APRIRE LA
PORTA DEL PASSATO
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Tratto da RE/SEARCH - J.G. BALLARD, pp. 33-37 |
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Poco dopo la pubblicazione de L'Impero del sole nel
1984, cominciai a ricevere telefonate che m'invitavano a
tornare in visita a Shanghai, la città dove sono nato
nel 1930 e che avevo lasciato nel 1946, apparentemente
per sempre. Ma il romanzo aveva smosso un gran numero di
ricordi, alcuni dei quali troppo inquietanti per
ritrovarseli di fronte così all'improvviso. Certamente il film che Steven Spielberg ha tratto dal romanzo era un'occasione invitante. La città, mi garantiva il regista, era ancora intatta, una Samarcanda del XX secolo. Cominciai a scrivere un seguito a L'Impero del sole che narrava gli anni successivi, la mia vita in Inghilterra fino ai giorni d'oggi. Mentre leggevo le bozze del romanzo appena completato, capii che ero pronto a tornare. Nigel Williams, curatore della trasmissione della BBC Bookmark, mi propose di lasciargli filmare il mio viaggio di ritorno a Shanghai, idea che accettai senza esitare. Non si può mai tornare a casa, ha scritto il romanziere americano Thomas Wolfe, intendendo che tutto cambia, il passato e i suoi ricordi. Da quando sono arrivato in Inghilterra, nei giorni grigi e austeri che seguivano il conflitto mondiale, ho conservato gelosamente i miei preziosi ricordi di Shanghai. Brulicante di vita, crudele ma sempre euforica, Shanghai nella mia mente era diventata un incrocio tra l'antica Babele e Las Vegas. E se i ricordi si fossero rivelati fasulli? La più grande paura era che, lungi dallo suscitare nuove memorie, questa visita potesse cancellare quelle vecchie, che per tanti anni mi hanno alimentato. Un'ora prima della mezzanotte ci stavamo avvicinando al margine occidentale di un'enorme metropoli di luci, atterrando all'aeroporto internazionale di Shanghai, sul sito della vecchia pista di Hungjao dove da bambino giocavo nelle cabine di pilotaggio degli aerei giapponesi in disarmo. Un lago di aria scura e bollente aleggiava sull'asfalto, portando con sé i sentori dimenticati della regione dello Yangtse. Gli agenti di confine cinesi furono molto cortesi mentre mi chiedevano di dichiarare che non soffrivo di AIDS o di psicopatie (tranne forse un surplus di memoria) e che non stavo importando materiali lascivi - chissà cosa voleva dire. Il nuovo libro di Julie Burchill o, ancor meglio, una biografia di Donald Trump? James Runcie, il regista del filmato di Bookmark, mi stava aspettando. Lo salutai con la battuta che m'ero ripassato per tutto il viaggio da Londra, suggerita da quel racconto di Conrad su un mercante europeo condotto alla pazzia dall'Africa impenetrabile: "Salve, James. Kurtz ritorna nel cuore di tenebra". Il problema era che Kurtz era arrivato senza bagaglio, almeno quel tipo di bagaglio che si porta in mano. Pochi minuti prima ero lì in piedi davanti al nastro trasportatore mentre tutti si impossessavano delle valigie, poi mi ritrovai solo in compagnia di quel lugubre tapis roulant. Chissà, forse l'abito da piantatore di tè, il mio "costume" per il film, era in viaggio per Caracas, Honolulu o persino Darjeeling. Fortunatamente i signori Gao e Zung della televisione di Shanghai presero in mano la situazione con grande efficientismo, inviando telex all'aeroporto di Hong Kong. La mia valigia arrivò col primo volo diretto a Shanghai. Mentre li ringraziavo mi venne in mente che, prima della guerra, un baule dei miei genitori era ricomparso un anno dopo l'approdo del loro vapore. A mezzanotte giungemmo all'Hilton di Shanghai, una torre di quaranta piani in quella che si chiamava un tempo Avenue Haig. I lampioni dalla luce sfocata, gli alberi che trasudavano e l'aria a microonde erano quelli di qualsiasi città subtropicale. Non ero ancora sicuro di essere tornato alla Shanghai che conoscevo. Il mattino seguente, quando m'affacciai alla finestra della mia camera al trentesimo piano, rimasi ancor più dubbioso. Come la Londra degli anni Trenta, Shanghai era stata una città di case basse. Ma quello che scorgevo dall'Hilton era un panorama di immensi grattacieli che si estendeva dalle aree industriali del Nord, Chapei e Yangtsepoo, fino al Sud, a Lunghua. Dozzine di possenti edifici si innalzavano in cielo con i tetti coperti di antenne paraboliche. Ma fui sollevato notando che molto più in basso la Shanghai degli anni Trenta era ancora viva e vegeta, anche se un po' fatiscente alla luce del sole. C'erano le ville in stile provenzale della Concessione francese e le case Art Déco e Tudor-da-broker-di-borsa dell'insediamento internazionale, con le loro finestre a oblò e i balconi stile transatlantico. Sfuggito a James, gironzolai per un'ora nelle strade vicine all'Hilton, dove andavo in bici da ragazzino, alzando lo sguardo verso le facciate sbiadite dei palazzi che riconoscevo dopo un distacco di quasi mezzo secolo. Rividi il vecchio General Hospital dove sono nato, il parco pubblico dove i cinesi non potevano entrare ("Niente cani e cinesi"), mentre i filobus moderni ancora viaggiavano sui binari dei giganteschi tram francesi. Shanghai un tempo era stata una città occidentalizzata, piena di Buick e Packard, ma ora era totalmente cinese, brulicante di ciclisti, con i marciapiedi affollati da bancarelle sommerse da angurie, video di Hong Kong piratati e cumuli di anguille guizzanti. Nella hall dell'Hilton la troupe di Bookmark mi stava aspettando. Un ragazzo belga di tredici anni, il cui genitore lavorava per una compagnia straniera a Shanghai, mi strinse la mano con circospezione. Avrebbe recitato la parte di me bambino nel film e James gli aveva incautamente detto che mi somigliava. "Non ti preoccupare" lo rassicurai "con la pubertà non mi somiglierai più". Partimmo per la nostra prima "location", la casa della mia giovinezza in Amherst Avenue, ora occupata dalla biblioteca dell'Ente Industrie Elettriche di Shanghai. Era stata costruita all'inizio degli anni Trenta nel classico stile Tudor-borsistico del circondario di Londra, anche se gli interni erano all'americana, con cinque bagni, aria condizionata e una cucina grande come un campo da tennis. Gli impiegati ci accolsero cordialmente, ma avevo la strana impressione di esplorare un fantasma. Passai per la sala da pranzo, ora rivestita di scaffali pieni di manuali d'elettronica, dove mio padre aveva offerto banchetti a ufficiali americani e magnati cinesi, e per la veranda, dove mia madre organizzava le sue partite di bridge. Il signor Chang, l'affabile direttore, mi accolse come se fossi un collega che non vedeva da tempo e mi invitò nel suo ufficio, ingombro di computer, in quello che un tempo era stato il guardaroba di mia madre. Discutemmo animatamente, anche se non sapevamo una parola delle lingue reciproche, all'apparenza comprendendo tutto. Più tardi salii al piano di sopra e sostai nella camera da letto della mia infanzia, che ancora conservava la sua tinteggiatura azzurrina e gli scaffali dove diligentemente riponevo i miei almanacchi e i fumetti americani. Ora allineavano riviste scientifiche e manuali in cinese. Nel bagno c'era ancora lo stesso sedile su cui, da piccolo, la tata russo-bianca mi ordinava di restare seduto senza far niente per ore, per punizione - l'equivalente anni Trenta della televisione, per tenere a bada i bambini, e forse molto più educativo. Quel primo giorno mi aggirai per Shanghai come attraverso una nebbia. I ricordi mi sballottavano come la folla cinese che circondava la troupe. Mentre guardavo il ragazzo belga che passava in bici davanti al Cathay Hotel, dove Noel Coward aveva scritto Private Lives, mi tornarono alla mente immagini della Shanghai dei gangster e dei re dei mendicanti, delle prostitute e dei borsaioli. Avevo aperto una porta che dava su un passato perfettamente conservato, anche se infarcito di spiacevoli automatismi da parte mia: mentre camminavo per Nanking Road, mi accorsi che mi aspettavo che i passanti cinesi si ritraessero per farmi largo. Tornerà mai Shanghai ai passati splendori di prima della presa del potere comunista? Grazie a Dio, i mendicanti e gli storpi che esibivano le piaghe aperte se ne sono andati per sempre e non ci sono più le armate di coolies piegati sotto le immense some vomitate dai sampan lungo il Bund. La gente mi sembrava baldanzosa e ben nutrita; le coppiette, gli uomini in maniche di camicia e le ragazze in quelli che sembravano abitini C&A, passeggiavano mano nella mano davanti ai grandi magazzini Sun Sun e Wing On. Certo, non c'erano nelle edicole giornali critici contro il governo, né manifesti che propagandassero partiti d'opposizione. Eppure, ovunque, era evidente che il capitalismo aspettava di risorgere, in migliaia di bottegucce e traffici clandestini. Come gli europei negli anni che precedettero la Guerra dell'oppio, i turisti occidentali sono nuovamente confinati nei loro recinti, l'Hilton, lo Sheraton, a bere Carlsberg d'importazione e a guardare le videocassette dei film di Hollywood. Ma stavolta nessuna cannoniera inglese o americana costringerà i cinesi a garantire loro le concessioni, che saranno in questo caso finanziarie e non territoriali: paradisi fiscali e zone imprenditoriali a locazione gratuita. Ma, già stanco del Bund e delle sue grandi banche, ero determinato a trovare l'ultimo tassello mancante del passato, il campo di Lunghua dove i giapponesi avevano internato duemila civili britannici durante la guerra. Per quasi tre anni mio padre, mia madre, mia sorella e io fummo detenuti là, dormendo tutti assieme in una sola stanza. Nei due giorni successivi, mentre il tempo passava inesorabile, ci imbarcammo in una ricerca pazzesca e infruttuosa. L'ininterrotta distesa di risaie che mi ricordavo tra Shanghai e Lunghua, otto miglia a Sud, era stata inghiottita dall'area metropolitana, sterminate zone industriali e parchi scientifici, gigantesche strutture di cemento e quartieri di grattacieli. Cominciavo a disperare di riuscire a trovare il campo. Prima della guerra era un college per la preparazione degli insegnanti; i suoi edifici di cemento potevano essere scomparsi sotto una di quelle enormi autostrade. Finalmente un vecchio poliziotto in una polverosa stazione lungo la strada ci confermò che c'era nel distretto di Lunghua una grande scuola che un tempo aveva ospitato prigionieri europei, anche se non si ricordava di quale guerra. Dieci minuti più tardi, come per miracolo, attraversavo i cancelli di quello che era stato il campo di concentramento per civili di Lunghua e fissavo il blocco F, il centro amministrativo dove il comandante giapponese Hyashi aveva installato il quartier generale; ora, pertinentemente, il suo ufficio era lo studio del direttore. Quarantacinque anni avevano contribuito a trasformare il lager in un accogliente campus di scuola media, pieno di alberi e fiori. I custodi guardarono stupefatti questo inglese sessantenne che si lanciava tra gli alberi verso un piccolo stabile a due piani, il blocco G, dove vivevo coi miei in una delle quaranta stanze, ciascuna delle quali ospitava una famiglia britannica. Irruppi nella hall silenziosa, dove ci servivano la razione quotidiana di pappa di riso e patate dolci e nei bui corridoi dove due volte al giorno facevano l'appello. Gli studenti erano in vacanza, le aule sbarrate, ma era rimasta aperta una stanza che era utilizzata da ripostiglio, piena di cartoni e ciarpame vario. Era quella la camera della famiglia Ballard, ogni crepa nel soffitto, ogni pezzo di intonaco sgretolato, ogni intaccatura nel telaio della finestra mi era familiare come le linee del palmo della mano. Sostavo tra le macerie dei miei ricordi quando mi raggiunsero James e il resto della troupe. "Aspettavano solo che arrivassi tu, Jim", disse il cameraman. "Ti hanno perfino lasciato la porta aperta". Mentre tornavamo all'aeroporto ci ripensai. Avevo raggiunto la pubertà nel campo, lì avevo sviluppato i rudimenti di un cervello adulto, visto la generazione dei miei genitori soffrire anni di tormenti e malattie. Avevo guardato una guerra mondiale dal bordo-ring, talvolta sul quadrato, tra le gambe dei pugili. Tornare al campo era stato, inconsciamente, la principale ragione del mio ritorno a Shanghai, visitare Lunghua aveva aperto una porta che pensavo fosse chiusa a chiave da quarantacinque anni. Ero entrato in contatto con me stesso più giovane, avevo avuto la conferma che i miei ricordi di Shanghai erano chiari e precisi. Quando l'aereo decollò ero esultante, vivace come i Rolex d'oro al polso degli affaristi della nuova Cina che affollavano il volo per Hong Kong. In fondo, è possibile tornare a casa e da qualche parte c'è sempre in attesa una porta che non hanno chiuso a chiave. |
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