Il cyberpunk è morto
    La conclusione del "cyberpunk" come esperienza letteraria è stata sancita, nel giugno del 1991, da un articolo di Bruce Sterling apparso sulla rivista inglese "Interzone" (Cyberpunk in the Nineties, tradotto come Il cyberpunk negli anni Novanta sul n. 2 dell'"Isaac Asimov Science Fiction Magazine"). In quelle pagine, il teorico riconosciuto del Movimento storicizzava i meriti di se stesso e dei propri colleghi, incitava a "superare" il lavoro già compiuto, inveiva contro gli imitatori superficiali e concludeva profetizzando che "gli anni Novanta non apparterranno al cyberpunk".
Ciò nonostante, la fantascienza dell'ultimo decennio deve moltissimo al lavoro di Sterling e soci: i loro temi e le loro tecniche narrative si sono ormai diffuse a macchia d'olio nella narrativa di genere, aggiornandola. E se molti autori che facevano parte del movimento sono passati a occuparsi di altre cose, non è mancato chi negli anni successivi ha saputo riprodurne in un libro lo spirito originario, a cominciare naturalmente da Neal Stephenson con il suo ormai mitico Snow Crash.
Ma oltre a Stephenson, anche altri autori hanno scritto "vero" cyberpunk dopo la data fatidica del 1991. Innanzitutto Pat Cadigan (di cui la ShaKe ha presentato il romanzo d'esordio Mindplayers), che continua a scrivere romanzi e racconti di chiara ispirazione cyberpunk. Ma la lista dei titoli recenti è ben nutrita e, solo per limitarci a quanto è stato tradotto in italiano, spazia dagli incubi surreali dell'inglese Richard Calder (Virus ginoide, Nord 1996) alle imitazioni giapponesizzanti e non del tutto riuscite di Alexander Besher. Una gamma di tentativi che testimonia, ancora una volta, la vitalità della formula letteraria lanciata da William Gibson nel 1984.