroppo, c’è ancora molta miopia verso il problema. E vista la cecità che ha dimostrato uno come D’Alema nella sua visita in Messico, non c’è da essere ottimisti sulla coscienza che al riguardo la sinistra istituzionale potrà mai sviluppare da noi...

C.A.: Il N.A.F.T.A. (la Maastricht USA) impone tagli alle fasce sociali più deboli, e soprattutto in nome della stabilità monetaria promuove azioni manu militare contro il patrimonio degli indios. Quanto spazio trovano nella tua produzione narrativa questi argomenti?

P.C.: Nella narrativa... ne sta trovando sempre più, compreso il romanzo che sto scrivendo (ma è troppo presto per parlarne). Ma è costantemente presente in altre cose che scrivo, e soprattutto che faccio (incontri, dibattiti, presentazioni, ecc., in una sarabanda che non riesco più a fermare... meglio così, anche se spesso non riesco a stare in tutte). Il NAFTA è qualcosa di persino peggiore di Maastricht: non prevede, per il Messico, alcuna parità monetaria o di scambi commerciali, ma solo il sistematico saccheggio delle risorse e della sua manodopera a buon mercato (in pratica, reintroducendo lo schiavismo). Che tenti di spiegarlo io, mi sembra inutile, lo ha già fatto benissimo Marcos in “La quarta querra mondiale è cominciata”. Gli indios sono i primi a essere spazzati via dalla dittatura del mercato, però la maggioranza della popolazione è ormai avviata verso un impoverimento insostenibile.

C.A.: In Messico gli intellettuali di tendenza, quella politica, quanto margine d’azione trovano nella gestione della cultura? Il dibattito, insomma, è appiattito ai dettami imposti dal regime o esiste dell’altro?

P.C.: Tra i tanti motivi che rendono il Messico interessante e da seguire con attenzione, c’è proprio la vitalità dell’ambiente culturale e il coinvolgimento costante di scrittori, artisti, e “intellettuali” d’ogni genere: per loro risulta assurdo porsi la questione dell’impegno, perché “fare cultura” significa per forza di cose intervenire sulla realtà che ci circonda. E’ una distinzione che facciamo noi europei, mentre i messicani considerano naturale (e d’obbligo) l’impegno sociale da parte di chi scrive o dipinge o compone musica, eccetera. Fa parte della sua storia, non dimentichiamo i muralisti, gli scrittori e poeti che presero parte alla rivoluzione e alla straordinaria stagione creativa che ne seguì. Non è un caso che i nomi più celebri, sia in Messico che a livello internazionale (da Carlos Fuentes a Monsivais, dalla Poniatowska a Paco Taibo padre e figlio) siano anche i più schierati politicamente, mentre gli intellettuali filogovernativi danno al paese un’immagine elitaria e distaccata. Certo, i network televisivi e i giornali legati al potere (economico e politico) fanno il possibile per limitare la loro presenza pubblica, ma il governo non riesce affatto a relegarli in ruoli di secondo piano.

C.A.: I giovani scrittori tessono rapporti con la produzione cinematografica: come pratichi le interferenze fra le diverse espressioni artistiche? Credi ci sia spazio per la scrittura della contraddizione, capace di calare la mostruosa maschera dell’ideologia dominante?

P.C.: Lo spazio è alquanto ristretto. Praticamente, si affida ai libri, la sfida contro l’ideologia dominante, il pensiero unico che considera il neoliberismo un bene o comunque una realtà inoppugnabile, e chiunque voglia sostenere il contrario, non trova molti spazi per farlo. Parlo di “neoliberismo” nell’accezione più vasta del termine, cioè come pratica di distruzione sistematica del tessuto sociale, come imposizione di una concezione dell’esistenza basata sull’aggressività e il disprezzo per chi “perde”, come esaltazione del successo economico e del cinismo... E i libri, pur avendo il pregio di restare vivi a lungo, di riscattare la memoria, non incidono granché su questa realtà. Il cinema avrebbe senza dubbio mezzi di impatto più forti, ma... considerando che un film è innanzi tutto un’impresa commerciale, dove costi e guadagni regolano tutto, si può facilmente dedurre quante possibilità gli restino per uscire dal coro. Per quanto mi riguarda, le mie incursioni nel cinema sono del tutto sporadiche, mi costa troppa fatica rimanere in contatto con un ambiente che prosciuga le energie e ti lascia sempre con un senso di frustrazione...



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