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NON LAVORO

EuroSacrifici


Il Consiglio d’Europa, riunitosi a Bruxelles nel primo fine settimana di maggio, ha dato il via ufficiale all’Unione Monetaria Europea (U.M.E).
La compongono, per ora, 11 dei 15 paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Dei 4 esclusi solo la Grecia lo è indipendentemente dalla propria volontà, non soddisfacendo nessuno dei parametri di convergenza economica stabiliti a Maastricht, nel 1991, quando furono gettate le basi, con il famoso Trattato, dell’U.M.E., e che sono stati oggetto di continue verifiche in questi anni.
Proprio la Grecia sta accelerando le politiche economiche e monetarie per entrare in tempi brevi nell’U.M.E La recente svalutazione della dracma, la moneta greca, nella misura del 15% è la pre condizione, mirando ad allineare la dracma in un rapporto di cambio con le altre valute europee e l’Euro. Il resto lo faranno le misure di aggiustamento strutturale, peraltro attive da anni anche nella repubblica ellenica, suggerite dal Fondo Monetario Internazionale ed oggetto di costante controllo da parte della Commissione Europea.
Danimarca e Gran Bretagna hanno invece scelto di non partecipare alla fase iniziale dell’U.ME. per motivi politici, essendo venuto a mancare il consenso sia negli schieramenti politici che nell’elettorato, pur centrando tutti i parametri di convergenza economica fissati.
Analogo discorso vale per la Svezia che ha scelto di non agganciare la propria moneta al meccanismo di cambio fisso del Sistema Monetario Europeo (SME).

Risanamento continuo


Con la partenza dell’U.M.E. non finiscono le politiche di risanamento che, come abbiamo ben visto, hanno come obbiettivo privilegiato l’azzeramento della spesa sociale (pensioni, sistema sanitario, protezione sociale, ecc.) e la riduzione del costo del lavoro. E’ la stessa Commissione Europea che, nell’ultimo rapporto dello scorso 25 marzo, lancia l’allarme, richiedendo misure che garantiscano un alto grado “di sostenibile convergenza economica”. Queste raccomandazioni, come quelle provenienti dall’Istituto Monetario Europeo (I.M.E., un’altra delle nuove autorità) riguardano in particolare l’Italia che, con il Belgio, è stata ammessa pur non rispettando un parametro (il rapporto tra debito e prodotto interno lordo - p.i.l.).
L’Italia, per essere ammessa a partecipare fin dalla prima fase dell’U.M.E. ha dovuto anticipare il Documento di Programmazione Economico Finanziaria (D.P.E.F.), che rappresenta la cornice di riferimento per la legge finanziaria e le altre scelte di politica economica.
Nel D.P.E.F. ci sono impegni precisi per il rientro del debito entro il 2003, facendo ricorso, oltre al contenimento della spesa pubblica, ad un massiccio piano di privatizzazioni.
Il governo Prodi centra quindi l’obbiettivo fondamentale che si era dato fin dalla campagna elettorale, e su cui aveva giocato tutta la propria credibilità politica: quello di adeguare il sistema Italia ai processi di modernizzazione capitalistica di ridefinizione delle gerarchie imperialiste nell’epoca della globalizzazione. Dietro le continue polemiche di questi anni sull’ingresso dell’Italia nell’U.M.E. c’è un dato reale che non può essere messo in ombra: la partecipazione dell’Italia, una delle economie più forti del mondo, tanto da far parte del ristretto gruppo dei sette grandi (G7), da forza all’U.M.E., allargando il mercato di riferimento dell’Euro.

La lunga marcia antiproletaria


E’ stata contrassegnata da sacrifici continui, e finanziarie nell’ordine delle decine di migliaia di miliardi. Cominciò il governo Amato nel ’92 (finanziaria da 90 mila miliardi e blocco dei salari, con l’accordo del 31 luglio ’92 che doveva garantire la ripresa dell’occupazione!). Continuò il governo dei tecnici retto da Ciampi, nel ’93 (altra mega finanziaria ed accordo concertativo del 23 luglio sulla politica dei redditi), non ci riuscì Berlusconi nel ’94, ma passò il testimone allo schieramento di centro-destra-sinistra retto da Dini, che del governo Berlusconi era, non a caso, Ministro del Tesoro. Dini, ricompensato con il prestigioso Ministero degli Esteri, oltre alla solita stangata fece anche la controriforma delle pensioni. Il governo Prodi, in totale sintonia con la politica economica dei governi che lo hanno preceduto, ha completato l’opera.
L’U.M.E. rappresenta la risposta del capitale europeo alla nuova fase di competitività internazionale. Per costruire questo capolavoro, che regala ai capitalisti le aziende pubbliche (privatizzazioni), la libertà di licenziare e di non pagare quanto stabilito nei contratti (pacchetto Treu), che è avvenuto trasferendo denaro dalla parte più povera del paese a quella più ricca, c’è voluto il centrosinistra, con l’appoggio fondamentale di Bertinotti e di Rifondazione Comunista!

Il D.P.E.F 1999-2001


Forniamo delle prime anticipazioni sulle misure contenute nel documento, uscito attorno al 20 aprile, sperando di poter offrire nel prossimo numero una più attenta lettura. Il D.P.E.F copre il triennio 1999-2001 ed ha come obbiettivi principali: fissare il tasso d’inflazione all’1.5%; ridurre il rapporto deficit/P.i.l. all’1%; abbassare il debito pubblico al 106.6%; aumentare il P.i.l. (dal 2.7% previsto per il ’99 al 2.9% nel 1002); e di abbassare la disoccupazione al 10% alla fine del triennio (oggi è al 12.2%). E’ previsto un gettito di 45 mila miliardi dalle privatizzazioni, vendendo la Banca Nazionale del Lavoro (BNL) e dismettendo le società autostradali.
La manovra del ’99 è indicata in 13.500 miliardi, 4 mila dei quali provenienti dal fisco, anche se non ci saranno nuove imposte. Tremila miliardi dovranno entrare dal recupero dei crediti INPS e dal condono del lavoro nero; i restanti mille miliardi dalla riforma del sistema di riscossione.
Gli altri 9.500 miliardi che servono per completare la manovra deriveranno dai tagli alla spesa pubblica. Sono previsti, nel quadro di una generale riduzione delle spese, misure particolari per Ferrovie e Poste. Per la finanza locale, da cui, è utile ricordare, dipendono molti servizi pubblici (dagli asili alla nettezza urbana, per fare solo degli esempi) il blocco si annuncia totale. Regioni e comuni, per spendere più di quanto loro assegnato dovranno aumentare le imposte locali (addizionali su metano, auto, Ici, tassa sui rifiuti, ecc.).


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